| CURIOSITA'
          ETNO ANTROPOLOGICHE di Peppino Marino  | 
      
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                                                                                                     la
            casa degli animali                                                                                           
 Mi è sempre piaciuto giocare con le parole, addomesticarle, piegarle alle mie esigenze per ricavarne freddure, paranomasie, nonsense, calembour, un gioco che praticavo anche a scuola con i miei alunni, Qualche anno fa giocando appunto con le parole ho cercato di dare una casa a tutti gli animali. Da questo strampalato esercizio è ventuta fuori questa strampalata accozzaglia di freddure Il gallo vive nella galleria VIVA LA CAMPAGNA  
                           
    
            "Voglio andare a vivere in campagna", era il tormentone di
            qualche anno fa quando la voce del grande Toto Cutugno prorompeva
            dalla radio riproponendoci la  canzone sanremese dl 1995 e a me
            usciva spontaneo commentare in rima: "Basta che finisca questa
            lagna." Comunque, a parte la mia spontanea, irrefrenabile,
            scherzosa irrisione, il bravo e simpatico cantautore fosdinovese la
            sapeva lunga e io da qualche anno vivo quotidianamente quello che
            per lui era un desiderio così forte da ispirargli quella bellissima
            canzone. Sono convinto che quello di vivere in campagna non sia solo
            il desiderio del compianto Cutugno e mio, ma anche di tantissime
            altre persone.  Che c'è di più bello, infatti che vivere in
            campagna, soprattutto in questi giorni di primavera nei quali la
            terra, soprattutto le terre aride e marginali, sono ricoperte di
            splendidi fiori? 
 Cenni sull’emigrazione caccurese nei secoli 
 
   
            Sere fa si parlava dell’emigrazione dei caccuresi iniziata
            già ai tempi dei Simonetta e ripresa poi massicciamente nel XVI
            secolo quando molti nostri compaesani si trasferirono nella vicina
            San Giovanni in Fiore, all’epoca quattro case nei pressi
            dell’abazia florense, a seguito di un diploma con il quale
            l’imperatore Carlo V concesse a Salvatore Rota, abate
            commendatario del Monastero di San Giovanni in Fiore, il diploma di
            “costruire ed edificare” un casale, con l’esenzione dalle
            tasse per un periodo di dieci anni.  Ai nostri antichi
            compaesani, vessati dal malgoverno e dall’esosità dei tributi
            imposti dai Cimino e dagli Spinelli, non parve vero di potersene
            liberare e di poter fra l’altro esercitare anche alcuni usi civici
            dei quali a Caccuri non potevano fruire. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
   
            “Te via jire cumu ‘u scupulu e la paletta!” tranquilli, non è
            una frase tratta da un discorso del nuovo ministro della cultura, ma
            un antico anatema caccurese che augura a chi ne viene colpito, di
            non trovare un attimo si riposo. DiffiCile spiegarlo alle giovani
            caccuresi che ormai non sanno cos’è e non hanno mai visto uno
            scupulu. Ma cos’era quest’oggetto misterioso? Era Soltanto una
            rudimentale scopa fatta in casa con materiali autarchici con la
            quale le nostre nonne spazzavano i poveri vasci e catoji adibiti a
            cantine e abitazioni. MASTRO AGOSTINO E L’AMICO TUTTOFARE 
                                                                                         
