UN PO' DI TUTTO

                                                                                      

                                      Sobrietà ed eleganza del costume delle antiche caccuresi

 

Le donne caccuresi, a differenza di quelle della vicina S. Giovanni in Fiore o di Savelli, per non parlare di quelle di moltissimi altri paesi della Calabria che hanno sempre indossato sontuosi costumi (vedi le pacchiane) , si sono vestite, nel corso dei secoli,  assai sobriamente evitando sia gli eccessivi fronzoli che caratterizzano i ricchi costumi di altri luoghi e di altre culture, sia l’uso di colori sgargianti ed eccessivamente appariscenti come il rosso o il fucsia. Se ciò sia dipeso dalla povertà o da libera scelta, non è dato sapere; quel che è certo è che l’abbigliamento delle nostre antenate è sempre stato  scarsamente ricercato e caratterizzato da una essenziale semplicità.  Il grigio, il blu scuro, il marrone scuro o il nero sono state le tinte predominanti prescelte dalle nostre nonne e, prima ancora, dalle bisnonne e dalle trisavole.  Semplicità e gusto sono stati dunque gli elementi caratteristici di un modo di vestire povero, ma dignitoso e, tutto sommato, di gusto.  Il costume era composto da una gonna,   una camicetta ed un grembiule nero munito di piccola tasca sulla parte destra. La gonna, di colore scuro, appariva leggermente arricciata o plessata e si abbottonava davanti. La camicetta (in tinta unita o a fantasia con sfondo scuro e pois o fiorellini), la cui larghezza era pari alla circonferenza petto,  presentava delle piccole pieghe cucite che partivano dalla spalla ed arrivavano al giro vita dove c’era un’arricciatura elastica. Sulla stessa arricciatura  si adagiava la cinta del grembiule che cingeva i fianchi allacciandosi sul davanti sotto il grembiule stesso. Quest’ultimo, a sua volta, presentava una lieve arricciatura o delle piegoline non molto profonde. La parte inferiore di quest’ultimo capo di abbigliamento poteva essere adornata con una striscia della stessa stoffa larga 4 – 5 centimetri arricciata o plessata.
    Un abbigliamento non molto ricercato, come si può notare e che sembrava fatto apposta per evitare di risultare assolutamente appariscente.  Ma, a destare stupore e curiosità era anche l’insolita uniformità nel modo di vestire, (a parte, ovviamente, la qualità dei tessuti), delle donne del popolo ovvero le mogli dei contadini e degli artigiani  e quelle delle famiglie più abbienti, le cosiddette “Donne” o “Gna” le quali  non disdegnavano di intrattenersi con le altre meno fortunate, come è sempre stato nelle tradizioni di questo civilissimo popolo.
     Questo semplice, ma nel contempo bellissimo costume,  è stato adottato dalle nostre donne fino a pochissimi anni fa (duo o tre), quando sono decedute le ultime rappresentanti di una società che si è andata forse assai rapidamente evolvendo mettendo repentinamente da parte usi e costumi di cui  i Caccuresi dovremmo andare fieri.

                     I SOGNI A VOLTE SI AVVERANO

   Devo al mio carissimo amico Giovanni Gallo e al figlio Luigi, uno dei più affezionati ex alunni, l'omaggio di questo prezioso "caccavu" esposto nel museo demologico della mia famiglia accanto a una delle chitarre fabbricate da mio padre. E' lo stesso caccavu che si vede  nella foto in basso assieme alle mani di Giovanni che mostrano due fiscelle col formaggio appena cagliato, in realtà un fotogramma di un video didattico che girai insieme a mia moglie nei primissimi anni 90 con la consulenza dello stesso Giovanni e di Luigi dal titolo "Dall'erba alla ricotta". Purtroppo all'epoca disponevo di una videocamera analogica per cui, pur avendone fatto qualche copia i nastri si smagnetizzarono e il lavoro andò perduto. 
 
Tra i più bei ricordi della mia fanciullezza c'è l'odore del formaggio pecorino stagionato che promanava dalla dispensa di nonno Peppino Marino nella quale non mancava mai una forma di pecorino locale stagionato. A Caccuri, infatti, fino a qualche decennio fa si produceva un eccellente pecorino che oggi non si trova più. Mi capita spesso di comprare nei supermercati della zona del pecorino anche locale, ma che non ha nulla a che vedere col formaggio dei nostri vecchi pastori; il nostro era di un altro pianeta. Sarebbe bello se, come si è fatto per la valorizzazione dell'olio di pennulara di Caccuri, una cultivar introdotta sul nostro territorio dai monaci basiliani in uno dei periodi storici più floridi per la Calabria, si facesse la stessa cosa anche per recuperare la nostra tradizione casearia e se qualche giovane imprenditore illuminato si mettesse a produrre il nostro eccellente formaggio. I sogni a volte si avverano. 

 

                                        BREVE STORIA DELLA MANCA DEL ROSARIO



   Manca del Rosario è un appezzamento di terreno a nord - est dell'abitato di Caccuri alle pendici della Serra Grande. Nel XVI e XVII secolo apparteneva, come si evince dal nome, alla Congregazione del SS. Rosario, probabilmente a seguito di una donazione dei duchi Cavalcante, gli stessi che avevano donato ai confratelli devoti alla Vergine del Rosario i Vignali, un fondo a est del centro storico sotto la chiesa di San Rocco. Purtroppo, mentre della donazione de i Vignali esiste un atto del 4 gennaio del 1750 col quale il duca Don Marzio, assistito del suo segretario Diego Guarascio dona il terreno alla Congregazione, non siamo riusciti a rintracciare analoghi documenti per la donazione della Manca. Con la conquista francese e la legge 7 agosto 1809 di Gioacchino Murat, vennero soppressi i monasteri e le congregazioni e i loro beni confiscati e venduti ai privati. Così non solo le poche terre intorno al cinquecentesco convento di proprietà dei frati domenicani, ma anche i Vignali e la Manca del Rosario finirono in mai private. 
   Verso la fine del XIX secolo, infine, parte della Manca fu acquisita dal Comune di Caccuri per ubicarvi uno dei cimiteri più brutti e più caotici d'Italia. 

 

                                                                       IO MANGIO CALABRESE

     A casa mia si mangia soprattutto calabrese e credo sia normale o almeno così dovrebbe essere in tutte le case calabresi se vogliamo dare una mano alle nostre eccellenti aziende, a tanti bravi e onesti imprenditori, spesso giovani cervelli che rientrano dall'estero o da altre regioni italiane o che scelgono di restare nella loro terra scommettendo in un suo futuro sviluppo socio economico che ha già avuto inizio da qualche anno, nonostante l'ostilità o l'inefficienza dei governi nazionali e regionali, la spaventosa carenza di infrastrutture, lo sfruttamento coloniale della nostra terra e delle nostre risorse energetiche a vantaggio di altre aree del paese. 
     Conoscevo Longobucco per la sua storia, la sua cultura, i suoi monumenti, i suoi personaggi illustri a cominciare da uno dei più grandi chirurghi italiani del XIII secolo, quel Bruno da Longobucco tra i fondatori e tra i primi professori dell'Università di Padova, ma qualche tempo fa ho scoperto che la cittadina della valle del Trionto è sede anche di un salumificio che produce eccellenti soppressate come la vicina Bocchigliero, come Spezzano della Sila, come Luzzi i cui prodotti ormai riempiono gli scaffali dei nostri supermercati, come i formaggi di San Giovanni in Fiore, come la ndujia di Spilinga, come la sardella di Crucoli e di Cirò Marina, come le decine e decine di eccellenti vini della regione, come l'olio  extra - extra vergine di oliva , come i mostaccioli di Soriano, come i tanti amari che spesso vincono il primo premio
nei concorsi internazionali, come i prodotti a base di bergamotto, di liquirizia, il tonno, le acque minerali. Ormai in Calabria si trova di tutto e di più e soprattutto, la genuinità e la qualità dei nostri prodotti. 

                                                  PROVERBI METEO E NON SOLO



   Dice il saggio: "Marzu rumpa' le corna allu vitellazzu" e dice bene! Questi di marzo sono tra i giorni più freddi dell'inverno. Ci sono state un paio di notti nelle quali la temperatura è scesa di poco sotto lo zero e anche oggi non scherza, ma ormai l'inverno, come si dice, "E' cumu 'u porcu supra 'u maillune" (come il maiale che sta per essere scannato). Almeno si spera, anche se, per essere onesti quest'anno l'inverno è durato "cumu 'a nive 'e aprile" (Bona trovata, nòrama gentile, te via durare cumu 'a nive 'e aprile).

 

                                                       Il "nostro cibo", la nostra scuola di vita



   Oggi vi propongo questa foto che ritrae un bel po' di caccuresi degli anni 60 del secolo scorso. Alcuni ci hanno lasciato qualche anno fa, altri qualche decennio prima, qualcuno è ancora in vita, ma è tutta gente che chi ha la mia età, ma forse anche una decina di anni di meno, ha conosciuto e ricorderà. Per facilitare a chi non li ricordasse  l'identificazione li ho numerati accompagnandoli con una didascalia. Pubblico la foto perché ritengo giusto ricordare e onorare chi ci ha preceduto e "consegnato il testimone" in un paese nel quale fino a pochi anni fa, ci si rivolgeva agli anziani chiamandoli rispettosamente zio o zia  e  perché ognuno di noi è anche il prodotto dell'incontro e dell'interazione con le generazioni che lo hanno preceduto, il paese stesso è il prodotto dell'operosità e dell'ingegno di questi uomini. "L'uomo è ciò che mangia" diceva Fuerbach e questo è stato il nostro cibo morale, intellettuale, sociale, la nostra biblioteca, la nostra scuola di vita. 

1 Vincenzo Fodero ( Vicenzu 'u purberaru, fuochista e idraulico)   2 Domenico Falbo (Micuzzu 'u vurpu)  3 Michele Dardani (fratello del carabiniere medaglia d'oro)  4  Peppino Salerno  5 Carolina Lucente  6 Peppino Gigliotti ( 'u Dado) 7 Eugenio Pitaro (macellaio)  8 Enrico Pasculli  9 Matteo Oliverio  10 Francesco Sperli (sindaco del paese, poi ispettore scolastico) 11 Guido Iaconis (Guiruzzu)  12 Vincenzo Parrotta (Vamune) 13 Pietro Paolo Loria (il padre del pittore Enzo) 

                                                        PICCOLA STORIA DEMOGRAFICA DI CACCURI
                                                                            di Peppino Marino

   Caccuri, come quasi tutti i paesi interni del Mezzogiorno e della Calabria registra una  progressiva diminuzione degli abitanti provocata in parte dal calo delle nascite legato anche alla continua emigrazione dei giovani e quindi alla riduzione del numero della nuove famiglie residenti. Al 31 dicembre del 2021 i residenti erano soltanto 1553. Bisogna andare indietro di 150 anni, al 1871 quando gli abitanti del paese erano 1430 per trovare un dato peggiore di quello di oggi. I minimi però risalgono al 1621 e al 1844, l'anno del passaggio dei fratelli Bandiera quando la popolazione scese addirittura a 800 abitanti, mentre il massimo nella storia del paese fu toccato nel 1954  con 2804 residenti. Qui di seguito pubblichiamo i dati sulla popolazione caccurese dal 1272 al 1955.

                                                              La popolazione di Caccuri nei secoli
                                                                                dal 127al 1955

         ANNO                               POPOLAZIONE

1272                                                                        2378

1276                                                                        2385

1427                                                                        1890

1621                                                                          800 (minimo)

1742                                                                        1031

1806                                                                          808

1815                                                                          929

1816                                                                          908

1825                                                                          806

1830                                                                          849

1844                                                                          800 (mimimo)

1847                                                                        1000

1848                                                                        1009

1861                                                                        1204

1871                                                                        1430

1881                                                                        1620

1901                                                                        2297

1911                                                                        2334

1921                                                                        2482

1931                                                                        2155

1951                                                                        2617

1952                                                                        2693

1953                                                                        2752

           1954                                                                        2804 (massimo)
           1955                                    2617

                                          QUELLA DESTRA CHE FA VACILLARE LA MIA FEDE

                                          

   Che io sia un uomo di sinistra, anzi, per dirla tutta, un comunista incallito lo sanno perfino le pietre, ma di fronte a uno spettacolo simile sono portato a dire che questa è l'unica Destra che ho nel cuore. Un caldo ringraziamento ai rami di quercia sulla sinistra. 

 

                                                         OGNI FOTO è UNA PAGINA DI STORIA




   Fra le foto che mi ha inviato il carissimo amico Roberto Talarico credo che questa sia una delle più interessanti  non solo per i personaggi ritratti tra i quali si riconoscono il compianto Nicola Talarico, padre di Roberto e i colleghi Alberto Macrì e Peppino Lucente col cappellino e gli occhiali, ma anche e soprattutto per il panorama alle spalle del gruppo che ci mostra i fondi Campo e Prato, già proprietà degli eredi Ambrosio sui quali sorgerà da lì a poco gran parte del nuovo rione Croci, ancora quasi sgombri di case, in particolare il Campo, mentre nel Prato già si intravede qualche fabbricato in costruzione.
   La foto dovrebbe risalire ai primissimi anni 60 del Novecento considerato che l'urbanizzazione selvaggia del Prato ebbe inizio all'incirca nel 1956.  Il gruppo siede su uno spuntone ai piedi della Mezzaluna, la più bella e imponente formazione arenaria orrendamente capitozzata negli anni 70.
Il Prato, già di proprietà dei del convento dei domenicani di Caccuri, fu venduto nel primi anni del XIX secolo da Giocchino Murat, re di Napoli dopo la conquista del Regno da parte dei francesi e la cacciata dei Borbone, a segito dello scioglimento degli ordini monastici. 

                                                      BUON ANNO, BUON PARROZZO E BUON ZIBIBBO

   Ci siamo quasi: ancora poche ore e questo sciagurato 2023 cederà il posto al nuovo anno che, anche se bisestile, cosa che faceva toccare ferro ai nostri antenati (Annu bisestu, viatu chi ce resta) speriamo sia migliore di questo che ci lascia in un mare di guai.
   Stasera, mentre Amadeus fracasserà gli zebedei a Crotonesi che comunque non aspettano altro, noi festeggeremo l'arrivo del 2024 mangiando mandarini e clementine calabresi,  una fetta di Parrozzo  dono della nostra consuocera abruzzese e bevendo un buon bicchiere di zibibbo siciliano. Un fine anno, quindi, all'insegna dell'eno - grastronomia meridionale. 
   Il parrozzo nacque nel 1920 per opera di un geniale pasticciere di Pescara, Luigi D'Amico,  che volle creare un dolce a imitazione del pane rozzo dei contadini abruzzesi ricoperto di cioccolato. La prima persona che lo assaggiò fu D'Annunzio che, estasiato, gli dedicò un madrigale dal titolo "La Canzone del Parrozzo". Ma il pelato Vate d'Italia, sempre per rendere immortale questo dolce, scomoda persino Dante e scrive: 

"Dice Dante che là da Tagliacozzo
ove senz'arme vinse il vecchio Alardo
Curradino avrie vinto quel leccardo
se abbutto avessi usbergo di parrozzo."

Si tratta di un chiaro riferimento alla battaglia di Tagliacozzo nella quale il condottiero Alardo di Valery, con l'inganno, sconfisse l'esercito di Corradino, il nipote del grande Federico II  ponendo fine alla presenza sveva in Italia.  Corradino, osserva D'Annunzio, avrebbe senz'altro sconfitto quel golosone se avesse imbottito le corazze dei suoi soldati di parrozzo", un cibo che, evidentemente, dona l'ìmmortalità. 
  Con queste divagazioni dannunziane auguro a tutti voi, ai vostri cari, ai malati, ai senzatetto, a chi non ha più un lavoro, a chi questa notte lavora e veglia sulla nostra salute e sulla nostra sicurezza, ai popoli in guerra, ai bimbi, ai vecchi, alle donne palestinesi, curde, ukraine, a quelle dei paesi africani, alle coraggiose donne iraniane uno splendido 2024. Auguri affettuosissimi anche al simpatico Amadeus, anche se non capisco perché uno bravo come lui accetti di condurre quei programmi insulsi che ci propina tutte le sere.


                                 CONTAMINAZIONI CULINARIE

 



   Sembra incredibile, ma in questo semplicissimo contorno natalizio c'è tantissima storia della Calabria e dell'Italia meridionale, quella parte d'Italia che una volta costituiva il regno di Napoli e prima ancora il Regno di Sicilia, una storia di invasioni, conquiste, passaggi dinastici, ma anche di accoglienza, di integrazione tra popoli diversi, di contaminazioni culturali che finirono per arricchire un po' tutti i popoli che vi si incontrarono: dal patrimonio genetico alle lingue locali, alle culture, alle tradizioni, alla pasticceria, alla gastronomia, un processo che continua anche ai nostri giorni con l'arrivo di immigrati provenienti dai paesi magrebini, dall'Africa centrale, al Medio Oriente e dai paesi dell'Est europeo. Il Mezzogiorno è sempre stato e lo è tuttora un crogiolo di popoli e di civiltà: dai fenici agli arabi, dai greci ai normanni, agli svevi, ai francesi, agli spagnoli, agli arberesch. Le lingue e i dialetti meridionali sono infarciti di termini greci, arabi, francesi, spagnoli, germanici, fiamminghi; ci sono paesi della Calabria nei quali si parla ancora la lingua di Omero e l'albanese del XV secolo; molti piatti e dolci della cucina siciliana e calabrese sono il frutto di contaminazioni tra le diverse tradizioni etniche. 
   Il piatto nella foto è un esempio di contaminazione calabro - georgiana: badrijiani georgiano e olive ammaccate caccuresi. Il badrijiani è un piatto di melanzane grigliate farcito con salsa di noci, aglio, peperoncino, aceto di vino rosso, prezzemolo, coriandolo e chicchi di melagrana; le olive ammaccate non hanno bisogno di presentazione. 
   

 

                                                        CALABRIA NATALIZIA, CALABRIA DI DELIZIE

 

   Tra i tantissimi dolci che allietano le tavole calabresi in questi giorni di festa, oltre a quelli tipici della  Presila come la pitta 'mpigliata, i pizzulìioni, i turdilli, i natalini, ve ne sono altri originari delle varie aree geografiche della nostra regione, quasi tutti di origine antichissima perché frutto dell'incontro e delle "contaminazioni" socio - culturali tra i vari popoli che hanno abitato o hanno colonizzato  la nostra terra. Tra questi voglio ricordarne due: le nacatole e il cumpettu.
   Le nacàtole sono dolci fritti che si preparano soprattutto nella zona della Locride, ma anche in altri paesi del reggino. Il nome pare derivi da nake, un sostantivo greco che indica il vello di lana che in calabrese diventa  "naca", culla, perché hanno la forma di una culla e, secondo il ricercatore bovese Pasquale Casile, erano già conosciuti in epoca magnogreca come dolci nuziali.
   Molto interessante anche 'u cumpettu noto anche coi nomi di cupeta, copata, o cubbiata, per alcuni anche cumpeta, un torrone a base di sesamo che ho imparato a conoscere nel 1971 a Badolato, assieme a mia moglie. Si tratta, infatti, di un dolce, come dire, "tipicamente italiano", nato, cioè in quel lembo della Penisola abitato dai Vituli e dal re Italo che diedero il nome prima alla loro terra, poi all'intera penisola. Come dicevo, è a base di sesamo , mosto cotto, miele, noci e mandorle, davvero squisito. Mia moglie ne prepara una versione senza mosto cotto, comunque anch'essa eccellente. 
  Davvero difficile elencare la nostra variegata produzione dolciaria anche perché se ne scoprono sempre di nuovi. A questo proposito voglio salutare e ringraziare l'amica Mirella Loria, alla quale auguro buone feste assieme ai suoi cari, per avermi fatto conoscere i natali. Sotto, allora con queste leccornie che poi a gennaio ci rimettiamo a dieta. 

                            FILASTROCCA DI NATALE

Filastrocca andata a male

per questo mese che porta il Natale,

 il primo mese davvero freddino

nel quale nasce Gesù Bambino

che nasce  povero, eppure giocondo

perché sarà il Redentore del mondo,

che nasce povero in una grotta

e per i poveri ancora lotta.

Gesù rinasce, ma nella sua terra

come ogni anno, c’è ancora la guerra,

guerra infinita, guerra intestina

in questa terra di Palestina

dove s’incontrano tre religioni,

ma non si voglion sentire ragioni.

Però Gesù rinasce per tutti,

che siano belli e che siano brutti,

per gli ignoranti, per gli uomini dotti,

atei, laici, credenti e bigotti,

anche se gli ultimi, con fare truce,

lo mettono sempre in cattiva luce

e, come un tempo lontano ed atroce,

ancora oggi lo mettono in croce.

Ma oggi è festa, bando al dolore!

Trionfino pace, giustizia ed amore,

scompaia per sempre dal mondo il male!

Viva la pace, viva il Natale!