             CAPOLAVORI
            CACCURESI                
             
                                                                                                      
            SCHERZUCCIO Un
            populu 
 
 
 UN Pò DI STORIA DELLE PIAZZE CACCURESI 
 
 Ecco
              una bella immagine di piazza Umberto I, l'unica vera piazza
              caccurese, almeno la sola definita anche ufficialmente piazza, fino alla
              metà degli anni 20 e 70 del secolo scorso quando sorsero l'ex
              piazza Annunziata (nni 70) e  l'ex piazza Vittorio Veneto
              (anni 20) quest'ultima
              "morta ancora prima di nascere". Quella che, infatti,
              chiamiamo comunemente piazza, storicamente, infatti, non fu mai
              una piazza, ma una strada di transito per entrare in paese. Il
              sito, infatti, che non ha mai avuto una intitolazione ufficiale
              per cui chiamarlo piazza Umberto è un'abitudine, un vezzo di
              alcuni nostri concittadini che non ha alcun fondamento storico -
              amministrativo. Il luogo comunemente definito "piazza",
              in questi mesi oggetto di lavori di sistemazione, era individuato,
              infatti, col toponimo di Porta Grande perché vi si apriva la
              porta più grande e importante di accesso al paese attraverso la
              cinta muraria che ne faceva un castrum (da non confondere con
              castello), cioè una cittadina cinta di mura e fortificata.
              Attraverso la porta grande che si apriva più o meno tra la casa
              di Peppino Falbo (Iaconis) e la rampa di accesso ai Mergoli,
              entravano in paese le merci ingombranti quali i materiali di
              costruzione (pietra, calce, travi in legno a altri ingombranti).
              nei pressi della porta, all'interno delle mura, fino all'Unità
              d'Italia, sorgeva la caserma della guardia urbana, l'antica
              polizia locale borbonica. Quindi non piazza, ma strada i accesso.
              D'altra parte, anche a lume di logica si comprende che i nostri
              antenati non avrebbero mai costruito una piazza al di fuori delle
              cinta muraria. L'unica piazza, dunque, era la piazza Umberto I, la
              cui intitolazione, ovviamente, risale agli anni dopo il 1878,
              quando il figlio di Vittorio Emanuele II salì al trono del Regno
              d'Italia". Per il resto all'interno del paese c'erano alcuni
              slarghi come quello del pizzetto, quello davanti il palazzo De
              Franco (attuale largo Vincenzo Ambrosio) nell' antica via Principe
              di Napoli, poi via Buonasera, il largo Misericordia, il Vincolato
              e la salita castello, ma nessuno di questi luoghi fu mai definito
              ufficialmente piazza. Poi, negli anni 20 del Novecento i reduci
              combattenti della Grande Guerra costituitisi nella Lega
              combattenti reduci che aveva tra i dirigenti i popolari Giuseppe
              Sabatino Pitaro, ex sacerdote sturziano, il fabbro Peppino
              Gigliotti, Vincenzo Militerno, Pietro De Mare e Enrico Pasculli
              (padre) e Vincenzo Lacaria (Dermonno) , promossero la nascita del
              rione Croci secondo il piano regolatore redatto dl geometra cav.
              Raffaele Ambrosio che prevedeva strade di 8 metri e traverse
              ortogonali di 6 m., destinarono uno spazio adeguato tra le vie
              Sabotino e Vittorio Veneto dove doveva sorgere la seconda piazza
              caccurese per erigervi anche il monumento ai caduti. Purtroppo,
              nei primi anni 50 del secolo scorso, nel centro di quella che
              doveva essere la piazza un cittadino costruì incredibilmente
              un'abitazione privata e ci giocammo la seconda piazza. 
 
 
 