                                                          LA MARIOLA IN QUATTRO MOSSE



   Che c'è di meglio d'inverno, nelle serate fredde di una buona mariola, l'eccellente piatto dei nostri nonni calabresi che ti scalda lo stomaco e il cuore? E non è nemmeno difficile da preparare, né sofIsticato, la si prepara in sole quattro mosse, come una breve partita di scacchi. 
Prima mossa: preparare una fritattina sottile con la cipolla e gli aromi;
seconda mossa: tagliare la cipolla a striscioline;
terza mossa: Preparare un buon brodo vegetale con cipolla, patata, carota e sedano;
quanta mossa: cuocere per 5 minuti le striscioline di cipolla nel brodo e servire caldo. 

 

                                          FILASTROCCA DI DICEMBRE

Filastrocca delle ombre   ,
eccoci, alfine, nel freddo dicembre,
il mese nel quale, senza ombra di danno,
cala il sipario per il vecchio anno,
mentre in paese si ammazza il maiale
perché a dicembre si è già a Natale,
il compleanno di Nostro Signore
che viene al mondo e non trova tepore,
perché oltre al gelo di un tempo inclemente,
spesso, c’è quello  che emana la gente
che, in preda al più becero egoismo,
ha messo al bando amore e altruismo
per cui non basta un babbo Natale
a bandire dal modo l’odio e il male.
Però il Natale ci rende più umani,
più solidali, altruisti e più buoni
talché arrivati  a Capodanno,
malediciamo il vecchio anno
e, come è d’uso per il trasformista,
al nuovo anno facciamo la festa,
salvo aspettare ancor San Silvestro,
per preparagli di nuovo il capestro.

 

                                                             ACCHJIAPPARE I CUMPETTI


                                                                                       

Auguri, auguri, arriva Sarbature
E tutta ‘a gente jetta li cumpetti,
e tutta ‘a marramata e re crieature
se fruganu cu’ ‘lefanti ‘ntra via
per’ acchijappàre chilla grazia ‘e Dio.

  Da 'U spusaliziu
di Peppino Marino

   Chi avendo più di sessant'anni non ha mai acchjiappatu i cumpetti per le strade del paese? Quando ancora i matrimoni erano "genuini" e non le elefantiache cerimonie di oggi che iniziano al mattino e si concludono verso le due di notte dopo una cena che non inizia prima delle 22 con  lo stomaco ti sale in gola per la fame perché prima gli sposi devono fare migliaia di foto e video col drone, senza drone, con i genitori della sposa, con quelli degli sposi, con fratelli, sorelle, cognati, cognate, zii e zie, nipoti cugini e chi ne ha più ne metta, il corteo partiva dalla casa della sposta dopo aver sparato in aria con un fucile da caccia tre colpi per annunciare a tutto il paese che la sposa, come San Rocco, stava uscendo da casa. Il matrimonio si celebrava sempre nella chiesa del paese. All'uscita il corteo con gli sposi in testa si dirigeva verso il locale del ricevimento, spesso la casa della sposa o un locale idoneo nelle vicinanze della stessa per "la spartogna", cioè qualche vassoio di biscotti fatti in casa, e dolciumi vari e qualche bicchierino 
di liquori anche questi fatti in casa. 
   Durante il tragitto tra la chiesa e il luogo del ricevimento  amici, parenti, paesani al passaggio degli sposi gettavano per strada manciate di confetti,  interi vassoi di confetti. Allora la folta schiera dei monelli al seguito si gettava a terra in ginocchio e tra spintoni e imprecazioni ognuno di loro cercava di acchjiappare  più confetti possibili. La scena si ripeteva più volte  sicché alla fine, anche il più imbranato dei fanciulli aveva le tasche colme dei deliziosi confetti. Quel giorno non solo era risolto il problema della fame, ma anche per loro era festa grande. 
   I giovani che non hanno mai assistito a una scena del genere possono farsene un'idea osservando i fanciulli in primo piano in questa foto colti mentre sono così impegnati in questo diciamo così rito da bloccare addirittura il corteo nuziale con il compianto Rocco Rugiero che accompagna all'altare la sorella che andrà in sposa al maresciallo Blaconà. Oltre a loro nella foto si riconoscono Enrico Aggazio, suocero di Rocco, Angelo Noce, il padre del mio amico Peppino, Vincenzo Lucente (Cenzu) in abito e cappello nero, e Peppino Benevento. Un documento davvero prezioso per lo studio degli usi, costumi e tradizioni del passato. 

 

       IL PENSIERO FILOSOFICO DI GIOVANNI MARULLO

  E' una vera ingiustizia che il nome di Giovanni Marullo, uno dei più grandi filosofi, almeno tra quelli caccuresi, non figuri tra i testi scolastici. Le sue massime, i suoi aforismi, le sue perle di saggezza che sono il condensato della filosofia di questo ex carabiniere, usciere comunale e banditore (jettabannu) hanno formato (o almeno avrebbero dovuto formare) diverse generazioni di caccuresi e sono sempre attualissimi. 
   Cominciamo dalla più famosa con la quale ci insegna a tenere al loro posto gli  impiccioni, gli sputasentenze, i moralisti ipocriti sempre pronti a cogliere in castagna il prossimo: 

"Ognunu se sa li menzi cazzi sui", ognuno di noi conosce la metà dei casi suoi, figuriamoci quelli degli altri e allora come si possono giudicare gli altri se non conosciamo bene nemmeno noi stessi era la conclusione ineccepibile del pensatore caccurese.
   Marullo soffriva molto per l'insipienza dei suoi compaesani, i più zelanti nel dimostrare la validità del vecchio motto latino Nemo propheta in patria con il loro servilismo nei confronti dei forestieri che capitavano a Caccuri e" si ce 'ncuncavanu" ovverro ci piantavano le loro radici ritrovandosi in breve tempo da "zinzule" che erano, re. Anche per questo zu Giovanni aveva pronta la sua spiegazione: 
"Allu paise 'e ra muntagna (metafora per indicare Caccuri) c'è aria bona, acqua bona e collocatore bonu", quindi oltre alla salubrità del luogo, anche il collocatore che ti trovava un lavoro magari a scapito di qualche caccurese che non gli stava particolarmente simpatico. Solo a Caccuri, constatava con ironia amara, può capitare che " 'Nu figliu 'e marru vuttaru diventari don Antonio Tino", ciò uno spiantato figlio di un maestro bottaio viene salutato con il "don", un appellativo che spettava ai nobili e agli ecclesiastici, insomma a persone altolocate solo perché marito di una maestra di scuola che, per la sua professione si guadagnava il corrispondente femminile di "donna". Don Antonio, quindi, non perché persona altolocata, nobile, membro del clero, ma perché marito di una "donna". 
   Zu Giovanni era un convinto epicureo, un uomo che amava il vino e le gozzoviglie a conferma della grandezza e della validità della sua filosofia. Credo meriterebbe l'intitolazione di una strada o, come suggeriva più volte il mio amico Peppino Lopez, un monumento. 

                                                                                 CACCURI, CURAGGIU!
                                                                                       
di Peppino Marino

 

Quannu Caccuri era ‘nu paise

Chjiunu re gente e senza case chiuse,

cum’era bellu, cumu era accogliente,

chi belle rughe, quanta brava gente!
 

Mentre c’era ancora la Pullara(1),

ciucciari, zappaturi, pecurari,

furgiari, marrurasci e quararari,

già azati, se mintianu a fatigare.

 

‘U vecchiu ‘e Catanzaru aperìa lu barru(2)

e za Luisa la putiga ‘e vinu,

zu Rusariu carricava lu carru,

zu Rocco carricava lu trainu.

 

‘Ntra  lu salone poi, zu Gennarinu,

ch’era ‘nu tipu chi ‘un vattia la fiacca,

mintìa ‘nu suprataccu a ‘nu tappinu

mentre Giuvanni Gallu cusìa ‘na giacca.

 

Poi c’erari ‘a Marrucarmina, za Mariuzza,

affaccennata a misurare ‘a pezza

‘e taffettà, pe’ lu corredu ‘e Annuzza,

chilla e ru vasciu ‘ntra la vinelluzza.

 

Cchiù avanti ancora, ‘a forgia ‘e zu Michele

E zu Michele chi ferrava ‘nu sceccu

E ancora, ‘u putighinu ‘e Maria Mele

Chjiunu re spuntaturu e de tabbaccu.

 

E la putiga ‘e za Rosina Faziu,

‘a chjianca ‘e Luiginu Iacumetta,

e chilli tempi se pagava lu daziu

puru si macellava ‘na crapetta.

 

‘Nguacciu la chjianca c’era l’osteria

‘e Caterina Pisanu e, si ce jia,

manciava ‘a tielluzza, ‘u spezzatinu…

e te sculava puru ‘u litru ‘e vinu.

 

E alla Misericordia quanta gente!

Cu’ l’ufficiale, don Nicola Brancati,

alla posta, ‘ntru vasciu ‘e ri Lucente

C’era sempre ‘na fulla ‘e penzionati

 

Chissu era ‘n ufficiale ‘e ru Casinu

Ch’aviari ‘nu vecchjiu Topolinu

E chi a Caccuri, pe’ cchiù de vint’anni,

stava de casa due marru Giuvanni.(3)

 

E quanta gente ‘ntra lu Vinculatu,

allu Trabbuccu e puru alla Iureca,

allu Pizzettu ci n’era ‘na freca,

lu Mururuttu lu cchiù popolatu.

 

‘Ntra varberia ‘e Luiginu  ‘u Pittaru,

 ‘Nntr ‘u barru re  Micuzzu lu Biunnu,

alla putiga ‘e Franciscu l’ogliularu

o a chilla ‘e Sarbature Capitunnu.

 

E mo, addue è juta tutta chilla gente?

‘Ntra ‘stu paise ‘un c’è rimastu nente,

è morta ‘a gente, è mortu lu paise

e nue, ogni jornu, ne pagamu ‘e spise.

 

Giramu scunsulati pe’ le vie,

senza scontare mancu ‘nu cristianu,

‘u core s’inchia’ de malinconie

e nue ne morimu chianu,  chianu.

 

Però accussì ‘un se pò jire  avanti

L’hamu ‘e finire cu tutti ‘sti chianti!

Ca si, pe’ casu, se ‘nzigna a lottare,

Caccuri se po’ ancora ‘mpopolare.

 

Ca c’è sta’ gente laboriosa e sperta

Ca si volissa po’ canciare ‘a sorte

Damuce forze e mezzi e, certamente,

riofiorisciari Caccuri e la sua gente.

1) La stella polare
2) Oggi bar Mercuri
3) La casa di Giovanni Pasculli in viale Convento, oggi casa Basile

 

 

                                                      GENERAZIONE ANNI 40

 

    Davvero bella questa foto che mi ha fatto pervenire mio cugino Vincenzo Parrotta e che ritrae un gruppo di ragazzi caccuresi degli anni 40. Da sinistra a destra si riconoscono Graziano Tallerico, Vincenzo Parrotta, Francesco Gigliotti, Totò Pitaro e Renato Gigliotti. Fu scattata verso la fine degli anni 50 a Munnello e ci mostra una splendida, ancora incontaminata Serra del Cucco, una delle tre colline che circondano l'abitato. Per fortuna esistono queste vecchie foto che ci restituiscono i luoghi dell'infanzia così come li abbiamo conosciuti. 

                                    RICICLA E RISPARMI SEMPRE

 

       Di questi tempi nei quali aumenta tutto spaventosamente giorno per giorno, nonostante i tagli alle accise di Salvini e la social card da 380 euro della Meloni, ognuno cerca di ingegnarsi come può per procurarsi ciò di cui ha bisogno spendendo poco, possibilmente a costo zero. Così anch'io cerco di evitare spese voluttuarie di procurarmi con poca spesa ciò che mi serve. 
     Tre anni fa ho messo a dimora alcune piante di agrumi, ma la crescita era stentata, le foglie si arricciavano e non si vedeva nemmeno un frutto. Ho chiesto lumi a qualche esperto e mi è stato spiegato che gli agrumi hanno bisogno di essere concimati con un concime ferroso. Ho provato e la cosa funzionava, ma mentre le piante prendevano vigore, il mio portafoglio cominciava a languire. Poi un giorno ho letto da qualche parte che uno se lo poteva fare anche da solo, così ho voluto provare. Ho sistemato in una vecchia pentola un bel po' di chiodi di ferro riciclati che non mi servivano e l'ho riempita di acqua per molti giorni. Poi l'ho filtrata e raccolto in una tanica un bel po' di concime ferroso che non sarà potente come quello prodotto dall'industria, ma è a costo zero e pure ecologico. Da qualche settimana, visto che anche questo autarchico pare discretamente efficace, ho raddoppiato la produzione. 

 

                       QUANNU TE GAPANU L'ANNI 



    Oggi mi è tornata alla mente una storiella che mi raccontava spesso nonno Saverio, un aforisma sull'imprevidenza, sul vivere alla giornata senza preoccuparsi del futuro, insomma una sconfessione del famoso "carpe diem." La storia è questa:

   C'era una volta un bravo artigiano, di nome mastro Giovanni,  uno di quelli che conosce molto bene il proprio mestiere e che lavora onestamente e con grande perizia e per questo ha sempre una buona e numerosa clientela. Grazie al suo lavoro era riuscito ad accumulare una discreta fortuna e, non avendo famiglia, non aveva nemmeno eredi. Arrivato a 70 anni dopo aver lavorato sempre duramente senza mai concedersi uno svago, pensò che era giunto il momento di cambiare vita e di godersi il frutto del suo lavoro in bagordi, donne e trastulli vari, tanto, pensava che gli restavano ormai pochi anni di vita e non sarebbe certamente finito in miseria. Perciò cominciò a dilapidare il patrimonio e a scialacquare senza preoccuparsi del futuro. Arrivarono così gli 80 anni, poi gli  85, ma la morte non si faceva vedere. A 87 anni gli era rimasto ormai ben poco, ma la sua fede incrollabile in un imminente trapasso non scemava e così si sparò le ultime cartucce.
  A 90 anni si ritrovò nella miseria più nera e rischiava ormai si di morire, ma d'inedia, così finì sul ciglio di una strada a implorare la carità dei passanti: "Faciti 'a limosina a marru Giuvanni ca l'hau gapatu l'anni." 

 

                                                     IL MIO PAESE
                                           di
Elisabetta De Marco




   L'amica Elisa De Marco mi ha fatto pervenire questa poesia nella quale con semplicità, con amore, oserei dire con dolcezza e pudore descrive la Caccuri della sua infanzia e della sua giovinezza, di quando ancora la vita non era del tutto fuggita dall'antico borgo e molti usci non erano ancora sbarrati, una Caccuri che non si poteva non amare come l'amava e la ama ancora l'Autrice e come l'amano tutti quelli che ne sono lontani. 
  Complimenti, cara Elisa, e grazie per avermi fatto partecipe di questo tuo piccolo, prezioso gioiellino.

Il castello fiabesco
incastonato tra il cielo e
le rocce scoscese
TRONEGGIA
Sul borgo dall'alto.
Le viuzze solitarie
Riecheggiano voci e rumori
di un tempo lontano
ancora vivo nei meandri della memoria.
Le case di pietra fissano immobili i
passanti curiosi in cerca
di arte e bellezza.
Il profumo dei gelsi
Inebria di gioia l'aria
fresca e leggera.
La grande croce
silenziosa
incontra lo sguardo
dei moderni viandanti
che frettolosamente
percorron la curva che
risale la strada.
Le rondini in cerchio
garriscono felici
sorvolando la" villa " fiorita ..
Le urla di bimbi festosi
riempiono di allegra
armonia
Il paesello malinconico che
Avvolto in una coltre di nuvole
aspetta paziente la festa
del Santo ancora lontana.

 

                                                      LA CALABRIA CHE FA SPERARE



   Continuando " il mio viaggio" alla scoperta delle produzioni tipiche e non della nostra regione, quasi sempre comunque eccellenze, questa volta sono capitato a Celico dove non ci sono solo monaci "di spirito imprenditoriale dotati", ma, evidentemente, altri imprenditori ben più bravi e dinamici che producono, tra le altre cose, questo eccellente formaggio ovicaprino al vino commercializzato in un discount della zona. Avevo sentito parlare di questo singolare modo di stagionare il formaggio immergendolo per qualche tempo nelle vinacce, ma pensavo fosse praticato solo in Trentino o nel Tirolo, invece scopro che lo si fa anche in Calabria. D'altra parte nella zona di Celico,  di Spezzano e di altre frazioni di Casali del Manco, ma anche in molte altre contrade della Regione  sono nate numerose e moderne aziende di trasformazione e conservazione dei nostri prodotti agro pastorali che forse assicureranno futuro migliore alla nostra terra, un futuro che dovrà necessariamente puntare su queste cose oltre che sul turismo che da solo non risolve alcun problema. Bisognerebbe invece produrre eccellenze anche e soprattutto per venderle ai turisti; solo con una simile sinergia il turismo diventa un vero affare. La Calabria che fa bene sperare esiste davvero. 

   LIETTO SiCURO E PANE BEN DIVISO

   A coloro i quali, politici, opinionisti, "giornalisti", tuttologi, ma anche tanta gente comune, a quelli a volte più disperati dei disperati che arrivano sulle carrette del mare, ma che, invece di solidarizzare con i loro simili ripetono scioccamente le argomentazioni dei riccastri e dei legaioli descrivendo gli immigrati come i responsabili di tutti i mali si potrebbe rispondere con le stupende parole che Eduardo De Filippo mette in bocca a Dio nella bellissima commedia De Pretore Vincenzo: "Capisco il malumore, a vuje ve fa paura De Pretore ch’è mariunciello, e ca ve po’ arrubbà? State tranquilli, ne rispondo io. Chisto perciò se chiamma Paraviso: lietto sicuro, pane ben diviso…Neh, De Pretore c’arrubbasse a ffà?"  Davvero pensate che questa povera umanità venga da noi perché "Perché a nui 'nci piace viaggiare canoscere altre genti, altri paesi:l'America, l'Australia, la Francia, la Germania, la Svizzera, il Belgio..." come canta il nostro Otello Profazio? Davvero pesate che lascino "un paradiso" per venire a rompere le scatole ai leghisti? "Paradiso è letto sicuro e tetto ben diviso"; se nel mondo ci fosse davvero dappertutto i migranti che "migrassero a ffà?"

 

  ACCADDE OGGI: 3 MARZO 1803: NASCE IL VESCO DE FRANCO

               


                                                                   

  Esattamente 220 anni fa, il 3 marzo del 1803 nasceva a Caccuri nel palazzo di via Buonasera da Antonio e dalla nobildonna Agata Florio, monsignor Raffaele De Franco, arcivescovo di Catanzaro.  Compì gli studi  nel seminario di Catanzaro dove ricevette  la “confirmazione, la tonsura ed i quattro ordini minori” da monsignor Giovanni Francesco D’Alessandria. Si trasferì, quindi, a Roma dove fu ordinato suddiacono dal cardinale Della Porta Rodiani e diacono dal cardinale Zurlo. 
   Nel 1825 divenne sacerdote. Nel 1819 era stato designato quale canonico della collegiata di Caccuri e nel 1827 divenne vicario generale di mons. Giosuè Saggese, arcivescovo di Chieti.  Il 21 gennaio del 1852 fu nominato vescovo di Catanzaro, diocesi che governò per ben 31 anni lasciandovi la sua impronta indelebile.  Nel 1869 partecipò al Concilio Ecumenico a Roma e fu nominato componente della Commissione dei Canonisti nella quale ebbe modo di farsi apprezzare per la vasta e profonda conoscenza del diritto canonico. Durante il suo mandato pastorale nella diocesi di Catanzaro fece ricostruire interamente il Palazzo vescovile e fece ingrandire il Seminario che egli stesso aveva frequentato in gioventù. Fondò anche l’Istituto dei sordomuti e fece frequentare, a sue spese, a Napoli, un corso di istruzione per l’insegnamento a questa categoria di portatori di handicap, al sacerdote Luigi Spadola. Nell’ottobre del 1880 tenne un sinodo diocesano, dopo circa un secolo dall’ultimo che era stato proclamato dal 1vescovo Gori. Fece inoltre erigere il campanile del Duomo di Catanzaro, sotto la direzione dell’architetto Michele Manfredi facendovi collocare cinque campane. Mons. De Franco, oltre che curare le anime,   si interessava anche, più o meno discretamente, di politica, ingerendosi pesantemente nelle vicende risorgimentali. Questo è, almeno, ciò che sospettava il Segretario  Generale dell’Intendenza Stefano Berni che, il 19 ottobre del 1861, lo diffidava dal prendere posizione contro il plebiscito per l’annessione, così come correva voce nel circondario. Ma l’abile plelato seppe sempre sviare abilmente i sospetti continuando a svolgere tranquillamente la sua missione pastorale fino al giorno della morte che lo colse il 23 agosto del 1883. Fu sepolto nel cimitero di Catanzaro. Successivamente un’urna contenente documenti e reliquie del vescovo caccurese fu collocata nella cappella De Franco della chiesa di S. Maria delle Grazie in Caccuri ove rimase fino alla fine degli anni ’60.

 

                                                  LAMENTO FUNEBRE PER LA MORTE DI FRANCESCO CARNEVALE. FILOSOFO EDONISTA
                                                                   Testo e musica  di Peppino Marino



   In occasione del Carnevale invito tutti voi a recitare le orazioni funebri per l'animaccia del nostro carissimo amico Francesco Carnevale che ci lascia in questo allegro giorno. 

Ohi Franciscu, ohi Franciscu
     Te piaciari ‘u casu friscu,
     ‘U prisuttu, ‘a suppressata
     ‘A sciungata ‘un l’ha mai lassata,
     ‘A stigliula, ‘a tielluzza,
     ‘A ricotta ‘ntra l’erbuzza. (1)

Sulu ‘a fatiga ‘un te piacia!
     Me ricia: “’Un fa ppe mia!”
     Tu li costi nun ti l’ha mai rutti,
     Ma lu vinu ‘u spartia cu tutti. (1)

Mo chi si’ mortu, però si’ cuntentu
     Ca ‘un t' hau mai pijiatu l’acqua e lu ventu,
     E all’atru munnu, signu sicura,
     ca pecurii a ogne ura.

   Gora, Franciscu, ca ‘ntra lu munnu
     ‘Un mora quatratu chine nescia tunnu.
      O Patreternu, ajuta l’ajutatu
      Ca lu pezzente c’è sempre mparatu.

(1)  Ripetere due volte

Dies Carpe

Orazione funebre per Carnevale in latino maccheronico  di  Peppino Marino
Sull'aria del Dies Irae di Tommaso da Celano

 

Carpe diem! Carpe diem!

Trotae et ancillae semel  in die

Et sazizze

 Et sazizze et suppressatae

Manducate

Manducate at tonnellate

Quia nunc est bibendum,

Nihil labor qui est orrendum !

Et si vis

Et si vis campare cent’anni,

Magna et bevi

Magna et bevi cum tuis cumpagni.

 

Deus Bacchus, deus Bacchus,

Vinus, fimminae et tabaccus,

Si riducunt

Si riducunt hominem in cenere

Tamen vitam

Tamen vitam te fannu godere!

 

Nunc mea gola est siccata.

Accurrite

Accurrite cum cannata.

 

ROSARIO

  Peppino Marino

Sacerdote         Patreternu, Patreternu
                      De le pene de lu ‘mpernu
                      Liberamme, ppe’ piacire
                            ‘Un me fare mai morire !
                      Alla morte, 'a via cecata,
                             Minaccella ‘na palata!

 

Popolo          E Carnelevaru è mortu e li maccarruni su’ cotti
                             E lu casu s’ha de grattare
                       Bono venutu, Carnelevaru.

 

    Sacerdote       Pregu a Santa Liberata
                              Ch’ ‘un me manchi la cannata.
                              O Madonna tantu bella,
                              ch’ ‘un me manchi la tiella!

Popolo           Emmera, emmera, emmera,
                             tutti i jorni ìe ‘na manera
                             e n’avimu re mpriacare alla faccia ‘e Carnalevaru.

 

Sacerdote           Santu Roccu e Santu Janni
                               Risparmiatime l’affanni.
                               O gloriosa Santa Rita
                               Famme fare ‘a bella vita!

 Popolo           Emmera, emmera, emmera,
                              tutti i jorni ìe ‘na manera
                             e n’avimu re mpriacare alla faccia ‘e Carnalevaru.

Sacerdote           San Luinu e San Pasquale,
                              carne ‘e bifaru e maiale.
                              San Pasquale e San Luinu
                              Ch’ ‘un me manchi mai lu vinu
                              E ppe’ l’atri l’acqua appenninu.

 

                                                                                 L'ISOLA IMBIANCATA
                                                                                          

   Quando, come dicevano  i nostri vecchi, "Tremanu i 'mpanti" (tremano, battono i denti i fanti", teni i peri friddi ch' 'un se 'mpocanu mancu s' 'e minti 'ntre frasje e te gratti l'ugne, ovvero quando il freddo fa sul serio, la neve cade anche sulle isole, come la mia "Isola Amena", stamattina ammantata da una coltre bianca che in alcuni angolI superava i 30 centimetri.  A parte la bellezza del suo candido mantello che copre la terra, gioca con in rami degli alberi e con i cespugli creando effetti stupefacenti  che deliziano gli occhi e il cuore, la neve è la benvenuta per le colture e per le sorgenti. Adesso abbiamo la certezza che la prossima estate l'acqua non ci mancherà. 

                                                                            CAMINA CA TE 'MPOCANU I PERI
                                                                                           di Peppino Marino

 

   Caccuri è sempre stata una cittadina di grandi filosofi di quelli che, come osservava il compianto onorevole Aldo Moro, non conoscevano la filosofia, “ma la sapevano” la producevano, la divulgavano; da Ciccillo Belcastro a Giovanni Marullo, a Giovanni Gallo (Rizzeri), ad Antonio Manfreda. Un altro grande filosofo caccurese fu un certo Gigliotti più noto col soprannome di Tribbiziu ereditato probabilmente da qualche antenato che praticava tre vizi. Il Gigliotti nel corso delle sue meditazioni sull'agire umano aveva notato che quando una persona ha i piedi infreddoliti dal gelo, dal freddo intenso dei mesi invernali, non trova riposo, si agita, diventa irascibile, nervosa, intrattabile, litigiosa. Per tornare normale, trattabile, amabile, ragionevole c’è un solo rimedio: scaldare i piedi ricavandone una sensazione di benessere. Se si ha davanti un bel fuoco non ci sono problemi, basta togliersi le scarpe ed esporli alla fiamma facendo attenzione per evitare di fare come Pinocchio, ma se si è fuori, in un luogo freddo c’è un solo rimedio, come consigliava Tribbiziu: camminare. Infatti questa intelligentissima persona coniò una massima, una esortazione che ebbe grande fortuna e che era conosciuta da tutti i caccuresi: “Camina ca te ‘mpocanu i peri”, cammina ché ti scaldi i piedi, diventata col tempo un’amabile esortazione ad andare in un famoso paese consigliato, come osservava con grande acume il grande Gigi Proietti, dalle agenzie di viaggi.

 

                                                                                                 FEBBRAIO
                                                                                           di Peppino Marino



   Salutiamo il mese di febbraio con questa filastrocca scritta guardando al passato quando ancora febbraio era un mese freddo e si vedeva anche la neve e quando ancora c'era il Carnevale e si aspettava febbraio per mettere da parte le angosce e divertirsi spensieratamente per tre giorni come ai tempi dei Saturnali. Oggi. invece, la neve è sparita assieme al gelo e non c'è più il gusto dell'attesa del Carnevale che in Italia, dura tutto l'anno. Per eventuali dubbi accendere il televisore in una qualsiasi delle 24 ore della giornata. 
  
P.S
Le maschere nella foto sono tutte e tre meridionali, la siciliana Peppe Nappa a sinistra, la calabrese Capitan Giangurgolo al centro e la napoletana Pulcinella ingiustamente considerata "uomo da niente". A parte Pulcinella, è difficile sentire qualcuno che, parlando di maschere, faccia cenno, a parte la notissima Pulcinella, ad altre maschere meridionali come se il sud non esistesse. 

 

Filastrocca dell’arcolaio

per il mese di febbraio,

di tutti gli altri il più piccino,

ma, anche  il più freddo e malandrino

ché fa soffrire la povera gente

che non ha legna, che non ha niente.

Questo mese breve, breve

copre il monte e il piano di neve,

gela i fiumi e le fontane

e fa soffrire chi è senza pane.

Per fortuna c’è il Carnevale

Sempre allegro, giocoso e ilare

Con frizzi, lazzi e mascherine

per far felici bimbi e bambine.

Anche i grandi allora son contenti

e metton da parte affanni e tormenti.

Febbraio corto e maledetto,

avrai, forse, qualche difetto,

ma per tre giorni scacci i guai
per renderci allegri, felici e gai.

 

 

Tre luminari a consulto
       di Peppino Marino

 

   Oggi vi regalo questa novella scritta qualche anno fa. I fatti narrati, sono frutto di fantasia, anche se  una sessantina di anni fa per le strade del nostro paese non era difficile imbattersi in scene come questa.

L'asino di zu Nicola era ammalato da diversi giorni: una bruttissima piaga era comparsa sulla schiena del povero animale lì, a pochi centimetri dalla striscia prodotta dallo strofinio della cinghia del basto dove il pelame stentava a crescere. Era chiaro che la piaga non era stata prodotta dai finimenti, né l'asinello si era ferito. Evidentemente si trattava di una malattia sconosciuta, perlomeno a zu Nicola.
   Il pover'uomo era disperato: il malanno di Frisichello lo preoccupava seriamente, non tanto per l'aiuto che la povera bestia poteva ancora dargli, tanto, oramai, neanche lui se la sentiva più di andare a lavorare, quanto perché, dopo la morte di za Concetta era rimasto solo con l'animale col quale divideva il grazioso appartamentino scavato a colpi di piccone nell'arenaria della collinetta. Chiese perciò aiuto agli amici e questi lo indirizzarono a tre celebri luminari del paese, da anni impegnati nella nobile arte della medicina asinina.
   L'esperienza consolidata di zu Giuseppe, zu Ntone e zu Domenico, acquisita con l'esercizio onorato della professione, rappresentava una vera garanzia e zu Nicola si recò fiducioso all'appuntamento conducendo per la cavezza il mite Frisichello. L'ambulatorio dei tre specialisti si trovava all'aperto, in un angolo della piazza del paese ai piedi della gradinata della chiesa di S. Francesco.
   Iniziò subito la visita. Zu Nicola stringeva la cavezza dell'asino volgendo le spalle alla gradinata, mentre i dottori esaminavano il paziente. Cominciò zu Domenico che strizzò tre o quattro volte la piaga. Frisichello, evidentemente, provò una fitta alla schiena perché diede uno strattone rinculando e mandando  a terra bocconi zu Nicola. Seguì puntuale l'immancabile bestemmia del vecchio che si rialzò stringendo a due mani la cavezza e puntando i piedi. "Garrese, sentenziò zu Domenico , brutto affare!". "Macchè, esclamò zu Nicola che aveva ripreso a torturare Frisichello, é una pitinia" e strizzò più forte.
   Frisichello si impennò e strattonò. Uhhh, botta ‘e sangu! gridò zu Nicola cercando di calmare l'animale, mentre il terzo primario si avvicinava al somaro. Nuova strizzata e nuova diagnosi, mentre il povero animale manifestava a suo modo il dissenso per quelle diagnosi così superficiali. A questo punto si accese una disputa animata tra i tre ricercatori che tentavano di dimostrare, a colpi di strizzate, l'esattezza della propria diagnosi, mentre il povero Frisichello scalciava e strattonava ripetutamente e zu Nicola tirava a più non posso la cavezza per tenere fermo il malcapitato somaro.
   All'improvviso successe l'irreparabile: la fune, evidentemente logorata, si spezzò ed il povero zu Nicola ruzzolò per terra andando a saggiare col cranio pelato la consistenza di uno dei gradini, mentre Frisichello se la dava a gambe incredulo per quella insperata fortuna che lo sottraeva al supplizio della scienza medica. Il sangue sgorgò copioso dal capo di zu Nicola e gli specialisti accorsero verso il vecchio per un nuovo, più interessante consulto. Zu Nicola, terrorizzato, lesse negli occhi le intenzioni di quegli aspiranti al Nobel e, con uno scatto impensabile per l'età si alzò e se la diede a gambe inseguito dal suo amato Frisichello barricandosi con lui nell'accogliente dimora.

 

                                 SOGNANDO UNA BELLA MANGIATA

 

                            Il pranzo è servito
                              di Peppino Marino  

Filastrocca della vecchia mucca

La Pasqualina ha cotto la zucca

Mentre cuoceva l’arrosto è  bruciato

Perciò ripiega sullo stufato

E lo stufato ha cotto a puntino,

poi va in cantina a spillare il vino

un vino dolce, un vino moscato,

un buon formaggio stagionato,

la frutta, il dolce, il caffè, il gelato,

ed ecco il pranzo è già terminato,

di digerire cerchiamo in fretta

che già la cena oramai ci aspetta.

 

                                                           PATATINE? NON SERVE COMPRARLE

      Ci sono patatine e patatine; ci sono quelle che si comprano nei negozi nella busta o che si mangiano nei fast food con olio di colza, olio di semi di soia, aroma di carne, grano idolizzato, acido citrico, dimetilsilossano, terz-buti-idrochinone, destrosio e chissà cos'altro ancora e ci sono quelle che ti prepari in casa, magari biologiche coltivate da te stesso, tagliate a fette sottilissime come le ostie col robot di cucina e te le friggi da solo sul fornello a gas e spolverate leggermente di sale dopo fritte. Prepararsi in casa delle croccanti, saporite patatine non è difficile, non è costoso ma, soprattutto, è salutare, soprattutto se in casa ci sono bambini o fanciulli e come sapore non hanno niente da invidiare a quelle comprate. 

                                                       

                                    L'EPIFANIA, LA NOTTE DEI PRODIGI

                                       



  Buona sera, amici, stanotte è la notte dell'Epifania, quella nella quale la Befana, la simpatica vecchina amica dei bambini si cala attraverso i nostri camini per portare i regali ai pargoli, ma è anche la notte di straordinari prodigi. A mezzanotte in punto, infatti, dalle fontane sgorgherà olio extravergine di oliva e le pietre sulle strade si trasformeranno in grandi pepite. Ah, vi siete ricordati di dare abbondante cibo ai vostri animali domestici? Per il vostro bene mi auguro di si perché a mezzanotte parleranno col Creatore e li avete lasciati digiuni il Padreterno vi maledirà. Così ci insegnavano i nostri nonni caccuresi. Buona Epifania a tutti voi. 

 

                                                                TURDILLI E VINO

     

   Ed ecco a voi i turdilli calabresi (in questo caso caccuresi) preparati  con la tradizionale ricetta delle nostre nonne da non confondere con i pizzulioni (struffoli). I turdilli in casa Marino si rigano rigorosamente cu' lu crivu 'e ru granu e si ricoprono di miele. Noi li preferiamo cos', senza aggiunta di canditi o confettini, anche perché si sposerebbero male col vino come ci insegnavano i nostri nonni del XIX che i turdilli e i pizzulioni li accompagnavano cin un buon bicchiere di vino rosso. Personalmente ho scoperto che col sidro di mele sono veramente 'na cosa fina- 

                                                                  'U CUMPETTU



    La Calabria e la Sicilia, da sempre terra di conquista di decine di popoli stranieri, dai normanni agli arabi, dagli svevi agli angioni, dai bizantini agli aragonesi sono due regioni tutto sommato fortunate perché le varie "contaminazioni culturali" hanno prodotto un notevolissimo arricchimento anche gastronomico. Ogni popolo che si è succeduto nel dominio di queste due regioni della penisola, tranne i piemontesi,  ha portato qualcosa, ci ha insegnato qualcosa ha contribuito ad arricchirci culturalmente e, a volte anche economicamente. E' incredibile la quantità di piatti, di conserve, di dolci calabresi di origine greca, araba e di altri popoli: dalla lestopitta alla pitta 'mpigliata, le fave dei morti, i jaluni, le cuzzupe,  le 'ngute, i muccellati, i mostacciuoli, 'a scirubetta e, tra questi, 'u cumpettu o cupta, un torrone a base di mosto cotto o miele, semi di sesamo (giurgiulena in caccurese o giggiolena in altri paesi), mandorle e bucce d'arancia. A Badolato, il paese di  mia moglie, lo preparano col mosto cotto che richiede molto più tempo, ma è ottimo anche col miele. Personalmente lo preferisco col miele. 

                             UNA GRANDE COMUNITà 



   Tra le tante tessere che porto nel portafogli questa è una delle più care, una tessera che risveglia in me l'orgoglio di appartenere a una comunità di centinaia di miglia, forse di milioni di italiani che si battono per un nobile ideale, contro la sofferenza, contro la morte, per il progresso scientifico, per salvare milioni di uomini, donne e bambini in tutto il mondo, un po' come la tessera del glorioso PCI che ho ritirato per 20 anni con gioia, trepidazione e orgoglio prima che una manica di sciagurati decise di scioglierlo e che oggi conservo tra le mie reliquie.
  Purtroppo (e per fortuna)  in questo maledetto paese la ricerca scientifica viene finanziata quasi esclusivamente dai cittadini, mentre lo Stato fa l'esatto contrario e continua a foraggiare i fabbricanti e i mercanti di armi, strumenti di morte,  e l'invio delle stesse ai paesi in guerra senza mai rendersi protagonista di una pur qualsiasi insignificante iniziativa diplomatica. D'altra parte, anche chi segue quotidianamente la politica in questi ultimi decenni fa fatica a ricordare uno dei tanti ministri degli esteri che hanno scaldato la poltrona della Farnesina, a parte Di Maio per le sue clamorose gaffe, dal momento che dalla fine di quella che i giornalisti si ostinano a chiamare Prima Repubblica abbiamo delegato la nostra politica estera agli USA. Ma tornando alla ricerca, nonostante i generosi sforzi di milioni di cittadini, i fondi sono sempre esigui, in Italia si fa poca ricerca, migliaia di giovani ricercatori, cervelli finissimi, sono costretti ogni anno a emigrare in paesi dove la ricerca si fa sul serio, una ricerca generosamente finanziata, libera da pastoie come quelle di quel genio di  ministro che voleva sapere prima di finanziarla a quali risultati sarebbe approdata. Così anno dopo anno, mese dopo mese, migliaia di giovani formati in Italia spendendo un patrimonio per farli studiare, vanno ad arricchire paesi stranieri. Purtroppo non è una novità in un paese nato dalla Resistenza e finito subito dopo nelle mani di un politico che invitava i giovani a imparare le lingue e andare all'estero ovvero il contrario dell'invito gramsciano "Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza"

 

                                                   SAN NICOLA, OGNE VALLUNE SONA 

   Oggi 6 dicembre la chiesa festeggia San Nicola da Myra, patrono di Bari e di Merano dove però viene chiamato San Nicolò E che in Olanda e nei paesi nordici diventa Santa Claus e viene scambiato per Babbo Natale. A Merano il duomo della città è intitolato appunto al patrono. Fu in questo tempio che a Natale del 1961 ascoltai per la prima volta la versione originale di Stille Nacht che io conoscevo come Astro del ciel cantata da un coro tirolese. Nella mia ingenua, bambinesca ignoranza mi sembrava strano che i tirolesi cantassero questa bellissima canzone italiana, ma appresi presto dalla mia professoressa di tedesco della scuola media che si trattava di un canto austriaco che ci fece imparare a memoria. 
   Da bambino, invece, appresi da nonno Saverio che "A San Nicola, ogne vallune sona e ogni mantra fa la prova. Effettivamente dopo il temporale di tre giorni fa i "valluni sonanu" per davvero, quanto alle "mantre" non credo facciano "la prova", anche perché nella nostra zona ne sono rimaste davvero pochissime. 

 

                                                     IL CAPOLAVORO ASSOLUTO DI PEPPINO NESCI                                             

   Credo sia molto difficile, almeno per me, stilare una graduatoria delle opere dell'amico Peppino Nesci che ci lasciò in una triste giornata del mese di giugno del 2006, ma con questa XIII stazione della via Crucis credo abbia raggiunto le vette del sublime. Quel cielo infuocato tipico dei suoi paesaggi che si richiamano alle opere di Carlo Quaglia e alla scuola di Scipione, coperto di nubi nere che avvolgono minacciose il Calvario a sottolineare la drammaticità dell'evento mentre il Messia esala l'ultimo respiro, i volti addolorati e rassegnati di Maria e della Maddalena nei quali si legge un dolore muto e lacerante, la posizione e le piaghe del corpo del Cristo che testimoniano la sofferenza atroce e sovrumana del figlio di Dio per l'espiazione dei tutti i peccati dell'umanità sono la massima espressione artistica di un pittore che maneggiava il pennello come lo scalpello o la bocciarda dello scultore del marmo, capace di dar vita, in pochi minuti, a un capolavoro. Si, questa Via Crucis e la serie di quadri sulla caduta e  la distruzione di Troia, due tra i più tragici eventi dell'antichità, per la bellezza cromatica, per la capacità di dipingere il dramma e il dolore, lo strazio dei corpi e delle anime con poche pennellate, credo rappresentino il meglio della produzione del nostro amico e compaesano, prolifico e indimenticabile pittore. Peccato che questo capolavoro, assieme alle altre 13 tavole, sia stato rifiutato dal suo paese e donato alla chiesa dell'Olivaro di San Giovanni in Fiore il cui parroco accettò il dono con gioia e gratitudine. 