 TRENE, ZIRRI E TIRITOCTE 
   
            Nella Caccuri si sessanta -
            settanta anni fa in questo ultimi tre giorni della Settimana Santa
            si adoperavano molto spesso due verbi riferiti ai riti della
            passione: ammutare e sparare. Ammutare, in italiano ammutolire, era
            riferito alle campane delle chiese che la notte del Venerdì Santo
            cessavano di suonare in segno di lutto per la morte di Cristo;
            altrettanto sparare che indicava l'allegro scampanellio alla
            mezzanotte del sabato per annunciare al mondo la resurrezione del
            figlio di Dio.   Il rispetto per questa tradizioni era
            cos' sentito che per evitare che qualcuno inciampasse nella corda
            della  campana e farla suonare accidentalmente, il sagrestano
            fasciava con uno straccio il battaglio. 
 CUZZETTU E FAVE 
 Si vo' fave 'a stu cummentu ..............   
            Veramente sarebbe "Si vo' pane 'a stu commentu..................",
            ma a me stamattina, seminando le fave per il nuovo anno,
            quest'antico proverbio mi è uscito con qualche lieve modifica
            ripensando a un'antica maldicenza dei vecchi caccuresi che
            prendevano in giro i frati francescani riformati subentrati ai padri
            domenicani del Convento di Caccuri fatti poi fuori da Murat 
            che li spogliò di quelle poche tomolate di terra intorno al povero
            cenobio caccurese per rivenderle al notaio Ambrosio. 
 'A PAISANELLA DEI NOSTRI AVI 
 La Calabria non è solo la terra della 'ndujia, della sardella, delle pitte ìmpigliate, delle patate 'mpacchiuse, dell'"oglio purissmo et pretioso", del bergamotto e delle eccellenti, salutari bibite che se ne ricavano, la leader mondiale degli amari, ma è anche la patria della Paisanella, la grappa dei nostri nonni, il "su filu di ferru" della Presila ottenuta dalla distillazione delle pregiate vinacce di vitigni Gaglioppo, Magliocco, Greco e altre uve locali, ma rigorosamente calabresi. Quannu jazza e mina ventu, vicinu 'u focularu due 'u focu carcaria' 'un c'è nente ìe megliu 'e nu bicchericchiu 'e paisanellache te quaria' lu stomacu 'e lu core. 
 IL TRASPORTO DELLE SALME NEL NOVECENTO 
 
             
   
               Ed ecco Sua Santità il papa in tutta la sua maestosità visto da
               Canalaci e dall'alto della Serra Grande. Negli ultimi anni ci è
               apparso un po' malandato, ma, tutto sommato, i suoi 280 milioni
               di anni se li porta bene, considerato anche che per qualche
               milione di anni è stato pure ammollo nell'acqua salata. L'intera
               collina, infatti, si trovava sotto il pelo delle acque del mare a
               una profondità non superiore ai 200 metri come apprendemmo anni
               fa nel corso di una lezione all'aperto tenuta da due docenti del Dipartimento
               di scienze della Terra dell’Università della Calabria . Da qui
               la presenza di numerosi fossili nei quali fino a qualche decennio
               ci si imbatteva camminando sul costone roccioso.  La mente umana a volte è contorta (almeno la mia) e ragiona secondo misteriosi schemi che sfuggono alla ragione. Per esempio, il 21 giugno si entra nell'estate, ma la mia mente è convinta che si entra nell'autunno perché le ore di luce cominciano a diminuire tanto che quattro mesi dopo alle 16,30 è già buio. Questa cosa mi intristisce e non poco, ma, probabilmente, intristiva anche i popoli primitivi, ma anche quelli più vicini a noi che non conobbero mai la luce elettrica o l'acetilene. Proviamo a immedesimarci in quella povera gente che alle cinque del pomeriggio del mese di novembre o dicembre veniva avvolta dalle più profonde tenebre fino alle 7 del mattino e immaginiamo con quale ansia aspettasse il sorgere del sole. Capite ora perché attendeva con trepidazione il 21 dicembre e perché decine di semidei (Sol invictus) nascono il 25 dicembre, muoiono, scendono agli inferi, sconfiggono le tenebre e ridonano all'uomo la luce? Invece il 21 dicembre mi sento già in estate perché finalmente i giorni tornano ad allungarsi e la luce riporta il buon umore e la gioia di vivere. La filosofia di Leopardi, tutto sommato: della festa il più bello è la sua attesa. Forse per questo, per questi motivi gli antichi contavano gioiodamente i giorni che ci separavano dal Natale della luce scandendo il tempo con una serie di feste che precedevano la nascita del loro Dio. Le nostre trisavole inventarono anche una specie di filastrocca per ricordarsele: Sant'Aloe
               (Eligio 1° dicembre) porta la nova: 'u
               quattru è de Barbara, 'u sie 'e de Nicola, l'ottu 'e Maria, lu
               tririci 'e Lucia e lu vinticinque è du Messia."  
 