 

                          DOMENICO SISCA, IL MONSIGNORE STORICO E PEDAGOGO 

 



   Oggi voglio parlarvi di un importante personaggio petilino di origini caccuresi che ebbe un ruolo di primo piano nella chiesa e nella scuola del Crotonese, oltre che nella storiografia locale. Si tratta di mons. Domenico Sisca, sacerdote, insegnante, poi direttore didattico e ispettore scolastico di Crotone. 
  Domenico Sisca nacque a Petilia Policastro il 5 maggio 1888  da Francesco e da Giovannina Belcastro proprietari di un negozio di alimentari. Giovannina era figlia di Ferdinando Belcastro, caccurese, fratello di Francesco (il mio bisnonno Ciccillo) usciere comunale di Caccuri, quindi parente anche del professore Francesco Cosco e dell'avvocato e drammaturgo Nino Cosco.
    Avviato al Seminario di Santa, conseguì il diploma di abilitazione magistrale e il 29 maggio del 1912 venne ordinato sacerdote. Diventa presto assistente ecclesiastico dell'Azione cattolica di Crotone, ma nel 1914 viene chiamato alle armi e, allo scoppio della Grande guerra, avviato al fronte come assistente spirituale dei combattenti. 
   Finita la guerra torna a Petilia, vince il concorso magistrale e insegna nella scuola del paese. Intanto si iscrive alla facoltà di lettere dell'Università di Napoli e nel 1924 si laurea a pieni voti. L'anno dopo supera anche il concorso direttivo e diventa direttore didattico. Dopo qualche anno di servizio a Cropani, nel 1935 diventa direttore didattico del circolo di Petilia e nel 1953 è promosso ispettore scolastico con sede a Crotone. 
   Nella primavera del 1957 effettuò una visita ispettiva a Caccuri, nella mia classe affidata al professore Mario Sperlì. Ricordo nitidamente quando per accertare il grado di preparazione degli alunni chiamò alla lavagna il mio amico e compagno Agostino Falbo e gli dettò la frase " La campagna è tutta verde." Chissà se Agostino ricorda l'episodio? Poi ci fece cantare tutte le canzoncine che conoscevamo per accertarsi, ma questo lo capii molti anni dopo, se il maestro Sperlì ci avesse insegnato per caso Bandiera rossa.  Quando tornai a casa e raccontai della visita di un ispettore vestito da prete mio nonno mi disvelò la parentela. Attese invano una sua visita, ma evidentemente i  numerosi impegni non glielo consentirono. 
  Nel 1958 andò in pensione per raggiunti limiti di età e il vescovo di Crotone Pietro Raimondi lo nominò Monsignore quale Cameriere Segreto di Sua Santità e Decano del Capitolo di Crotone, mentre il Presidente della Repubblica lo insignì del titolo di Commendatore. 
  Domenico Sisca è autore, fra l'altro, di un pregevole libro su Petilia Policastro che rappresenta un prezioso contributo alla storiografia non solo petilina, ma ti tutto il comprensorio crotonese. 
   

                                                          ‘A PIGNATELLA
                                                         di Peppino Marino

                                                      

                                                             

‘Na pignatella
‘e crita smaltata
supra lu focu
vorria tenè.
‘Na corchjiarella
quattru surache
due pampine ‘e lauru
pper addurà.
Vulissa virere
quannu poi vùllari
‘nu pocu ‘e sale
pe’ c’ammentà.

Quannu se còciari
allu focularu
quarsiasi cosa
è cchiu sapurita
pecchì l’amuri
chi si ce mintari
è lu cchiù megliu
re ogni adduru.

E quannu è cotta
‘a minerrella
‘ntra coppa ‘e lignu
vurria mancià,

Nu pocu è pipe
e d’ogliu santu
corchja ‘e cipulla
gulia ‘e mammà.

Viva la tavula
re lu cafune
àtrica Mc Donald
e fast food.

‘A minerrella
‘e pasta e surache
è ’na delizia
cririti a mia
cu’ ‘nu biccheri
re la Funtana
o ‘e re Pantane
o re Lupiaaaa.

                                                    AMICIZIA
                                                 di Peppino Marino

 

Amicizia è disinteresse;

Amicizia è trepidare per l’altro.

Amicizia è accogliere l’altro;

Amicizia è non irridere l’altro.  

Amicizia è mangiare dello stesso pane;

Amicizia è donare se stesso.

 

E non chiedere nulla in cambio;

E non dire mai: “Io ti sono amico.”

E non dire mai : “ Ho sofferto per te.”

E non dire mai: “Ho pagato per te.”  

Dire solo e sempre: “Ho gioito per te.”

 

                      

                                                         TERRA MAGICA 

    Come si fa a non amare questa terra di Calabria? Nonostante le ferite inferte che sono purtroppoil prezzo da pagare alla modernità è sempre stupenda con i suoi paesaggi variegati, con gli ulivi argentati, la macchia mediterranea, i calanchi di candida argilla, gli spuntoni di arenaria e di calcarenite, i torrenti, i ruscelli, le siepi di mirto e di lentischi, di rosmarino e di lavanda, i fichi d'India, gli aranci, i limoni,  i corbezzoli, il terebinto e la ginestra e l'orizzonte dove si abbracciano teneramente cielo e mare. Questa è la Calabria, signori!

                                     LA NON PIOGGIA A ZIFARELLI
                                   (UN LUOGO SENZA PINETO)
                                        di Peppino Marino   

 

            

Taci. Varcato il cancello 
non sento alcun suono prodotto da gocce,
ma ascolto le secche foglie che scricchiolano sull’arida terra.
Ascolta, o Emiliano, non Piove sulle arse querce bruciate dal sole,
sul timo inaridito, sui tageti raggrinziti, sul mirto e sui rovi e la menta, 
sull’agave accartocciata; non piove sulla salvia e la malva.
Non piove sui capelli secchi, sfibrati e rassegnati, sui nostri vestiti,
 sui gatti, sui salici asciutti, sull’erba bruciata.
Non piove sui nostri pensieri sempre più seri, 
che vagan tra guerre e bollette, di gas e di luce 
di quest’ anno ch’è sempre più truce
un anno di Vate e di Duce.

 

                                                           CONTAMINAZIONE AFRO - CALABRA

   

Riflettevo su quest'angolino della mia casa nel quale, casualmente si è verificata una "contaminazione artistica" afro - calabrese in un vano della credenza che ospita due strumenti musicali etnici di provenienza africana e tre opere di mio padre; una scultura in legno del celebre affresco del Masaccio La cacciata dei progenitori dall'Eden che si trova nella Cappella Brancacci nella chiesa di Santa Maria del Carmine a Firenze, una riproduzione del Mosè di Michelangelo e un vecchio lume a olio il cui originale è in ottone. Sono solo alcune delle tante sculture di un uomo umile che per vivere fu costretto a mettere da parte il suo talento e fare il lavapiatti in un ristorante svizzero, che solo dopo il pensionamento poté dare estro creativo e che conserviamo gelosamente. Grazie, papà.

 

                                          PER RIDERE UN Pò 

LA CASA DEGLI ANIMALI
               di P. Marino

Il gallo vive nella galleria
e l’asino dimora all’Asinara;
mentre il cavallo va in cavalleria,
al pollo toccherà la polleria.

Il cane sta beato alle Canarie
praticamente tutto l’anno in ferie,
il tordo poi finisce nei tordelli
e il gatto va a caccia di altri uccelli.

Il gufo ora abita in un ufo
lo struzzo è alloggiato dentro un pozzo
la capra se la gode a la Capraia
la tartaruga vive sulla playa.

Insomma ogni animale trova casa
e quasi mai gli dànno lo sfratto
per questo alcuni stanno in un anfratto
senza che debban poi pagare un fitto.

 ‘A CIOTARELLA ‘E CANALACI
               di P. Marino

 

Si ‘a ‘stu paise c’è ‘na cosa bella
chissa è la cara, amata Ciotarella,
‘nu mascarune ‘e petra ‘na maruca
cu’ ‘na conchiglia cu’  ‘nu babbaluci
attaccatu allu canale ‘e Canalaci.
‘Nu tubo ‘e ferru misu ‘ntra la vucca
jettavari re cent’anni l’acqua frisca
chi venia re la valle re lu papa
chi nesciai re ‘ntra ‘na petra cupa.

‘A gente prima si ce rifriscava,
inchjia’ buttiglie, gummili, rancelle
e ancunu puru i panni ce lavava.
Mo puru ‘a Ciotarella s’è stancata
e la vecchjia funtana ormai siccata.
Pregamu tutti i santi e la maronna
chi l’acqua ‘e ‘stu canale sgorga torna
ca s’ ppe’ casu lu viveri è asciuttu
‘stu poveru paise è mortu tuttu.

 

                                                                                      'U JORNU TUO

    All'età di 4 - 5 anni mio padre cominciò a insegnarmi il concetto di onomastico che nel dialetto caccurese diventa " 'u jornu" (il giorno): 'u jornu 'e Giuseppe, 'u jornu 'e Franciscu, 'u jornu 'e Maria etc.  Quando papà al mattino mi faceva gli auguri e mi diceva "Oje è lu jornu tuo" e io, nella mia ingenuità di bambino pensavo che quel giorno fosse solo mio e di nessun altro sulla terra, appartenesse solo a me e che per 24 ore ero una specie di regnante al quale tutti gli abitanti del paese tributavano il loro omaggio. Quando poi, verso le 11 passava la processione del santo con la banda in testa perché allora San Giuseppe era ancora un santo di serie A e non gli era stata inflitta la seconda umiliazione, allora non avevo più dubbi e pensavo che il festeggiato non fosse il falegname di Nazareth, ma il figlio del falegname di Caccuri. 
   Auguroni a tutti i Giuseppe e a tutti i papà del mondo. 

                                                                           'U BAULLU

                                                                            

  Quello in foto è un vecchio baule, uno dei tanti presenti nelle case dei nostri nonni nei quali venivano,  custoditi, fra l'altro,  i corredi delle ragazze in età da marito che le mamme cominciavano a preparare già appena finito il puerperio o al massimo lo svezzamento delle loro figliolette. Decine di tovaglie, lenzuoli, coperte, tovaglioli, asciugamano di lino ricamati che le future spose non riuscivano quasi mai a consumare nel corso della loro vita coniugale e che poi trasferivano alle loro figlie.
    Nel mio museo di famiglia ne conservo uno che mio nonno portò dal West Virginia nel 1919  quando tornò a casa dopo 7 anni di emigrazione con un po' di biancheria e qualche cimelio "mericanu." 
    

 

                                                               L'AZATA

      Conclusi i riti funebri per la morte del nostro amico Francesco Carnevale, filosofo epicureo, maestro di vita, oggi celebriamo "L'Azata",  la festa nella quale "si alzano", cioè si appendono al chiodo, spiedi, griglie, girarrosto perché quell'invidiosa di Quaresima, la moglie noiosa del nostro fulgido eroe, non vuole che, in onore del defunto consorte, per 40 giorni si mangi carne, polpette, salsicce, soppressate, prosciutto e altri insaccati. In compenso, siccome oggi è il terzo giorno del rosario del povero Francesco, com'è tradizione, si fa il banchetto per i partecipanti al mesto rito con 'nu catu 'e pruppette, (un secchio di polpette) come insegnava il compianto don Giovanni Greco, un bel piatto di maccheroni conditi col sugo di carne, salsicce, soppressate e ogni altro ben di Dio. 
   Carnelevaru è mortu e li maccarruni su' cotti, lu casu s'ha de grattare, bonu venutu Carnelevari. Però, prima di sederci a tavola, cantiamo il Lamento di Quaresima che celebra la figura del grande Maestro che trovate in questa pagina accanto alla foto che immortala un momento delle esequie. 

 

                                                                      PARTE E CROCI

          Poiché il presente è triste ci rifugiamo in un passato più lieto, per certi aspetti eroici quando, finita la Grande guerra, i combattenti reduci, forti della loro dolorosa esperienza dalla quale tornavano vincitori come Radames, capirono che era giunto il momento di uscire dal Medio Evo com'era successo in Russia qualche anno prima, il momento di rompere il latifondo e di reclamare condizioni di vita più umane. Così, organizzati nella Lega dei combattenti reduci guidati da Peppino Gigliotti, don Peppino Pitaro e Pietro Demare, non solo chiesero che venissero loro concesse le terre promessa dal governo per spingerli a combattere, ma anche un suolo per costruirsi una casetta decente e abbandonare grotte e tuguri nei quali vivevano. A questo punto la baronessa Barracco, per ringraziare gli eroi o forse per cercare di evitare danni più consistenti al suo patrimonio, concesse al comune un pezzo di terreno compreso tra il Calvario (i Cruci) e la limitrofa proprietà dei signori Ambrosio per essere lottizzato e assegnato ai reduci. Nacque così il rione Croci. Il terreno, però, bastava appena per i combattenti e, quando altri artigiani e contadini protestarono chiedendo anche loro un suolo, il comune mise a disposizione altri lotti ai piedi della Serra Grande, in gran parte fasce di transumanza, invitandoli a costruirsi la casa dall'altra "parte". Da qui il nuovo toponimo "Parte". 

 

                                                            NATURA E INGEGNO UMANO



      Quando natura e ingegno umano riescono a convivere, o meglio, l'uomo d'ingegno costruisce le sue opere, anche imponenti, ma nel rispetto dei luoghi, possono nascere capolavori come questi. In questo caso l'ingegno umano è degnamente rappresentato dalla torre dell'architetto Mastrigli costruita per nascondere un bruttissimo serbatoio di accumulo di acqua potabile per l'antico palazzo ducale dei Cavalcante che trasformò la dimora signorile in una specie di castello medioevale, mentre la natura ha prodotto questi rami e queste foglie secche di quercia che incorniciano il capolavoro del professionista napoletano del XIX secolo. Il resto è dovuto a un colpo di fortuna (ma non troppo) nell'individuare l'angolo giusto e nel programmare lo scatto. Il risultato mi sembra passabile. 


                                           'E  SIRE 'E 'NA VOTA
                                             di Peppino Marino



   Vi regalo quattro versi giusto per rispolverare qualche parola del dialetto arcaico ormai in disuso. 

Quannu ‘a luce ancora ‘un c’era
‘ntra le case fridde e scure
S’allumava la jacchera
pe’ passare ‘nu paru ‘e ure.

‘Ntra i pagliari ‘n menzu i voschi
si nun c’era ‘na lumera
s’appicciavanu i varbaschi,
certe vote ‘n asca ‘e rera. 

Cu le menzaporte chiuse
e la casa chjina ‘e fumu
se ‘ncecavari e allu scuru
se cusiari, se gulliava
se facianu le ruselle
se manciavanu le tielle,
poi ‘nzignavanu a cimare
e se jianu a curcare.

                                                                      RICORDI DI TEMPI ESALTANTI

   Tra le foto che conservo nel mio archivio questa è una di quelle che mi è più cara perché, oltre a ricordarmi un passato politico e amministrativo esaltante, ritrae due carissimi amici e un uomo di grande caratura politica e morale, Rosario Olivo, consigliere regionale della Calabria, presidente della Regione dal 1987 al 1991, sindaco di Catanzaro,  deputato al Parlamento, sottosegretario al Ministero dei Lavori Pubblici e della Previdenza nel governo D'Alema e membro autorevole della Chiesa Cristiana Valdese. Gli amici fraterni sono i compianti Orlando Girimonte, assessore comunale e Maria Teresa Ligotti, prima donna eletta nel Consiglio Regionale della Calabria, prestigiosa dirigente del PCI regionale e provinciale, cofondatrice e dirigente della Fondazione Enrico Berlinguer di Crotone, comunista leale, aperta al dialogo, infaticabile, grande amica di Caccuri e dei caccuresi, sempre presente alle nostre assemblee di partito e alle feste de l'Unità, spesso insieme ad altri dirigenti prestigiosi come Mario Sestito, Pasquale Poerio, Maurizio Mesoraca, Fulvio Rurale. Orlando e Maria Teresa erano per me e mia moglie, più che amici, fratello e sorella perché a quei tempi i valori dell'amicizia e della comune militanza valevano più dei legami di sangue. 
   La foto fu scattata in occasione dell'inaugurazione del parco di Sant'Andrea con gli annessi campi di tennis e di pallavolo realizzati dall'amministrazione di sinistra nei primi anni '80.  Un saluto commosso e deferente a Maria Teresa e a Orlando. 

                                                      RICORDI DELLA FANCIULLEZZA

 

   Da fanciullo, ogni volta che entravo nel giardino di questo palazzo che è forse più bello e il più imponente di Caccuri, assieme a quello dei Cavalcante, al palazzo De Franco di via Buonasera e al palazzo Pitaro di Sant'Andrea, ero affascinato dalla folta vegetazione, dalle siepi ben curate, da una gigantesca pianta di glicine abbarbicata a una impalcatura di ferro che formava una specie di capanna verde coperta da grappoli di fiori dal colore viola chiaro che spandevano nell'aria un profumo intenso e gradevolissimo che si mischiava a quello del pane fresco appena sfornato nel forno dei proprietari del palazzo all'interno dello stesso giardino, ma, soprattutto da una voliera e dalla colombaia che si vede anche in questa foto, purtroppo senza più colombi e col tetto sfondato. Questo gioiellino mi faceva fantasticare e la mente andava alle palafitte, alla "vita sospesa" nel mondo e, contemporaneamente, fuori dal mondo e dai suoi pericoli e immaginavo di abitarci e di vivere bellissime avventure. 
  Il palazzo, anch'esso dei De Franco, precisamente del dottore Vincenzo Maria Raffaele Eugenio De Franco, medico chirurgo, farmacista e segretario comunale di Caccuri per molti anni, pronipote dell'arcivescovo di Catanzaro, mons. Raffaele ,  fu costruito nei primi anni del Novecento a ridosso del nascente rione Croci.
   Dice un antico adagio: "Tutto passa e sfuma e muore, ma non i ricordi della fanciullezza." 

 

                                  LA BEFANA CONTRO IL COVID
                                               di Peppino Marino

 

 

Filastrocca della lana,
stanotte arrivava la Befana
volando in cielo di tetto in tetto
quando ogni bimbo dormiva nel letto,
poi s’infilava attraverso i camini
per consegnare i suoi doni ai piccini
e, alla luce fioca dei lumi,
riempiva le calze di dolciumi.
Caramelle, confetti e torroni
Portava in dono ai bimbi buoni,
ma bimbi buoni eran tutti quanti
ché non esistono bimbi birbanti
e a quelli un po’ speciali
portava in dono anche altri regali
cavallucci, balocchi e trenini
per la gioia di grandi e piccini.
Ora però, la vecchia col sacco
di regali ne porta un bel pacco:
quarantene, tamponi, vaccini
per i grandi e per i piccini
green pass usati o taroccati
arti di plastica vaccinati
 e a volare con la mascherina,
quanta fatica per la vecchina.
Che tempi grami, cara Befana,
altro che sacchi e sacchi di doni!,
con un governo che non ha coraggio
è molto difficile evitare il contagio
e se si ci mettono pure i cretini
certo non bastano neanche i vaccini.
Quest’anno ti prego, nelle calze appese
non ti chiediamo regali costosi:
portaci solo un po’ di buonsenso,
di educazione e di prudenza
facci tornare alla vita di un tempo
senza più maschere e distanziamenti
per vivere tutti felici e contenti.

                 RETI VIARIE E FERROVIARIE NELLE ZONE INTERNE: UN SOGNO MAI REALIZZATOSI             

   Il problema del mancato sviluppo economico del Mezzogiorno e della Calabria in particolare, una regione che nel 1860 era una delle regioni più industrializzate della penisola, per la carenza di adeguate infrastrutture, prime fa tutte le reti viarie e ferroviarie, soprattutto nelle zone interne, non è nuovo e già all’inizio del XX secolo i molti politici e istituzioni calabresi cercarono invano e a lungo di sensibilizzare i vari governi del Regno d’Italia sulla necessità di realizzare strade e ferrovie degne di un paese civile come si faceva ormai da quarant’anni al Nord.
    Anche le autorità e i cittadini di Caccuri, a partire dal 1902, si batterono a lungo per la realizzazione di una ferrovia che collegasse Crotone a Cosenza, fra l’altro più volte promessa, ma che non vide mai la luce, cosa che contribuì ad accentuare l'emarginazione e l'abbandono progressivo delle zone interne.  Nel 1902 il sindaco Francesco Maida denunciò, in una delibera del Consiglio comunale, che " in Calabria la viabilità è ancora allo stato adamitico, senza che ancora avessero potuto usufruire della più grande scoperta del secolo, la vaporiera, tutti i nostri paesi che abitano molti chilometri dalla ferrovia e, per arrivarci, occorre una giornata intera, nella massima parte attraverso viottoli, burroni e guadando fiumi perché sforniti di ponti. I prodotti della nostra terra ubertosissima, per mancanza di viabilità, non possono facilmente trasportarsi alle più vivine piazze commerciali, quindi la fertilità della terra non è remunerativa per i nostri contadini i quali, incalzati dalla miseria ed allettati dal miraggio di una ricchezza per lo più effimera, sono stati e sono costretti ad emigrare nelle lontane americhe ove, in mezzo a privazioni e sacrifici inauditi, esplicano la loro attività ricordando, con le lacrime agli occhi, la patria e il campicello avito." Una denuncia lucida e accorata, ma che non produsse nessun effetto. (1) Purtroppo nemmeno i governi repubblicani si sono preoccupati, in oltre 70 di cercare di alleviare i disagi delle popolazioni delle zone interne decretando di fatto la morta dei nostri paesi nei quali ormai nessuno più produce “i prodotti della nostra ubertosissima terra”, per dirla con le parole del sindaco Maida che, tanto, non potrebbero, nemmeno oggi, essere agevolmente trasportati.

                                                         ‘U JIPPARELLU



    Non prendetela per una poesia; è solo uno scherzuccio, un pretesto per rispolverare qualche vocabolo arcaico scomparso dal nostro parlare quotidiano e omaggiare una pianta cantata anche da Leopardi che ci vestì per secoli grazie alla perizia e alla pazienza delle nostre bisnonne. Credo che non vi sarà difficile tradurla, ma se incontraste qualche difficoltà potete sempre consultare il dialetto caccurese sul sito L'Isola Amena alla sezione "Il mio paese - Dialetti".

Chi nchjiniatu ch’è ’stu guagliunellu
vestutu cu’ ‘nu curtu jipparellu
tessutu cu’ li fili re jinorra
cu’ l’arte antica re le nanne norre
chi la coglìanu pe’ timpe e valluni
'ntra petrarizzi e 'ntra li grattapuni.
Poi la mintìanu ammollu pe’ dui misi
e l’ammaccavanu cu pisanti pisi,
doppu la scarminiavanu cu’ riguardu
mentre la carduliavari al lu cardu
poi la filavanu serute allu 'mparu,
 la coglianu allu matassaru
e la tessianu allu vecchiu tilaru.
oppuru 'a gulliavanu cu’ li ferri
e ce confezionavanu i panni norri.

                                                            

                                     FRA DIAVOLO, UN GRANDE PATRIOTA MERIDIONALE


 

      A proposito di briganti, quegli uomini infangati dai francesi come succede sempre quando una potenza, anzi una prepotenza occupa con la forza e colonizza un territorio rapinandogli le risorse, schiavizzando e infangando con aggettivi infami i partigiani (vedi ribelli eritrei per gli italiani, per esempio, o banditen per i tedeschi durante  la Resistenza), mentre, in molti casi si tratta di eroi, patrioti che combattono l'invasore, ecco un esempio di eroe, un ex frate, poi colonnello dell'esercito del Regno delle due Sicilia, nemico acerrimo dei francesi che nel 1805 occuparono il regno meridionale cacciando i borbone e mettendo sul trono prima Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone e poi il cognato dell'imperatore, locandiere, prete mancato e poi generale al servizio dell'illustre cognato.  
    L'eroe in questione, Michele Pezza da Itri, molto popolare e temuto all'inizio del XIX secolo, è, tuttavia poco conosciuto dagli italiani o, conosciuto solo in virtù del soprannome di Fra Diavolo che gli affibbiarono per la sua presunta ferocia e inafferrabilità e per le sue diaboliche imprese che crearono non pochi problemi ai terribili e feroci francesi o per il celebre film commedia con Stan Laurel e Oliver Hardy che riprende l'opera Fra Diavolo, ou L'hôtellerie de Terracine del compositore francese Daniel Auber. Una curiosità: da frate Fra Diavolo visse nel convento di San Giovanni in Fiore e fu accusato di averlo incendiato.  Per capire la grandezza di Michele Pezza giova leggere cosa scrisse di lui Victor Hugo, figlio del colonnello Sigismond, appositamente inviato a Napoli per dare la caccia a Michele Pezza,  un nemico giurato, insomma, che scrisse:”Frà Diavolo personificava quel personaggio tipico, che si incontra in tutti i paesi invasi dallo straniero, il brigante - patriota, l’insorto legittimo in lotta contro l’invasore. Egli era in Italia, ciò che sono stati, in seguito, l’Empecinado in Spagna, Canaris in Grecia e Abd-el-Kader in Africa !”.

                                                        PARODIA DEL BRIGANTE CACCURESE

    Darsi alla campagna, alla macchia  (in dialetto jettare 'ncampagna), significa darsi al banditismo che è cosa diversa da quello che poi comunemente veNne definito "brigantaggio" dopo l'occupazione francese agli inizi dell'Ottocento prima e la conquista piemontese del Regno delle due Sicilie nel 1860.  I "briganti" criminali, quelli cioè che non si battevano contro gli aggressori, ma erano animati solo dall'istinto delinquenziale (anche se ci sarebbe molto da discutere sulle cause che spingevano la povera gente a delinquere) erano chiamati, infatti, "scorridori di campagna" e inseriti nelle "liste di fuorbando", cioè dei banditi, dei catturandi. Col tempo, però questa sottile differenza scomparve e per le autorità e per la gente comune divennero tutti briganti. 
   I nostri nonni, forse per sdrammatizzare un po' il problema o per ironizzare su qualche povero contadino, assai improbabile brigante, si inventarono questa simpatica parodia del brigante caccurese. 

Ciciarone è jettàtu 'n campàgna         Ciciarone si è dato alla macchia
pe' scupetta 'nu pàlu re vigna             per schioppo ha un palo di sostegno per la vite
pe' curtellu nu sppicchjiu re canna    per pugnale una scheggia di canna
Ciciarone è jettàtu 'n campagna         Ciciarone si è dato alla macchia.

   

                                                                                        GIOELLI

 

         Gironzolando per le strade del centro storico si possono ancora ammirare gioiellini come questi che, chissà "quante notti 'e Natale si ricordano", come dicevano  i nostri vecchi per indicare in lento scorrere dei secoli. Non è vero, come diceva Jimmy Fontana che "la noia, l'abbandono, il niente" sono la malattia dei piccoli paesi; a volte, come in questo caso, sono la salvezza. Troppo spesso, infatti, tesori come questi sono stati dilapidati sull'altare di una stupida modernità barattando diamanti con cocci di bottiglia. In questo caso "la noia e l'abbandono" ci danno l'opportunità di vedere ancora una vecchia porta con la "menzaporta" con la serramenta "furgiarisca" opera degli antichi fabbri caccuresi. Per la cronaca siamo all'imbocco del Vincolato in vico II Buonasera. Che ne dite, un paio di vergate cu' 'na frusta 'e ogliarru su quella mano che ha imbrattato la finestrella ci starebbero bene? 

 

                                                                  FIGHETTI



    Il professore Francesco Sabatini, presidente onorario dell'Accademia della Crusca e professore emerito di Storia della lingua italiana e linguistica italiana all'Università La Sapienza combatte da anni contro i mulini a vento rappresentati per l'occasione dai fighetti che non perdono mai l'occasione di fare sfoggio della loro conoscenza dell'inglese, anche se qualche volta incappano in qualche clamoroso strafalcione o scambiano il latino per la lingua di Albione. Recentemente anche il premier Draghi è apparso infastidito dalla presenza di una abnorme quantità di inglesismi in un discorso che evidentemente gli aveva preparato qualcuno dei suoi collaboratori, ma i nostri giornalisti continuano imperterriti nella dismissione della lingua italiana. Come in questo titolo: potevano usare l'espressione italiana "verifica dei fatti" che tutti capiscono, anche quelli che non dispongono di un computer o di uno smartphone, invece no, "fact checkink" è più figo, vuoi mettere? Poi si lamentano che la gente non legge i giornali! 

                                                                             Caccuri nel 1897

                                  

   Ho avuto l'occasione di sottolineare più volte l'importanza storica della fotografia ed il valore storiografico della stessa. La foto che commento oggi ne è la dimostrazione più lampante. Si tratta di un bozzetto di un ignoto artista della fine dell' Ottocento  che raffigura il castello di Caccuri e la Destra visti, più o meno, dal luogo nel quale negli anni '30 del secolo successivo sarebbe poi sorto l'edificio della scuola elementare. Tale bozzetto, risalente al 1897,  fu pubblicato sul numero 138 del 1898 della rivista "Le cento città", edita dalla casa editrice milanese Sonzogno,  della quale chi scrive è in possesso di una rara copia acquistata tempo fa.   
  Questo prezioso bozzetto, oltre a mostrarci uno splendido castello a soli dodici anni dalla realizzazione del bastione merlato e della torre ad opera dell'architetto Adolfo Mastrigli su commissione di don Guglielmo e donna Giulia Barracco, proprietari dell'immobile, ci fornisce altri particolare molto interessanti che cercherò di illustrare qui di seguito. Intanto il castello, che odora ancora di calce fresca, ci appare diviso in due corpi. La parte più antica e con l'intonaco più scuro, a ridosso del vecchio abitato di Caccuri era la vecchia dimora dei Cavalcanti fatta edificare dal duca Antonio seniore nella seconda metà del XVII secolo. C'è poi  un secondo corpo,  che forma un angolo ottuso con l'antico palazzo ed è collegato al bastione sul quale si erge la torre. In questo secondo corpo  l'intonaco appare più chiaro forse a testimonianza del fatto che era stato probabilmente  ristrutturato solo due anni prima. L'imponente costruzione è protetta da quattro parafulmini le cui aste erano ancora visibili nei primi anni '60 del secolo scorso; tre sul tetto e una sulla torre.  Anche la vecchia caserma dei carabinieri di via Mergoli era protetta da un parafulmine costituito da un'asta centrale collegata a quattro funi di acciaio che scendevano lungo i quatto angoli del fabbricato infilandosi nel suolo. 
   Accanto all' asta  sulla torre ci pare anche di vedere sventolare una bandiera, forse un tricolore, vessillo impugnato senza tentennamenti dai Barracco dopo l'Unità d'Italia quando tre rampolli dell'illustre famiglia ottennero il laticlavio. Molto nitida anche la rampa sotto la quale era incassata la vecchia condotta idrica che alimentava il castello e l'abitato di Caccuri, in uso fino ai primi anni '80 del '900, rampa che servì anche per il trasporto dei materiali utilizzati per la realizzazione del bastione e della torre. Purtroppo non si nota la vecchia via Adua che all'epoca doveva essere solo un sentiero percorso a piedi dai  caccuresi e dai muli e dai cavalli del barone che venivano rinchiusi nello stallone (attuale casa Talarico). 
   Continuando l'osservazione di questo prezioso documento notiamo ben visibili i resti dell'antica cinta muraria nel tratto compreso tra il Murorotto e la Porta nuova. Nella parte più in basso si nota anche una specie di torre di avvistamento, probabilmente nel luogo dove la cinta faceva angolo. Interessanti anche i tetti delle case nella zona della Porta nuova, molto più inclinati di quelli attuali.  Ai piedi del castello spicca una linea su pali che attraversa il paesaggio da est a ovest e che potrebbe erroneamente far pensare ad una linea elettrica. In realtà l'elettricità arrivò a Caccuri solo molti anni dopo. Quella in questione, invece, è, con molta probabilità,  la linea telegrafica Caccuri  Petila Policastro - San Giovanni in Fiore costruita nel 1877 dal Comune di Caccuri per rompere l'isolamento del paese e che entrò in funzione del mese di ottobre dello stesso anno. L'opera era stata deliberata dal consiglio comunale il 30 gennaio del 1877 sulla base di un finanziamento promesso dalla Deputazione provinciale e che arrivò, però, solo molti mesi dopo che l'opera era già stata realizzata. (1)  La direttrice della linea, così come ci lasciano intuire i tre pali che osserviamo nella foto, ci fa ritenere che la linea Petilia - San Giovanni passasse più o meno per la località Praci - Acquafredda dove, probabilmente, si collegava a quella di Caccuri. 
   Purtroppo questi luoghi fiabeschi  rimasero tali solo fino al 1930. Poi l'opera di deturpazione ebbe inizio con la costruzione dell'edificio scolastico che devastò parte del "Petraro", luogo nel quale era sorto nei secoli  uno dei più antichi insediamenti rupestri della Calabria, fra l'altro abitato fino alla fine del XIX secolo, e proseguì con altri scempi tra i quali la distruzione dello spuntone della Mezzaluna). Qualche anno fa, infine, a completare l'opera, fu realizzata una specie di siepe metallica che nelle intenzioni di chi l'ha realizzata dovrebbe servire a garantire la sicurezza dei passanti sulla via Adua, ma che, oltre a non garantire un bel nulla, deturpa orrendamente quello che era rimasto ancora da deturpare. 
   Intanto già verso la fine degli anni '40 del Novecento i Barracco cominciarono a disinteressarsi dell'antica dimora e dei possedimenti caccuresi che vendettero agli inizi degli anni '50, parte al comune, parte a privati. Don Guglielmo e Donna Giulia che erano molto legati, anche affettivamente, a Caccuri e alla loro dimora,  non ebbero figli,  così dopo la loro morte gli eredi vendettero non solo il castello, ma anche lo splendido parco annesso, il convento e tutte le altre proprietà caccuresi, ma chi subentrò nel loro possesso, a cominciare dal Comune,  non coltivò, evidentemente, il culto della bellezza estetica.  

                                 Giuseppe Marino

1) Vedi G. Marino, Caccuri e la sua storia, Abramo 1983, pagg. 31-32

 

                                              PER NON DIMENTICARE - I CRUCI 'E 'NA VOTA
                                                                    di Peppino Marino

 

Mo si ti ne sta bonu, quetu, quetu,

vicinu a mia, serutu ccà, allu focu,

Luiginè, mentre te manci ‘e nuci,

te cuntu cu’ se stava’ ‘ntra li Cruci

versu ‘u cinquantanove, pressappocu.

 

Mmenzu la casa ‘e za Maria ‘a Giggia,

sutta lu pergulatu era seruta,

‘na vecchiarella: Mariarosa ‘a Muta,

sempre cu petrannosti e figurelle,

mentre za Mariantona, affaccennata,

jia de cca e de llà pe’ vie e vinelle.

 

C’era za Filumena la Vituzza,

cu Marietta,  zu Luiciantone,

Matiresa e Vicenzu e Ciciarone,

mentre ogni tantu, là, allu viveri

‘ntoppava’ zu Giuvanni re Rizzeri.

 

Cchjù supra zu Ruminicu lu mutu;

Stava serutu ppe’ li fatti sui,

ma nue, tutti i guaglioni re li Cruci,

ne rivertianu a ce fare cruci.

 

Allura zu Ruminicu s’azava

E puru ca nun stavari all’imperi,

pijava ‘na bella grasta e cialameri

e, cu la forza, a nue ni la minava.

 

Poi nne curriari appressu, povarellu,

e allura nue, pe’ ne sarbare a pella

fujianu n’tru fornu ‘e Nuzziatella

e ni ce zunmmullavanu a munzellu.

 

E allura ‘u vecchiarellu, povarellu,

li peri rrascinannu pe’ l’affannu,

se ricoglìa alla casa e s’assettava

e tutta la marmaglia se scialava.

 

C’era zu Giggiu cu lu gummulicchjiu,

chi jia a Larusu all’acqua frisca e bella

mentre cchjiu supra, za Marasabella

scupava la casa chjina re rinacchjiu.

 

A gente alla Nuzziata picuniava

Nguacciu la casa e za Marasabbella.

‘a rina ppe’ se fare ‘a casicella

e cu lu ciucciu poi la carriava.

 

Pocu chhjiù llà c’era la putighella

Re zu Luigge, ‘u vecchiu re Pizzutu

Vinniari pasta, zuccaru, e sardella,

sarsa, sapune, e latte condenzatu.

E nui, li guagliunelli cannaruti

Volìanu i formagginu e cicculata

Coglinu i  grigffu a triangulicchjiu

E Rintintin, Lupettu e autri ancora.

 

E pe lle vie quanti belli jochi:

rummulum, sguiglia, latru e pecurella,

‘u cannatellu e poi l’ammucciatela,

e alli buttuni: allu vulu e allu battu.

 

Quannu venìa Natale, Ciciarone

ravari manu alla ciaramella,

e allura, n’tru paise, pe’ ogni via

sentìa la festa ed era ‘n’allegria.

 

Chissi eranu ‘i Cruci re ‘na vota,

locu re pace ‘e gioia e allegria;

c’era miseria, è veru, ma però,

 è meglio, cumu su riddutti mò?

 

P.S.

Chi ha la mia età o qualche anno di meno ricorderà sicuramente le persone citate nella poesia, persone splendide, grandissime nella loro umiltà che avrebbero meritato la penna di Lee Masters o di Pasolini.

 

                                    IO PERò L'HE MISE 'NTRU PANARU

   Dice il saggio: 'E re mennule chi juranu a jennaru 'un ne minti 'ntru panaru. E dice male perché anche i saggi a volte dicono fesserie, primo perché da quando fu introdotto in Italia dai fenici il mandorlo è sempre fiorito a gennaio, almeno nel Mezzogiorno, secondo perché dopo 4 anni dall'impianto di un mandorlo, non solo "n'he misu 'ntru panaru", ma ne ho riempito 'na copparella, una provvista non abbondante, ma sufficiente per toglierci lo sfizio, durante l'anno, di un po' di cantuccini fatti in casa. i famosi biscotti etruschi. Credetemi, cari amici, coltivare la terra e piantare alberi conviene, anche quando l'annata non va tanto bene, perché  alla fine " 'E latru e de latrune, 'a meglia parte è du patrune." 

 

                     LA SAGGEZZA NEGLI ANTICHI PROVERBI 

     Quannu ‘u  povaru aiuta lu riccu ‘u riavulu si ne sciala!  Oggi mi è tornato alla mente questo nostro antico proverbio. Vi lascio alle vostre riflessioni.

 

                              L'ANTICA FESTA  CACCURESE IN ONORE DI MAIA
                                                                   di Peppino Marino 

                     

   Festa dei lavoratori, San Giuseppe Artigiano, “Festa di Maia”: la ricorrenza del 1° maggio a Caccuri un tempo era un miscuglio politico – religioso, una occasione nella quale tre culture diverse, quella laica moderna, quella cattolica e quella pagana, si intrecciavano e si compenetravano fino a contaminarsi magari inconsapevolmente. Se la chiesa fa coincidere con la più laica delle feste la celebrazione dello “sposo di Maria” (che fra l’altro festeggia già il 19 marzo) nella sua veste di lavoratore (secondo il maestro Profazio fu lui a fondare il sindacato) ed il sindacato organizza (o meglio, organizzava) la festa del lavoro, chiesa e sindacato sovrappongono le loro celebrazioni a quella di un’antichissima festa pagana: quella per l’arrivo della primavera, dedicata alla dea Maia. Già nell’antica Roma, nel periodo primaverile, si celebravano numerose feste in onore della maggiore delle Pleadi, la bellissima figlia di Atlante e di Pleione amata da Zeus con il quale concepì Ermes, considerata l’artefice del risveglio primaverile. A Caccuri, evidentemente, questa antichissima tradizione è rimasta intatta nel corso dei millenni, anche se, ovviamente, la contaminazione cattolica, l’ha in qualche misura snaturata per non dire cancellata. Comunque, in ricordo di quella antica festa pagana, le donne usavano fino a pochi anni fa collocare sull’architrave dell’uscio delle case un mazzo di fiori (ginestra, sambuco e di spine di colore giallo) in onore della divinità. A questi possono aggiungersi altri fiori, con l’accortezza di non far mancare mai la spina che, secondo un’antica credenza popolare, dovrebbe accecare i nemici della famiglia che abita in quella casa e, comunque, proteggere dall’invidia e dal malocchio. Particolare attenzione veniva posta alla prima persona estranea che metteva piede in casa nel corso della mattinata: guai se era una persona anziana o, peggio, a lutto! Rischiava, nella migliore delle ipotesi, di venire cacciata via in malo modo, se non di peggio. Se entrava in casa di primo mattino un anziano o una persona in lutto, il presagio era inequivocabile: morte e sciagure sicure entro la fine dell’anno. Grandi feste e generosi regali, viceversa, se a varcare per primo la soglia era un ignaro fanciullo, simbolo di prosperità, salute e lunga vita. Quanta cultura abbiamo gettato nella pattumiera!

                                                                IL LAVORO è FATICA
                                                                   di Peppino Marino 

 

 

      Dedicata agli amici che hanno commentato il post su aia e palmenti

 

Come giustamente disse Arturo,

“Più tempo passa e più il lavoro è duro!”,

e, ancor più giustamente aggiunse Orlando

“Il pane si guadagna faticando!”

“Questa è la vita, sentenziò Giovanni,

si vive notte e giorno tra gli affanni!”,

talché rise di gusto Salvatore

che è sempre stato un gran lavoratore.

“Bene..., bene...., concluse allora Franca,

resta assodato che il lavoro stanca:”

“Però, osservò perplesso Cortellazzi,

se non lavori, cosa mangi? …….. lazzi?!   

 

                                                                        ANCHE LORO CELEBRAVANO LA PASQUA 



   Nei giorni di festa, come quello di oggi siamo soliti scambiarci gli auguri con i nostri cari, con gli amici, con le persone che incontriamo. Usi, consuetudini, riti che si tramandano nei secoli, immutabili, tranne qualche nuova moda, qualche contaminazione consumistica che, magari, ci porta a preferire dolci o piatti che niente hanno a che vedere con la nostra cultura, ma tutto sommato, continuiamo a fare quello che hanno fatto i nostri padri, le nostre madri, i nostri nonni i caccuresi di una volta, come quelli in questa foto che ho avuto la fortuna di conoscere e di stimare. Li presento a chi non li ha conosciuti con l'ausilio dei numeri:

 1) Antonio Manfreda (zu 'Ntone 'e Cerza) 
 2) Michele Dardani, fratello della medaglia d'argento Giovanni;
 3) Peppino Salerno (Cesarino)
 4) Domenico Falbo (Micuzzu 'u Vurpu)
 5) Carolina Lucente
 6) Peppino Gigliotti ('U Dado)
 7)Eugenio Pitaro, macellaio
 8) Enrico Pasculli
 9) Matteo Oliverio
10) Francesco Sperlì, sindaco del paese
11) Guido Iaconis (Guiruzzu).

   Un saluto commosso e deferente a quelli che non sono più con noi. 

 

                                                                   'A CHJIANCA 'E GENUZZU PITARO 

   Ho avuto modo più volte di parlare dei numerosi esercizi commerciali che costellavano il tratto compreso tra la Santa Croce e il largo Misericordia negli anni '50 del secolo scorso e che facevano dell'antico borgo un centro vitale e animato prima che il lento declino iniziato negli anni '90 lo trasformasse quasi in un paese fantasma.
  Subito dopo il forno Blaconà e prima del bar Caputo, a quei tempi gestito da Ciccio Pasculli che si avvaleva della collaborazione del suocero Rosario Catanzaro, ci imbattevamo in questa macelleria di proprietà di Eugenio Pitaro ('a chjianca 'e Genuzzu), un bugigattolo nel quale facevano fatica a entrare più di due persone oltre il titolare, ma che, assieme a quella di Luigi Iacometta al centro di via Misericordia e a quella di Antonio Gigliotti in largo Misericordia, adiacente il salone Tallerico, fornivano la carne per la numerosa popolazione del tempo. Il locale era quello che poi ospitò per molti anni il bancomat e oggi il punto di informazioni turistiche.
  Eugenio era una bravissima persona. Personalmente ne ho un ottimo ricordo anche perché in anni molto difficili per la mia famiglia ci fece credito senza problemi consentendo anche a noi di mangiare un po' di carne come se fossimo pure noi dei signori. Quando dovevamo chiedere la carne a credito era lui che, amabilmente, ci toglieva dall'imbarazzo e queste sono cose che non si dimenticano. 

                                                      LA FAMIGLIA ALLEVATO      

                                



    L'amico Peppino Allevato mi ha fatto pervenire questa interessante foto che ritrae i nonni, Francesco Allevato e Filomena Leto col figlio Luigi, a sinistra. Impressionante la somiglianza tra questo ragazzo e il fratello Vincenzo, padre di Peppino. La famiglia Allevato era una delle tante famiglie caccuresi divise in vari ceppi e delle quali, se non sbaglio ormai è rimasta solo quella di Peppino. Un destino comune a molti cognomi un tempo diffusissimi in paese e oggi scomparsi, come i Peluso, i Procopio, i De Luca, o la cui presenza è fortemente ridotta come, appunto, gli Allevato, i Secreto, i Lucente, gli Oliverio. Peccato. 

                                                                  PIETà FILIALE
                                                                 di Peppino Marino

                                                       



   
    Nicolino era appena tornato dall'America: lo si capiva a prima vista dalla sgargiante giacca gialla, dalla cravatta blu sulla camicia marrone, dal cappello di lino bianco e dalle scarpe esageratamente a punta; l'immancabile sigaro in bocca completava il look dell'ennesimo italo americano.
   Vent'anni prima, carico di miseria e di speranza con sulle spalle una elegante "valigia di cartone" era salito su uno dei tanti bastimenti che solcavano l'oceano diretti nel paradiso di Roosvelt. E la fortuna era arrivata quasi subito sotto le sembianze di un compaesano che gli aveva trovato un posto di garzone in una pizzeria di "Brokkolino".
   Nicolino ci aveva dato dentro e già tre anni dopo, raggranellato qualche dollaro, si era messo in proprio. Gli affari andavano discretamente e il giovane non aveva dimenticato il vecchio padre rimasto in Italia e al quale mandava puntualmente qualche soldo. Tutto andava a gonfie vele quando un brutto giorno il povero vecchio venne chiamato repentinamente in cielo e dovette abbandonare questa valle di lacrime. Nicolino ne soffrì terribilmente e da allora non pensò ad altro che a tornare per un breve periodo al suo paese per far visita alla tomba del padre.
   Venti anni dopo finalmente sbarcò in Italia e, dopo qualche giorno, giunse al paese. Il momento era arrivato  e, in occasione della festa dei morti, si recò al cimitero. Giunto nel posto ove presumeva si trovasse la tomba del povero zio Gaetano si mise a chiamare a gran voce don Pasquale, il vecchio custode del cimitero perché gliela indicasse. "Don Pasquale, prese a dire nel suo nuovo idioma, you impara me dove essere tomba my padre?" Il custode, che a stento aveva decifrato quella tiritera, gli mostrò il  tumulo sotto il quale riposava  zu Gaetano e sul quale si reggeva a stento un piccola croce di ferro, poi tornò alle sue faccende.
   Nicolino guardò a lungo la misera sepoltura, ma non riusciva ad accettare l'idea che li sotto potessero esserci le spoglie del padre. Passò ancora qualche attimo e richiamò il custode. "Don Pasquale, Don Pasquale, sorry, my padre non essere qui".
   Don Pasquale pazientemente ritornò sul posto e gli indicò per la seconda volta il tumulo. Nicolino sembrò finalmente convinto e, mentre una lacrima gli solcava il viso, sistemò un mazzo di fiori sulla croce. Poi rimase lì a meditare, ma più passavano i minuti, più gli sembrava impossibile che il padre potesse stare li sotto. "Don Pasquale, si mise ad urlare per la terza volta Nicolino, my padre non essere qua!"  "Sarà andato un'altra volte al bar a giocare a carte; non lo perde mai questo viziaccio!" urlò don Pasquale bestemmiando come un turco, mentre i parenti degli altri defunti scoppiarono in una fragorosa risata.


                                                                SCHERZUCCIO
                                                                 di Peppino Marino



   Questo scherzuccio senza pretese ha il solo scopo di rispolverare e ricordare a me stesso alcuni sostantivi del nostro dialetto, alcuni dei quali in disuso da anni. Non cercateci messaggi occulti, intenti didascalici o moraleggianti che non trovereste semplicemente perché non ci sono. 

C’era ‘nu quatrarellu
‘nu pocu accippatellu
supra ‘nu timparellu
c’avia nu jipparellu
paria ‘nu babbarellu.

Avia ‘nu copparellu,
‘na palettella rutta,
‘ncoppava la terra asciutta
e la mintia ‘ntru coppu.

Passa ‘nu cristarellu
vulannu ‘ntra lu celu,
vira lu guagliunellu
 e si ce fruga ‘ncollu.

Però ‘nu canicellu
zumpa re lu munzellu
‘e terra llà vicinu,
se lanza cu ‘nu lefantu
contra lu malu aggellu
e cu’ ‘nu muzzicune
 ‘u jetta ‘ntru grattapune.

E’ sarbu ‘u piccirillu
cuntentu ‘u canicellu
se serari a cullura
e jocari la cura.

             'A  SANTA CUCUZZA
           di Peppino Marino

 



  “A cumu canta la Santa cuzza……”. Chi di voi non ha mai sentito questa espressione dialettale che sta a significare più o meno “a giudicare dalle apparenze, “da come si presenta la cosa”, da quanto è dato vedere. Ma da dove ha origine questa curiosa battuta che risale ai tempi di papa Galeazzo. Si, papa Galezzao! Ah, non cercatelo nell’annuario dei papi perché non lo troverete. Papa Galezzo, infatti, Caliazzu in pugliese, è un papa salentino frutto della fantasia popolare, che aveva un curioso sistema per contare i giorni e individuare quelli festivi utilizzando semi di zucca e fave conservati all’interno di una zucca vuota essiccata. Un calendario davvero originale.  Secondo la versione caccurese, però, ‘a santa cuccuzza del papa pugliese, oltre che come calendario per  individuare i giorni della settimana e le festività mobili, era anche un mezzo per prevedere il futuro, un oracolo insomma i cui responsi venivano comunicati alle persone interessate premettendo la formula “A cumu canta la santa cucuuza.” Insomma uno strumento davvero comodo. A questo punto ho chiesto anch’io all’oracolo cucurbitaceo: “Usciremo davvero presto dalla pandemia?” La risposta lapidaria e un po’ sibillina è stata:  “A cumu canta la santa cucuzza ‘un mi ne chjiura nasu!”

 

                                                              L'ALUNNO MODELLO



   Quando insegnavo mi piaceva tantissimo scrivere drammi, commediole, sketch come questo che  spero vi regali un po' di buonumore.

Personaggi:

 

1)        Mario Rossi, alunno modello
2)      Il Maestro
3)      Il Direttore
4)      Pierino
5       4 comparse donne
5)      2 comparse uomini.

Scena unica

Interno di un'aula arredata con cattedra, lavagna e banchi rigidamente divisi per sesso. All'apertura del sipario gli alunni sono tutti in piedi per l'aula e fanno chiasso. All'improvviso entra il maestro e gli alunni si precipitano ai loro posti. Il maestro li rimprovera aspramente.

                       Maestro: Discolacci, maleducati, sempre I soliti! Mai una volta che vi si possa lasciare soli un momento. (Si siede in cattedra.)  Dunque,  vediamo un po’, siete tutti presenti?

Pierino:         No, manca Rossi. Gli è morta la nonna.
Maestro:    Un'altra volta, ma quante nonne ha? Quindici?
Pierino:    Io che ne so? Il padre s'è sposato tre volte.

Tutti ridono rumorosamente.

Maestro:    Silenzio, mascalzoni. Vi faccio passare io la voglia di

fare gli spiritosi. Dunque..... oggi interroghiamo. Spero di trovarvi preparati....... (rivolto a Pierino) Tu, Pierino, vieni tu.

Pierino si stiracchia, sbadiglia, si contorce.

Maestro:   Sbrigati, pelandrone, non ho tempo da perdere.

Pierino si alza e si avvicina alla cattedra.

Maestro:    Dunque, vediamo.........

Si sente bussare alla porta.

  Maestro: Avanti,

Si apre la porta ed entra il Direttore. Alunni ed insegnanti scattano in piedi.

Direttore: Buon giorno, signor Maestro, buon giorno ragazzi. 

Alunni e maestro: Buon giorno, signor Direttore.

                   Direttore: Seduti, seduti. Bravi ragazzi, vedo che la vostra è una bella classe. Bravo, signor Maestro, mi compiaccio! Oggi ho  deciso di farvi una visitina per constatare di persona l'andamento di questa classe. MI auguro proprio di trovare alunni seri, degni cittadini della nostra amata patria, modesti, virtuosi e preparati.

Mentre il Direttore parta, Pierino disturba e il maestro furtivamente gli tira le orecchie.

                    Direttore: Signor Maestro, Lei mi consente, vero, di interrogare qualcuno di loro?....

                   Maestro: Con grande piacere, pensavo proprio di interrogarli.

                   Direttore: Bene, grazie, (rivolgendosi a Pierino) Incominciamo da questo bravo giovanotto.

Pierino incomincia a fare smorfie mentre il maestro alza gli occhi al cielo.

Direttore: Bene, caro ragazzo, dimmi un po’, come ti chiami?

                Pierino: lo non mi chiamo mai, anche perché poi non mi rispondo (ride sguaiatamente)

Maestro: (minaccioso) Monellaccio impertinente!

Direttore: (conciliante) Bene, vedo che sei abbastanza vispo.

Cominciamo con la storia romana. Tu conosci Romolo, vero?

Pierino: E come no? Ehehhh.

Direttore: E chi era?

 Pierino: Romolo, no.....?

Direttore: Romolo chi?

Pierino: Romolo Il pasticciere. Ieri mi ha regalato due
cannoli.....

Direttore: (scandalizzato). Oddio! ma no, ..ma no!  Beh,  passiamo alla geografia. Dimmi un po’, dove si trova il Panaro?

Pierino: Questo è facile. L'ho visto stamattina nella dispensa.
Direttore: Nella dispensa, ma che dici?
Pierino: Si, zio Pasquale stamattina presto ha raccolto le castagne ah, ah. 
Maestro: (molto arrabbiato e mollandogli uno scappellotto) ignorante, maleducato.
Direttore: Uhmmm, nemmeno la geografia è il tuo forte. Passiamo alla matematica. Ascoltami bene. TI propongo un problema facile, facile, ma tu rifletti bene prima di   rispondere....... Allora.... in un cestino ci sono 32   nespole.... Tu ne mangi una ogni 10 minuti... Dopo un'ora quante nespole ci saranno nel cestino?

Pierino: (senza riflettere) 32, signor Direttore!

Direttore: Ma come 32, pensaci bene. Tu ne mangi una ogni dieci
minuti.......

Pierino: Ma io non le mangio perché le nespole non mi piacciono!
Gli alunni ridono

Maestro: Monellaccio, impertinente, ti insegno l’ educazione . Vai a posto,villano!

Direttore: Lo lasci stare, è un maleducato Ignorante, uno   scansafatiche, un perdigiorno. Sentiamo qualche altro.
Si avvicina a Mario Ecco, questo bravo giovanotto. Rivolto a Mario......... Come ti chiami?

Mario:     Mario, signor Direttore.

Direttore. Bravo, Mario, vedo che fai sei un ragazzo educato. Dimmi un po’, chi era Augusto?

Mario:      Caio Giulio Cesare Ottaviano Augusto, fu II primo
                   Imperatore  romano. Nacque II 23 settembre del 63   avanti Cristo alle 17,45       
                   minuti primi e dodici secondi   da Atti, sorella di Giulio Cesare e...................


Direttore: (Interrompendolo) Bravo, bravo, tu si che sei un ragazzo studioso. E dimmi ancora, quando partì la spedizione dei Mille?

Mario:    La spedizione partì da Quarto presso Genova il 6 maggio 1860 alle ore 20,35 minuti e 14 secondi esatti.

Direttore: Bravo, esatto, che preparazione, quale solida   formazione culturale! Ma passiamo alla geografia. Mi sapresti dire quanto è alto iI monte Bianco?

Mario:    Niente di più facile, signor Direttore. E' alto 4.810, tre centimetri e due millimetri.

Direttore: Favoloso, stupendo! Bravo, ragazzo mio! Il tuo maestro può ben essere fiero di un alunno così preparato. Concludiamo con la matematica. Dunque, tu compri 25 uova a lire 50  l’una. Quanto spendi?

Mario:     (Prontissimo) 1.250 lire, signor Direttore.

Direttore: Bravo, bravo, bravo! Ecco la vera scienza, la sapienza, la ……… 

Pierino :   (Ride molto rumorosamente) Ah, ah, ah, ah....
Maestro: Basta, briccone, lazzarone.... (Gli da uno scappellotto) 
Direttore: Insomma, discolaccio, si può sapere cos'hai da ridere?

Pierino: Ah, ah, ah, sto pensando a quel cretino che vende ancora le uova a cinquanta lire, ah, ah, ah, ah!.

                                                   


                                                              STORIE DI MISERIA E FAME
                                                                         
'U SARDARU
                                                                       di Peppino Marino


  
    Saverio era un contadino povero, così povero da non potersi nemmeno comprare un paio di scarpe. Quando lo si incontrava di ritorno dal pietroso podere che gli era stato assegnato dopo la lotta degli ex combattenti, gli occhi finivano inevitabilmente per fissare l’alluce del piede destro fasciato da una pezza che fungeva da calza e che faceva capolino dalla scarpa spuntata. Il vestito liso e consumato, era quanto restava della divisa con la quale si era congedato alla fine della Grande guerra, un variopinto assemblaggio di toppe sui ginocchi, sui gomiti e sul sedere. Ogni mattina si alzava di buonora e si recava alla vigna portandosi dietro il più piccolo dei figli, Vincenzino, che lo aiutava nei lavori che la tomolata di terra richiedeva; gli altri, quelli più grandi, o andavano a giornata nei terreni di don Peppino, o andavano per legna nei boschi dei dintorni per poi rivenderla a tre soldi la salma.
   Il contadino conosceva molto bene il robusto appetito del figlioletto, nondimeno non poteva che dargli un tozzo di pane di miglio da sbocconcellare a mezzogiorno. Il problema però era quello di riuscire ad arrivarci a mezzogiorno.
   Verso le dieci passava dalla mulattiera, massaro  Michele che con ironica perfidia gridava al ragazzo:” Vincenzino, Vincenzino attento ai cani , ehi, guarda, stanno divorando la spesa.” Poi si allontanava sghignazzando accompagnato dagli improperi e dalle maledizioni di Saverio contrariato da quello scherzo stupido e crudele ripetuto quasi tutti i giorni ai danni del povero contadinello affamato.
    Alle nove del mattino Vincenzino lottava con i primi crampi allo stomaco e cominciava la solita litania: “Papà, ho fame, mangiamo?” Saverio sentiva una stretta al cuore. “Aspetta, Vincenzino, aspetta. Non abbiamo che pane asciutto; fra un po’ passerà dalla mulattiera il sardaro,  così compriamo quattro alici salate e mangiamo pane e alici.” “Va bene, papà”, rispondeva rassegnato il ragazzo.  La cosa si ripeteva tre, quattro volte nel corso della mattinata. E così si arrivava a mezzogiorno. Del sardaro e delle alici, nemmeno l’ombra e, d’altra parte, anche se fosse davvero passato, Saverio aveva dimenticato a casa il portafogli. Allora Vincenzino sbottava: “Papà, io ho una fame da lupo; non me ne importa niente del sardaro e delle alici, mi accontento del solo pane” e si precipitava ad aprire la spesa per sbocconcellare il pane di miglio.
   Saverio, col cuore a pezzi,  sorrideva ripensando a quell’espediente che gli aveva consentito di tenere a bada la fame del figlioletto fino a mezzogiorno e  sperava di riuscirci anche fino a sera.   

 

AVOGLIA 'UN FRISCHI! 

   Quannu 'u ciucciu 'un vo'n acqua, avoglia 'un frischi! Verissimo! Chi di noi non ha mai "friscatu a 'nu ciuccio" che non aveva nessuna intenzione di bere? Io l'ho fatto tantissime volte fin quando finalmente ho aperto gli occhi e serrato le labbra. 

 

Infarto 


 

Don Nicola era un vecchio buono. Aveva oramai da tempo superato gli ottant'anni e, da quel giorno, aveva smesso di contarli. Viveva una sua vita tranquilla godendo e beandosi dei piccoli piaceri che a quell'età la vita può ancora concedere: la partita a carte, la chiacchierata con gli amici, un raggio di sole che ti accarezza e ti scalda, la fumatina nell'inseparabile pipa, compagna fedele di tanti momenti. Ed in quella splendida giornata di primavera il vecchio li aveva riassaporati tutti insieme. Uscito di casa verso le nove del mattino, si era recato in piazza ed aveva giocato a briscola, poi si era seduto sul muretto, abituale ritrovo degli anziani , per godersi quel tiepido sole e quella carezzevole brezza che portava fin nel cuore dei paese l'inebriante profumo degli alberi in fiore e del rosmarino. E, mentre con gli amici riandava ai bei tempi, alla fatica, ai sacrifici, agli stenti, ma anche ai canti, ai balli, agli amori, cavò di tasca la pipa e, dopo averla lentamente e sapientemente caricata, diede fuoco al le polveri aspirando avidamente quel non proprio profumato incenso. Intanto s'era già fatto mezzogiorno ed il vegliardo, lasciati gli amici, si avviò verso casa. A metà strada tolse la pipa di bocca e la ripose, così come faceva sempre, nella tasca interna della giacca. Era oramai sull'uscio e la famiglia, seduta al desco, attendeva il suo ingresso in casa per il pranzo, quando un urlo sovrumano giunse alle orecchie attonite del figli. "Ahh, gridava il vecchio, il cuore ahh, che male!". I figli accorsero e lo trovarono accasciato sulla soglia. "Ahh, figli miei, è finitaaa.... è venutaaa muoio, che dolore! continuava a lamentarsi don Nicola. I congiunti lo fecero entrare in casa e lo aiutarono ad adagiarsi sul letto. "Ahhh , figli miei, gemeva il povero vecchio, è il cuore muoio  ahh, ascoltate le mie ultime volontà." I figli si convinsero che poco restava da fare e che l'ora del trapasso era arrivata, nondimeno tentarono il possibile per strapparlo alla morte e, mentre il minore si precipitava a chiamare il medico, l'altro pensò di togliergli la giacca. Appena l'ebbe sbottonata, un sottile filo di fumo frammisto al puzzo di tabacco si diffuse nella stanza. Il giovane dapprima penso che il troppo tabacco fumato avesse fuso il cuore del vecchio, poi intuì la terribile verità: gli strappò violentemente la camicia e mise a nudo la piccola ustione che provocava quell'atroce dolore proprio mentre il fratello entrava trafelato nella stanza seguito dal medico.

                                                        
                                                         'A Sampugnella

 

 

    Uno dei motivi per i quali da fanciulli aspettavamo con trepidante ansia il ferragosto era l'arrivo " 'e re bancarelle", le bancarelle dei negozianti di giocattoli allestite nel tratto tra l'inizio dei Mergoli e quello di via Misericordia subito dopo piazza Umberto, quella, non quella che ci ostiniamo,  a chiamare piazza Umberto). C'erano si altre attrattive, come ad esempio il mitico tiro a segno di don Serafino con il bersaglio che quando lo colpivi cadeva lungo una guida di ferro su una piccola carica di polvere che esplodeva provocando un simpatico botto o con i fucili a piumini  (piccola freccetta che terminava con un fiocchetto colorato)  uno dei quali una volta, partito dal fucile di un giovane maldestro, si conficcò nello zigomo del vecchio giostraio facendolo bestemmiare per il dolore, ma quelle erano attrattive per quelli più grandi, mentre i più piccoli ci accontentavamo della pistola ad acqua, dello stantuffo o della sampugnella. 'A sampugnella era un corista a fiato a una sola nota collegato a un normalissimo palloncino di quelli che si usano per riempirli di elio e farli librare in cielo. Il divertimento consisteva nel soffiare nel corista per gonfiare più che si poteva il palloncino, quindi si lasciava che lo stesso si sgonfiasse. L'aria uscendo faceva vibrare la lamina del corista che emetteva una nota lunghissima e monotona. Come passatempo non era il massimo e forse anche un tantino noioso, ma per la nostra generazione, che non conosceva la play station e le altre diavolerie, era il massimo dello spasso. Per dovere di cronaca c'è da dire però, che nell'attesa del ferragosto e delle sampugnelle, avevamo scoperto (o meglio lo avevano scoperto i nostri nonni e forse prima di loro i nonni dei nonni) una sorta di surrogato delll'agognato strumento utilizzando "i cannoli" cioè gli scapi fiorali delle cipolle che andavano in semenza. Soffiandovi dentro con particolari accorgimenti se ne ricavava un suono simile allo squillo di una tromba.     

                               'A JOCCA



" Me para ca se vo' parare jocca" esclamava mia madre quando una gallina, col suo comportamento insolito, manifestava il suo "desiderio di maternità".  Allora  mamma si affrettava a prepararle il nido contenente un discreto numero (sempre  dispari) di uova che la chioccia si affrettava pazientemente a covare. Quindi anche per me iniziava un'attesa impaziente che durava fino a quando le uova non cominciavano a schiudersi e i pulcini completavano l'opera liberandosi  del guscio. Qualche volta capitava che fra le uova ve ne fosse uno "cuvatusu" cioè non fecondato dallo sperma del gallo, destinato fatalmente a marcire  sotto la chioccia per cui dovevamo sorbirci il suo pestilenziale odore.  Ogni volta che la chioccia si prendeva una breve pausa allontanandosi per qualche attimo dal nido correvo a esaminare attentamente le uova nella speranza di scorgere  qualche segno di vita.  Poi, quando la chioccia e la covata si mettevano in moto razzolando nel piccolo cortile di casa nostra, la seguivo a prudente distanza perché la neo mamma, temendo che volessi far male ai piccoli, centuplicava la sua aggressività. Oggi anche da noi è difficile trovare qualcuno che allevi ancora galline e chi lo fa le compra già quasi adulte, di quelle nate nelle incubatrici.  Insomma una sorta di fecondazione assistita. Per le galline  non si applica la legge 40 e la chiesa non è contraria alla riproduzione dei polli con metodi artificiali. Almeno per ora.  Addio vecchia,  nevrotica, amata jocca!

 

                                                                     FOGLIE D'ULIVO ALLA VITTORIA

    La fantasia in cucina è fondamentale perché ti ispira e ti consente di preparare eccellenze come queste. Un buon piatto deve riuscire a deliziare tre dei nostri sensi: il gusto, l'odorato, ma anche la vista è questo ci riesce in pieno. Questa volta il merito è tutto di mia moglie che se lo è inventato, dice lei, in una notte insonne. Così ieri, munito di guanti, mi ha fatto raccogliere una verdura che spesso maledico quando mi capita di urtarla accidentalmente e che abbiamo lessato, frullato e impastato con una eccellente semola di grano duro  italiano, assolutamente privo di glisofato. Quindi abbiamo modellato la pasta ricavandone un bel po' di "foglie di ulivo" che oggi ha lessato e mantecato in una salsa di salsiccia calabrese fresca e champignon. Il risultato è quello che vedete in foto. E non è tutto, ma il resto ve lo racconterò un'altra volta. 
Ah, dimenticavo: un avviso a quelli che ti fanno pagare un uovo alla coque 40 euro: non ci provate, questo piatto è brevettato.

 

                                                                                             'A SPISA

  Oggi vi racconto una novella triste ma che dovrebbero leggere tutti e meditare su cosa siamo oggi, cosa eravamo e cosa rischiamo di tornare a essere in questo mondo globalizzato e col trionfo del neoliberismo più becero. 

  Da parecchi giorni il sole dardeggiava alto nel cielo ed i suoi raggi infuocati inondavano di luce la campagna assordata dal frinire ossessionante delle cicale. Le messi, copiose e biondeggianti, ondeggiavano lievemente ad ogni alito di brezza: era oramai tempo di mietitura.
   Un mattino all'alba una lunga teoria di uomini curvi sotto il peso dei loro fardelli, asciutti e grinzosi come l'uva passa, col volto segnato dagli stenti e dalla fame, si avviava ai campi del barone. Sul braccio ricurvo ognuno aveva la sua falce foderata di stracci e la mano, già inguainata nei cannelli, stringeva un tovagliolo di lino bianco i cui quattro angoli annodati formavano una rudimentale bisaccia contenente la "spesa” il magro cibo della giornata. Erano spese povere: un tozzo di pane, una fetta di lardo, un pugno di olive secche, un pomodoro costituivano il pranzo dei più ricchi, di quelli che potevano orgogliosamente mangiare in gruppo ostentando tanta fortuna; gli altri, i poveri, a mezzogiorno, si allontanavano con un pretesto mentre il caporale bestemmiava come un turco che " non ne poteva più di quella vita grama: tutti i giorni sempre e solo caciocavallo e uova!"
    Nicola era uno di quest' ultimi. Onesto lavoratore con moglie, tre figlie femmine ed una nidiata di marmocchi che gli succhiavano fin l'ultima goccia di sangue, disfatto dalla malaria, mostrava molti di più dei suoi 47 anni. Nessuno lo aveva mai visto mangiare in gruppo: a mezzogiorno anche lui prendeva la sua spesa e si allontanava per i campi. Nessuno gli andava dietro, nessuno osava spiarlo, tanta era la soggezione che incuteva la sua figura taciturna.
   Quella mattina la sua spesa era più voluminosa del solito e Nicola faceva quasi fatica a portarla. Giunto nel campo cercò un arbusto per appendervela, così come facevano tutti; i cani, infatti, più affamati dei loro padroni, frugavano disperatamente dappertutto alla ricerca di cibo. Appeso il fardello ad un ramo di pruno, si mise a lavorare.
   Verso le dieci un cane si intrufolò furtivamente nel campo e strisciò acquattato fino all'arbusto. Vide la spesa e cercò di afferrarla. Spiccò un salto, un secondo, un terzo; finalmente urtò col muso il fardello che prese ad ondeggiare. Il rametto del pruno scricchiolò, si spezzò. La spesa cadendo colpì la schiena del cane che prese a guaire pietosamente fuggendo nei campi. I nodi del tovagliolo si sciolsero ed una bella pietra bianca e liscia comparve in mezzo al grano.
   Gli uomini scoppiarono in una fragorosa risata, ma non fecero in tempo a vedere il volto di Nicola rigato di lacrime.   

                                            L'ARGUZIA E LA BONOMIA E LE BURLE DI EUGENIO MELE

 

   Zio Vincenzo Chindamo ed Eugenio Mele, due ragazzi nati nei primi anni 20 nel rione Croci, all’epoca quattro case costruite solo 5 anni prima, erano fraterni amici e compagni di giochi.  Il primo  abitava in via Vittorio Veneto, il secondo nella parallela via Sabotino, ma le abitazioni erano dirimpettaie. Difficile incontrare due amici più affiatati di loro.
   Ancora fanciulli furono messi a lavorare dai loro genitori poveri: Vincenzo faceva il contadinello, mentre Eugenio pascolava i capretti. Gli animali erano giovani e agili e non era facile tenerli a bada per cui Eugenio, dimostrandosi un genio precoce,  ammaccava  loro le zampe con una pietra costringendoli a starsene buoni senza farlo dannare.  
  Ancora ragazzi, furono separati dagli eventi: Vincenzo fu chiamato alle armi e mandato in Grecia dove, dopo l’armistizio fu catturato dai tedeschi e internato in un campo di lavoro in Germania, Eugenio si arruolò nell’Arma dei carabinieri, sposò una ragazza caccurese e cominciò a spostarsi per la Penisola fin quando si stabilì definitivamente a Salò. Si ritrovarono dopo anni quando Vincenzo, che intanto si era trasferito a Merano, ed Eugenio capitarono d’estate a Caccuri e da allora ristabilirono i contatti.
   Non li ho mai sentiti chiamarsi per nome: per Eugenio zio Vincenzo era il Negus, un soprannome che gli avevano affibbiato per il colore scuro tipico dei terroni, invece Eugenio per zio Vincenzo era “Grecuzzu” che era sinonimo di “stortu”, cioè di persona che vuole avere sempre ragione e imporre la sua visione delle cose, ma credo, anzi ne sono sicuro, che lo zio lo chiamasse così,  non tanto per il carattere dell’amico che era amabile, ma per l’assonanza col nome Genuzzu che in caccurese è il diminutivo di Eugenio.
   ‘U Negus e Grecuzzu, erano comunque inseparabili, come due gemelli, come Castore e Polluce, come  Oto ed Efialte, Achille e Patroclo ed erano complementari: Eugenio aveva un grande senso dell’ironia che difettava a mio zio, era un grandissimo esperto di funghi e un ottimo cuoco, ma pur avendo due patenti, quella civile e quella militare, era assolutamente negato per la guida, cosa che odiava, per cui mio zio tra i due era l’autista che lo scarrozzava per i dintorni di Caccuri. Le escursioni erano l’occasione per Eugenio per raccogliere pregevoli funghi sconosciuti anche al più esperto micologo che egli cucinava poi con grande perizia degna dei più grandi chef. Impressionava non solo la stupefacente conoscenza di ogni specie di fungo commestibili o no e te ne diceva anche il nome scientifico, ma l'abilità nello scovarli in ogni stagione, col freddo o col caldo torrido, col sole, con la pioggia o con la neve, negli acquitrini e nei terreni aridi.  Gli piaceva tantissimo cucinare squisiti manicaretti, per niente mangiare e si vedeva!, con quel suo fisico asciutto, quella figura smilza e agile.
   Eugenio, oltre a essere una persona simpaticissima, amabile, pacata, garbata, era intelligentissimo, astuto, una vera volpe, dotato di un’arguzia proverbiale. Oltre i funghi e la cucina, aveva una terza passione: gli scherzi, le burle delle quali erano solitamente vittime i suoi commilitoni, ma anche altri amici. Di uno di questi scherzi ne pagò le conseguenze un povero carabiniere suo subordinato. Era il primo aprile e il nostro di nascosto, confezionò un pacco con qualcosa che avvolse accuratamente nella carta, poi ci appiccicò un indirizzo, chiamò il giovane militare e lo spedì all’ufficio postale distante qualche centinaio di metri spiegandogli che l’involucro conteneva una batteria per una jeep che dovevano mandare alla caserma di un paese della provincia. Il ragazzo si caricò il fardello e sbuffando e imprecando per la fatica, si fece la strada fino alle poste con quel pesante involucro.
   Appena uscito, l’astuto Eugenio chiamo al telefono il dirigente delle poste spiegandogli che si sarebbe presentato un carabiniere per spedire un pacco che stavano per mandare erroneamente ad altra caserma, pregandolo di rimandarlo indietro. Quando il povero ragazzo, sudato, con le braccia indolenzite si senti comunicare che avrebbe dovuto riportare indietro il pacco, si sentì perso, ma il dovere era dovere e non vi si poteva sottrarre: Così riprese la strada barcollando per la stanchezza, ma quando arrivò nel cortile della caserma, inciampò e il pacco gli cadde a terra. Preoccupato di aver combinato un guaio, si affrettò a verificare l’integrità del contenuto e fu allora che gli scappò una imprecazione e una bestemmia quando vide che il pacco conteneva vecchi mattoni pieni. Ma la burla più bella fu forse quella che giocò a un ragazzo caccurese con la passione per il canto.
   Era una serata estiva e, verso le 10 di sera, Eugenio stava rientrando a casa dal centro storico. Arrivato in piazza fu salutato cerimoniosamente da un gruppo di giovani che lo conoscevano benissimo e che lui conosceva altrettanto bene.

-        Buona sera, professore, ci scusi, ma dovremmo chiederle un favore.
Sentendosi chiamare professore rimase un po’ sorpreso, ma una volpe è una volpe per cui stette al gioco.

-      
 “Professore, continuarono quei figli di buona donna, c’è questo ragazzo che viene da fuori che ha la passione per il canto e vorrebbe diventare un cantante. Abbiamo pensato che un direttore d’orchestra, un grande maestro di musica come lei potrebbe fargli un provino e dargli qualche consiglio.”

L’imbeccata era perfetta; ora sapeva come muoversi e come cucinarsi il malcapitato.

- Ragazzi esordì, è tardi e qui in piazza potremmo disturbare la gente che dorme nelle case vicine. Spostiamoci alla Santa Croce, così non disturbiamo nessuno.
Allora il gruppo si portò ai piedi della croce dei Passionisti e qui il “maestro” chiese al ragazzo di cantare una canzone.

La voce è discreta, disse dopo che il ragazzo si era esibito mettendocela tutta, ma sento che c’è qualcosa che la blocca un po’, un problema di diaframma forse, bisognerebbe fare una prova.

    - Ditemi quello che posso fare, chiese ansioso il giovane cantante.

- Eugenio conosceva un ragazzo del gruppo e sapeva che era velocissimo nella corsa per cui lo pregò di collaborare, cosa che fece volentieri essendo uno dei “compari.”

-       Fatti una corsa veloce con Vincenzo da qui alla casa di Gelsomina e ritorno e appena arrivi mettiti subito a cantare la stessa canzone; questo è l’unico modo per sbloccare il diaframma.

-       I due partirono come una freccia lungo la leggera salita e dopo poco più di un minuto erano di ritorno. Il ragazzo cercò inutilmente di cantare, ma il fiato non gli usciva avendolo lasciato tutto per strada.

- Mi dispiace, ma non hai le qualità per diventare un cantante, sentenziò l’improvvisato discepolo di Euterpe stroncando la carriera dell’aspirante cantante, mentre "quelle scuma ‘e cancarena” degli amici se la ridevano sotto i baffi.

-         Qualche giorno dopo il ragazzo, caccurese, ma che viveva all’estero, venne a conoscer la vera identità di Eugenio e a sapere che non era un maestro di musica, ma un appuntato dei carabinieri, fra l’altro suo lontano parente e la prese a ridere.
Da quel giorno, quando lo incontrava, lo chiamava scherzosamente “maestro”, lo invitava a bere qualcosa e chiacchierava amabilmente con uno che gli aveva “stroncato la carriera.”

-      

FILASTROCCA PESSIMISTA


Filastrocca dall’interno,
eccoci ormai in pieno inverno,
con i monti lontani innevati
e noi ancora carcerati.
Chiusi in casa per la pandemia,
non c’è nessuno più per la via,
anche se, invero, i nostri paesi
non sono morti da pochi mesi.
Case vuote ormai da anni, 
tanta angoscia e tanti affanni,
usci sbarrati, spenti i camini
non ricordiamo cosa sono i vicini
perché scomparsi ormai da una vita
il che ci procura una pena infinita.
Le nostre strade son sempre deserte,
non si vedono mai porte aperte
ed il distanziamento sociale
per noi è una cosa così naturale
che non ci badiamo, non è un assillo
perché da anni ci abbiam fatto il callo.
Così l’inverno ci pesa davvero
ed il futuro ci sembra più nero,
più della merla che in questi giorni
se ne sta presso camini e dintorni.
Ma che ci fa presso un fumaiolo
che non fa fumo, che non  dà calore
perché lì sotto il suo focolare,
spento da anni non può fumare
può solo piangere e ricordare
tempi felici, gente giuliva
che attorno al fuoco la sera si riuniva
 e che oggi abita in mondi lontani
e noi siam soli come poveri cani.


                                       'A SCIRUBETTA



   Oggi, finalmente, ho potuto prepararmi un'eccellente scirubetta. 'A scirubetta è un gelato "casarulu", ovvero fatto in casa con neve fresca e mosto cotto. Il nome dialettale deriva dall'arabo sciorbet, che in italiano diventa sorbetto. Beh, direte voi, cos'ha di tanto speciale la tua scirubetta? Vengo e mi spiego, come si diceva una volta. Intanto è fatta con neve di Gimmella, un posto per il quale, dopo l'abbandono di Fantino, il quasi spopolamento di Acquafredda e l'abbandono delle attività boschive, passano, quando va bene, un paio di macchine al giorno, quindi assolutamente incontaminato, e poi, invece del tradizionale mosto cotto abbiamo utilizzato il brodo di giuggiole di Zifarelli che ci ha mandato letteralmente in brodo di giuggiole. Credo che, oltre alle solite attività, mi trasformerò anche in "nivaru." Devo solo trovare il luogo adatto per la conserva e la paglia. 

 

                                                        BIZZARRIE DELLA NATURA
                                                  

   A volte la natura è capace di bizzarrie come queste due strane arance di San Biagio, soprattutto quella a destra. Chissà per quale misterioso motivo a un certo punto un gruppo di cellule impazzisce e rompe l'ordine prestabilito dando luogo a questi strani fenomeni che si verificano anche negli animali e nell'uomo stesso perché comunque la si rigiri, uomini, animali e vegetali siamo tutti esser viventi, creature, come dicono i credenti o prodotto dell'evoluzione secondo  non credenti. Se volete divertitevi a dare un nome a queste forme. 

 

                                                        FEDELI BIRICHINI
                                                      di Peppino Marino

                                                      
       Nella bacheca di una chiesa, evidentemente frequentata da parrocchiani un po’ indisciplinati, erano affissi i seguenti numerosi cartelli.
    Sul primo c’era scritto: “Si prega di fare silenzio”, su un altro “Si prega di non accendere candele o ceri” e poi ancora: “Si prega di spegnere i cellulari”, “Si  prega di non attaccare il chewingum sotto la spalliera dell’ inginocchiatoio” e infine quello con l’appello più accorato che la diceva tutta sulla devozione dei fedeli:  “Si prega di pregare.”

                               ACCADDE DOMANI: FONDATA LA SOCIETà CICCO SIMONETTA

     Il 31 dicembre del 1905 i grandi proprietari terrieri di Caccuri fondarono la Società di Mutuo soccorso Cicco Simonetta per coalizzarsi e difendere i loro interessi minacciati dalla nascita della Cassa nazionale di previdenza per l'invalidità e per la vecchiaia degli operai , l'antenata dell'INPS che incomincia a estendere il sistema di previdenza prima ai dipendenti pubblici e ai militari, poi, col governo Pelloux e quello di Vittorio Emanuele Orlando nel 1919 anche ai dipendenti di tutte le altre aziende. 
   I braccianti e gli altri lavoratori caccuresi risposero, circa un anno dopo, il 12 settembre del 1906, fondando un altra società di mutuo soccorso, la Pensiero e Parola, dopo la nascita, qualche  mese prima, della Confederazione Generale del Lavoro, l'antenata della CGIL a testimonianza, che, già all'inizio del secolo scorso Caccuri era un paese politicizzato e all'avanguardia nel quale, a differenza dei giorni nostri, c'erano partiti e sindacati organizzati. 

 

                                                                 LA BEFANA AL TEMPO DEL COVID
                                                                               di Peppino Marino

 

 


Filastrocca della lana,
un tempo arrivava la Befana
volando in cielo di tetto in tetto
quando ogni bimbo dormiva nel letto,
poi s’infilava attraverso i camini
per consegnare i suoi doni ai piccini 
e, alla luce fioca dei lumi, 
riempiva le calze di dolciumi.
Caramelle, confetti e torroni
Portava in dono ai bimbi buoni,
ma bimbi buoni eran tutti quanti
ché non esistono bimbi birbanti
e a quelli che erano un po’ speciali
portava in dono anche altri regali:
cavallucci, balocchi e trenini 
per la gioia di grandi e piccini.
Ora però, la vecchia col sacco
di altri regali ci porta un bel pacco:
Covid, crisi e patimenti,
lockdown e distanziamenti, 
mascherine appiccicate sui musi
bar, parrucchieri e locali chiusi.
Tanti contagi, tanti malati,
e tanti ancora ricoverati.
Quanto ci soffre or la vecchina
volando nel cielo con la mascherina
ma più soffre ancora vedendo la gente
comportarsi da demente
mentre s’assembra, contesta, protesta
per il presunto scippo di una festa
per cui ha deciso: non doni ai bambini,
ma per quest’anno solo vaccini,
anche se tanti son già a sbraitare
che non si faranno vaccinare
perché non sono ancor bene testati,
meglio rischiare di finire intubati.
Cara Befana, aggiungi un vaccino
per questo vecchio contadino
che si è stufato ogni mattina
di indossare la mascherina
anche solo per andare in campagna
mentre la gente protesta e mugugna.
Portalo presto ché non resisto
e te lo giuro incrociando le dita
te ne sarò grato per tutta la vita.


                                                     ‘ A FOCERA
                                                 di Peppino Marino
                                               

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



     Quest'anno ci è stata tolta da questo maledetto virus, ma cerco di farvela rivivere, soprattutto a chi vive lontano e ha più o meno la mia età o qualche anno di più, attraverso questo mio racconto.

 

     Ligne, ligne allu santu Bomminu!” Il grido gioioso riecheggiava nel paese ripetuto, porta a porta, dai monelli, ma anche dai giovani ciucciari, (1) mentre altri, più grandi, si avviavano verso la Portanova con gli asini carichi di legna per scaricarla sul sagrato della chiesa. La gente si affacciava sull’uscio e indicava ‘u zippune (2) o la zomma (3) che intendeva donare al Bambino Gesù perché, appena nato, potesse trovare un bel focherello per scaldarsi e vincere i rigori del freddo ai quali lo sottoponevano la stagione e la condizione di povertà che lo costringeva a nascere in una stalla. Ricevuto l’assenso, i ragazzi mettevano il ciocco sulla carriola, l’accatastavano in un cantuccio per essere caricato sul dorso del somaro e riprendevano il giro. Anche zu ‘Ntone aggiogava i buoi per trascinare, girando dalla piazza e per via Buonasera, il tronco di quercia che don Vincenzo donava alla chiesa ogni anno o quello di gelso, dono di don Antonio. Dopo un paio di giorni di alacre lavoro, il piazzale della chiesa era invaso da cataste di legna tanto che, salendo da via Buonasera la rampa di scale che sbuca sul sagrato, ci si trovava davanti un vero e proprio muro e, per andare verso la Portauova , si doveva girare per la Salita castello. Ora era il momento di don Ciccio.     
      L’esperto vecchio veniva invocato a gran voce, come un sacerdote acheo, a celebrare il consueto rito: la preparazione della “pira.” Nessuno come l'anziano perito agrario sapeva accatastare con maestria l’enorme “percia”(4) di legna che occupava il sagrato, circondato dai suoi accoliti pronti a eseguire i suoi ordini secchi e ad assecondare i suoi gesti sacerdotali. Egli, dapprima con quattro grossi ceppi sui quali adagiava delle traverse più lunghe preparava il fornello, il cuore della focera, poi, piano, piano, sistemava il resto della legna a cerchi concentrici sempre più ampi alla base e sempre più stretti al vertice. Alla fine della giornata la focera si ergeva maestosa nel centro del sagrato, pronta per essere accesa. Non rimaneva altro che riempire il fornello di frasche secche e “pampuglie” (5) e aspettare le 8 di sera, quando era prevista l’accensione. Allora cominciava la trepidante attesa dei monelli che avrebbero voluto dar fuoco alla catasta già alle cinque del pomeriggio. Però, nonostante l’impazienza fosse tanta, nessuno osava, compiere l’atteso gesto per la paura e la soggezione che il vecchio don Ciccio incuteva e tutti aspettavano il suo arrivo.
    Alle sette, finalmente, il vecchio arrivava insieme a zu ‘Ntone e a un gruppo di ciucciari, ma non era ancora il momento. I fedeli cominciavano ad affollare la chiesa, mentre il prete, preso dalle sue faccende, si faceva, come sempre, attendere. Quando mancava un quarto alle otto, arrivavano zu Vincenzo con le ciaramelle, zu Salvatore con il piffero e zu Francesco con le zampogne. Qualche attimo dopo le dolci note di una pastorale, seguite da quelle di “Tu scendi dalle stelle”, spandevano l’armonia e la gioia per via Chiesa e salita Catello, via Buonasera, fino alla Destra. Ora era giunto il fatidico momento. Don Ciccio inzuppava uno straccio nel secchio di petrolio che aveva nascosto nell’”orticello” ai piedi del campanile, lo infilava nel fornello della focera e, con uno zolfanello, dava fuoco, mentre dalle bocche dei monelli, che fino a qualche attimo prima disegnavano una curiosa “o”, usciva un “ohhhh!” di stupore e di gioia. Pochi attimi e migliaia di gioiose “faille” (6) si libravano in cielo, mentre gli scoppiettii della legna rallegravano l’ambiente e un tepore dapprima gradevole, si trasformava in calore infernale e costringeva gli entusiasti monelli ad allontanarsi di qualche passo. Poco più in là, seduti sui sedili del sagrato, don Ciccio e gli altri vecchi, antichi patriarchi, si godevano lo spettacolo come valorosi guerrieri a riposo, aspirando voluttuose boccate dalle pipe di creta, lanciando nell’aria nuvole di fumo che si mischiavano a quello della foera. Intanto era già iniziata la messa di Natale. Poco prima della mezzanotte nasceva il bambinello e zu Vincenzo, intonando con la sua ciaramella “Tu scendi dalle stelle”, partiva dalla porta della chiesa e attraversava, camminando sulle ginocchia, l’intero tempio per andare a baciare il pargoletto che il prete, commosso, mostrava ai fedeli. Poi il sacerdote faceva tre volte il giro della chiesa passando tra i fedeli che baciavano con devozione il Figlio di Dio.
   La focera oramai ardeva a tutto spiano e le lingue di fuoco, dapprima altissime, ora cominciavano a scemare. La mezzanotte era passata da un pezzo e, attorno a quel “frajerinu” (76) cominciavano a celebrarsi i riti pagani delle patate e delle salsicce arrostite, arrivavano i soliti fiaschi di vino mentre qualcuno si divertiva a gettarvi di nascosto qualche castagna che esplodeva fragorosa come un petardo. E mentre si banchettava, qualche teppistello riusciva perfino ad infilare di nascosto una brace nella tasca del pastrano di uno dei tanti vecchi che circondavano la focera. Attimi di panico, maledizioni all’ignoto mascalzone, imprecazioni, poi tutto finiva annacquato in un buon bicchiere, fino alle quattro del mattino quando il sonno e il vino avevano la meglio e il sagrato, lentamente si spopolava.
   All’alba, un grande mucchio di cenere e alcune braci fumanti, erano tutto quanto rimaneva del grande falò. Zia Giulia schiudeva l’uscio, con la paletta riempiva il braciere con quella grazia di Dio e, per quel giorno almeno, il riscaldamento del suo povero tugurio era assicurato.

                                                                       

Note

1)     Proprietari di asini, vaticali, uomini che si dedicavano al commercio della legna

2)     ciocco, parte bassa dell’albero

3)     radice dell’albero

4)     catasta di legna

5)     foglie secche usate come esca per il fuoco

6)     faville

7)     insieme di braci ancora vive, ardenti

 

                                              BUON  NATALE A LAICI E CREDENTI           



    Oggi, 21 dicembre, è il Natale laico, il giorno nel quale l'inclinazione dell'asse  terrestre sul piano dell'eclittica, nell'emisfero boreale tocca il minimo  e il sole, nel suo moto apparente, l'altezza minima sull'orizzonte. In quel preciso momento i raggi della nostra stessa sono perfettamente perpendicolari al Tropico del capricorno, un meridiano che taglia più o meno in due parti uguali l'America del sud 23 gradi e 26 ' a sud dell'equatore. Per questo motivo, a causa della sfericità della terra, per l'emisfero sud si tratta del giorno più lungo dell'anno, mentre per quello nord, dove abitiamo noi, è invece il più corto. Nelle terre vicino il polo nord la luce è completamente sparita, ma da domani il corso apparente del sole si invertirà e il dì comincerà ad allungarsi, dapprima lentamente, poi, dopo qualche giorno, più velocemente e il sole tornerà a illuminare le cime degli alberi più altri dei paesi nordici, ovvero la luce rinascerà. Quattro giorni dopo, il 25 dicembre, questa inversione di tendenza comincerà a essere meglio percepibile e, finalmente. avremo il Natale della luce che nei millenni diede origine alle tante metafore di decine di semidei nati tutti  da un dio e da una vergine il 25 dicembre; da Horus a Zoroastro, da Atiis a Krishna, a Miitra, a Cristo. In ogni caso, che la luce sia un fenomeno fisico, un fascio di fotoni che illumina la realtà sensibile o un qualcosa di spirituale, un figlio di Dio  che illumina l'anima e la coscienza, è sempre ben gradita e benvenuta. Buon Natale a laici e credenti. A proposito di  nascita di Cristo e della famosa cometa, questa sera potremo assistere, nuvole permettendo, a un fenomeno astronomico che non si ripeteva da dal 1200, cioè da oltre 800 anni, una straordinaria congiunzione tra Giove e Saturno, i due giganti del sistema solare che potremmo osservare  anche a occhio nudo e che, per la luminosità del "piccolo treno", ci appariranno come una cometa, fenomeno che secondo Giovanni Keplero diede origine alla leggenda della cometa di Betlemm. 

 

                                             A CACCURI (E AI CACCURESI LONTANI)
                                                                  di Peppino Marino 



Dedicata a chi per questo Natale no potrà tornare al suo paese. 

Sopra l'antica roccia
qual faro alle alte genti,
Caccuri, patria mia,
t'ergevi fieramente.

Or te ne stai, ahimè, 
 triste e negletta;
i tuoi figli son sparsi per il mondo
ma il cuore d'ogni vero caccurese
palpita forte e pensa al suo paese. 

                                                                VUCCA MIA ALLE FRASJOLE! 


  Ogni è stata una giornata molto interessante dedicata al taglio e al congelamento della zucca.  Ma se congeli una zucca che fai, la guardi senza prepararti un pranzetto con questa preziosa cuccurbitacea? Ed ecco il colpo di genio di mia moglie mentre io preparavo il risotto: " E se provassimo a farci le frasjole e utilizzare anche la buccia per farci delle cotolette?" La proposta mi ha convinto e così si è deciso per un secondo a base di cotolette e di frasjole di zucca. In altri posti le chiamano polpette, ma per noi sono frasjole, molto ricercate dai ghiottoni come dimostra la celebre imprecazione "Vucca mia alle frasjole", ovvero "Boccaccia mia statti zitta" che si usa per reprimere l'irrefrenabile impulso di prendere a male parole qualche mascalzone. Il risultato finale lo potete vedere nella parte destra della foto. Non ho mai capito perché si continuino a definire zucconi i somari: Ad averne di questi zucconi a Zifarelli, anche se 4 - 5 l'anno, tranne questo del covid, nel quale ci siamo dovuti accontentare di una sola, li facciamo sempre! 

 

                                         Sangue del mio sangue!
                                           di Peppino Marino  

                                

   Zu Nicola, come tutti i vecchi contadini calabresi, era particolarmente affezionato al suo somaro. “Quannu m’è morta mogliama nun eppi dispiaceri, senza suspiri e lacrime la jivi a sutterrari. Mo chi m’è mortu ‘u ciucciu cianciu cu’ gran duluri,  Ciucciu bellu de ‘stu cori, commu te pozzu amà’” canta una delle più famose canzone della nostra terra che zu Nicola conosceva benissimo. L’asino per i nostri nonni era un mezzo di produzione e di sostentamento per tutta la famiglia, l’amico fidato, il compagno di vita; la malattia o, mai sia detto, la morte del “ciuccio” era considerata la più grave sciagura che potesse abbattersi sul contadino e sulla sua casa. Logico, quindi, che tra il padrone e il somaro si stabilisse un legame affettivo indissolubile, anche perché l’animale, il più intelligente tra gli animali domestici, più ancora del cane, a volte dello stesso padrone, nonostante qualche buontempone abbia deciso che “somaro” debba essere considerato, chissà perché, sinonimo di ignorante o babbeo, sapeva farsi amare davvero dal contadino calabrese. Tra l’animale e il proprietario si stabiliva, come dire?, una “corrispondenza d’amorosi sensi”, una intesa tale che, spesso, era davvero difficile stabilire chi fra i due era il più cocciuto.
   Quella volta zu Nicola aveva ceduto, con molta riluttanza e trepidazione, alle reiterate richieste di zu Pasquale, amico carissimo e compare di sangiovanni, che voleva  in prestito Frisichello per trasportare una una “sarma”di legna da Cerenzia a Caccuri. “Si vo’  ‘mprestata a muglierama  t’ ‘a  ‘mprestu, ma ‘u ciuccio no!”, aveva provato ad obiettare, ma poi, dopo un lungo tira e molla, col cuore in gola, aveva ceduto alle implorazioni di zu Pasquale ed aveva acconsentito a prestargli l’asino, non senza avergli fatto prima duemila e passa raccomandazioni. Le preoccupazioni di zu Nicola non erano del tutto infondate dal momento che zu Pasquale era conosciuto in paese per essere un uomo sciatto, l’unico che non sapesse caricare decentemente un asino. Mai una volta che fosse riuscito ad equilibrare la “sarma” per cui gli sventurati asini di cui era stato proprietario avevano sempre viaggiato con carichi obliqui, di sghimbescio che provocavano loro fastidiose piaghe alla schiena. L’incapacità del contadino era nota a tutti, logico che zu Nicola trepidasse per la sorte del povero Frisichello.  Quando il somarello si allontanò tirato per la cavezza da zu Pasquale, una lacrima solcò la guancia del povero vecchio, ma nessuno se ne accorse,  tranne un figlio di buona donna, Salvatore, che cominciò a metterlo in apprensione prospettandogli future sciagure per il povero animale affidato incautamente ad una bestia come zu Pasquale. Zu Nicola lo seguì con lo sguardo dal “Pizzo della villa”  fino a Canalaci, quando Frisichello, svoltata la curva, scomparve ai suoi occhi. Poi corse alla Timpa e da lì lo rivide nelle Monache, dopo aver scavalcato il torrente Matasse e, infine, un puntino appena percettibile, nei pressi del “ciaramedio” gli fece capire che l’asino era oramai nei pressi di Cerenzia.  Allora zu Nicola si pentì amaramente di aver ceduto alle insistenze del compare e cominciò a trepidare come non mai per le sorti dell’asino. Cominciò allora a calcolare il tempo necessario per raggiungere il bosco, per caricare il somaro e per tornare al ciaramedio, riproponendosi di aspettare, lì, alla Timpa, di veder ricomparire “l’amato compagno di vita”. Erano trascorsi una decina di minuti, forse anche meno, un tempo assolutamente insufficiente a caricare l’asino quando, alla curva di sant’Antonio, apparve un puntino nero che, dopo qualche secondo cominciò ad ingrandirsi sempre più. Dopo circa un minuto era possibile, ma solo ad un occhio di lince, discernere un asino che, al trotto, percorreva la strada polverosa. “ Frisichello, esclamò zu Nicola, Frisichello sta tornando da solo!” Finalmente!, ed è anche scarico.”  “Frisichello?, disse beffardamente Salvatore, ma no! Frisichello a quest’ora sarà mezzo carico di legna. Ci penserà zu Pasquale a scorticarlo a dovere, aggiunse con perfidia per far imbufalire il vecchio.” “Ma no, è Frisichello, disse ancora zu Nicola, non lo vedi?”. “Ma come è possibile affermare con tanta sicurezza che si tratta di Frisichello?, continuò quel buontempone, ancora è lontanissimo, è difficile riconoscerlo.”  “Ma vuoi che non riconosca il mio asino, il sangue del mio sangue”, sbottò zu Nicola mentre correva già verso la Parte incontro al suo amato somaro. In un baleno fu a Canalaci a riprendersi il ciuccio che, evidentemente a conoscenza della incapacità del suo “collega” zu Pasquale, e, temendo per la propria incolumità,  con uno strattone si era liberato del suo probabile aguzzino ed era prudentemente ritornato al trotto dall’ amato padrone.

 

                              ' A MERICA 
                            di Peppino Marino



     'A Merica,  era il sogno delle giovani generazioni nel tre decenni a cavallo tra il XIX e il XX secolo quando milioni di italiani, soprattutto meridionali, lasciarono la loro terra inseguendo il miraggio che, subito dopo l'unità d'Italia facevano balenare i nuovi governati per allentare un po' la spaventosa pressione sociale di popolazioni depredate e gettate  (o quantomeno mantenute) nella miseria più nera, come farà De Gasperi nel 1949, e per potere, con le generose rimesse degli emigrati accumulate giorno dopo giorno consumando la vita nei pozzi delle miniere del West Virginia o nelle piantagioni del Brasile, col sudore e col sangue di tanti uomini che lasciavano la famiglia, i figli, gli affetti più cari nel paese di origine, alimentare i consumi interni a tutto vantaggio della nascente industria del nord. 
   Un sogno che ho cercato di ricostruire nel mio romanzo "Viaggio per una vita migliore" e in questa canzone tratta dal mio musical " 'A fine e ru munnu", un sogno che, molto spesso si rivelava un tragico fallimento o, comunque, falso, tragico, doloroso. Buona lettura

‘Nu jornu ‘e ra fatiga cunsumatu       

a Bemmaria alla casa s’è ricotu.        

‘Ntra lu fullune mortu s’è jettatu

pensannu a cumu ch’ era disperatu.          

 
“Jettu lui sangu ‘u jornu ‘e stilla a stilla,         

pe’ ‘sta mugliere e pe’ ‘sta piccirilla,  

ma la famiglia è sempre disperata,    

io pezzentune e muglierama pettiscigata.

        

Pane e cipulla è lu manciare mio,

nu pomaroru, ohi chi grazia ‘e Dio!

Te rumpi ‘i costi, ma, chissà pecchiri,

‘nu rrosciu ‘e sordu mai chi tu lu viri.”

 

Cussì pensa Pasquale chilla vota

Ntru lettu mentre chi se gira e vota.

Paise brutto, ma va fa ncinefrica,

finiscia ca mo partu pe’ l’America.

 

Si, Cuncettina mia, mo minne vaju

A Nova Jorka oppure ‘ntra l’Ohaiu.

I dollari jazzanu e io, ‘ntermine ‘e nente,

diventu riccu, ‘un signu cchjiu pezzetente!

 

Due va’, due va’, già chiancia’ Cuncettina,

si va all’America pe’ nue è la ruvina.

Se sciolla la famiglia e, certamente,

finiscìa ca si sempre nu’ pezzente.

 

Sta piccirilla resta senza e tia,

e  senza maritu poi chi biri a mia!

Stamme a sentire, ca io mai è sbagliatu,

“Chi nascia’ tunnu ‘un po’ morire quatratu!”

 

Chi sta ricennu, un m’agurare ‘u male,

ca n’arrcchimu, sentalu a Pasquale.

Poi viri quantu sordi me guaragnu

Ca io re la fatiga nun me spagnu.

 

Pasquale è capitostu, ‘un se rimollari 

‘ntra capu sue ce sunnu sulu i dollari

‘e Cuncettina ‘un senta lu lamentu

N’capu a ‘nu mise è supra ‘u bastimentu.

 

A Nova Jorka jobba ‘un na trovatu

nè a Pizzuburgu, a Boston, a Cincinnatu

e doppo quattro o cinque settimane,

re lu pitittu vara cu ‘nu cane.

   

Senza fatiga, dollari, malatu

Gira sperdutu, poveru e scornatu.

Doppu nu mise va n’tra ‘na minera

A fatigare re matina a sera.

 

Guaragnari quattru sordi pe’ campare

Ma a Cuncettina nun ne po’ mannare,

pe’ chissu ‘un scrivari, ca senta lu scornu

ma supra ‘a frunte l’è natu già ‘nu cornu.

                                                      NEBBIA 
                                               di Peppino Marino



     Buongiorno, amici lontani,
stamattina la nebbia avvolge davvero "il morto borgo",  ma stavolta la pioggia è finalmente caduta abbondante, come ci voleva e i meteorologi ci hanno finalmente azzeccato. Buona domenica a tutti voi.  

La grigia nebbia

Avvolge il morto borgo

Ed una pioggerellina,

Fitta e fina,

Penetra nelle ossa

Assieme alla tristezza.

Non pioggia scrosciante,

Pioggia abbondante

Che disseta

E dà la vita

Che anch’essa ormai fugge

Questo paese triste e desolato.

                FILASTROCCA AI TEMPI DEL COVID

 

 

*

Tredici trottole trotterellavano
Trenta massaie al fiume lavavano.
Luca disegna sul foglio il suo sogno,
Marica studia la storia e s’impegna
Franco, imitando Pasquale, s’ingegna
Vanessa ascolta una nenia: che lagna!
In questo mondo è tutto un mugugno
Chi c’ha la tigna e chi c’ha la rogna 
E c’è chi deluso poi getta la spugna.
Perché la gente è davvero strana,
chi la vuol cruda e chi la vuol cotta
mentre c’è chi non ha una pagnotta
con cui sfamare la sua famiglia,
la moglie, la madre, il figlio e la figlia,
ma si rassegna senza sbraitare;
è disoccupato, non può lavorare;
senza lavoro non c’è da mangiare,
ma tanta gente continua a latrare
perché a Natale non potrà sciare
perché, per salvare qualche vecchietto,
questo governo vuol chiudere tutto.

Chi se ne frega della pandemia!

Riapriteci subito pista e sciovia!

Aridadeci le discoteche,

l’apericena, i party, le ciucche

il veglione di capodanno.

E  che si crepi nel resto dell’anno;

 

            FILASTROCCA DI DICEMBRE

 Filastrocca delle ombre
Eccoci, alfine, nel freddo dicembre,
il mese nel quale, senza ombra di danno,
cala il sipario per il vecchio anno,
mentre in paese si ammazza il maiale
perché a dicembre si è già a Natale,
il compleanno di Nostro Signore
che viene al mondo e non trova tepore,
perché oltre al gelo di un tempo inclemente,
spesso, c’è quello  che emana la gente
che, in preda al più becero egoismo,
ha messo al bando amore e altruismo
per cui non basta un babbo Natale
a bandire dal modo l’odio e il male.
Però il Natale ci rende più umani,
più solidali, altruisti e più buoni
talché arrivati  a Capodanno,
malediciamo il vecchio anno
e, come è d’uso per il trasformista,
al nuovo anno facciamo la festa,
salvo aspettare ancor San Silvestro,
per preparagli di nuovo il capestro.

                                                      

 

L'

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