      
            'Nu quartu e 'na gazzosa (gassosa
            in italiano) era quello che ordinavano i nostri nonni quando
            entravano in un'osteria (anzi i vostri, perché il mio e i suoi
            amici andavano a litri e senza gassose), oppure la posta in palio in
            una partita a carte. La gassosa rendeva il vino frizzante e lo
            annacquava un po', anche se di annacquare spesso non ce n'era
            bisogno visto che molti osti, già secoli prima di Cristo, avevano
            ripetuto milioni di volte il miracolo di Cana, pur senza vantarsene
            e non certo per modestia.  
 VESTIRSI DI GINESTRA 
 
 LA PREZIOSA SAPONARIA 
 Alzino la mano quelli che conoscono questa pianta o ne abbiamo fatto uso almeno una volta. Una volta era una cosa normalissima, anche perché l'unico sapone che si trovava nelle nostre case era quello fatto con la lisciva e la morchia (morga, residui di olio). Oggi non la usa più nessuno, tranne forse me. Se quando lavoro nell'orto per lavarmi le mani usassi ogni volta il sapone spenderei una cifra, senza contare che il sapone industriale a volte produce allergie, invece, mi strofino le mani con qualche foglia di questa preziosa pianta che per fortuna cresce spontaneamente nel mio terreno, una sciacquata con l'acqua e sono a posto. 
                                                           
             I TEMPI 'E 'NA VOTA 
 E
            ppe le vie canzune e serenate                                                  
            IL MATRIMONIO FATTO IN CASA  
 
 E
            tutta ‘a gente jetta li cumpetti, 
 
 Mo
            su all’ataru e hau già dittu “SI” Però
            chi scostumati ‘sti vicini, 
                                   
            IL
            CARNELEVARETTO  
 Il Carnelevaretto era il curioso nome della messa in suffragio dei defunti confratelli della Congregazione del SS. Rosario che veniva celebrata ogni anno il lunedì di Carnevale nella stupenda chiesetta della Congregazione annessa al convento domenicano edificata nel 1690 dai confratelli Francesco Saverio Bonaccio, Orazio Antonio Novello, Filippo e Francesco Mele e Santino Falbo. A rendere suggestiva (e anche un po' macabra) questa cerimonia era la presenza sull'altare di alcuni teschi di confratelli rinvenuti nelle fossae mortuorum della chiesetta. Col tempo, con la morte degli ultimi priori, il mio bisnonno Ercole Scigliano, di mastro Francesco Sgro e mastro Giuseppe Di Rosa e con lo scioglimento della congregazione questa tradizione caccurese si è persa come tante altre, nonostante un tentativo dell'infaticabile Luigi Ventura di qualche anno fa di farla rivivere. 
 L'OLIO KRYSAMA, UN'ECCELLENZA BADOLATESE 
   
            Ho avuto modo più volte di
            parlare di una Calabria che speso noi calabresi non conosciamo, una
            Calabria che non è solo mare, sole paesaggi mozzafiato, monumenti,
            arte, cultura, ma anche una regione con un'agricoltura
            all'avanguardia che produce, trasforma e conserva eccellenze agro
            alimentari rinomate ed esportate in tutto il mondo. Eccellenze che
            spesso troviamo anche negli scaffali dei nostri supermercati o in
            punti vendita specializzati, ma che non compriamo perché distratti
            da prodotti similari, magari molto più scadenti, magari meno
            costosi, ma non certamente ai livelli dei nostri. VINCENZO PARROTTA GIARDINIERE CAPO E CUSTODE 
    
            Ieri e l'altro ieri ho pubblicato due
            foto sulla vita dei Barracco di Caccuri e sui loro spostamenti da e
            al "castello" con una portantina trasportata dai muli;
            oggi è la volta di questo personaggio che a vederlo sembra
            anch'egli un barone, ma era solo un loro dipendente, il giardiniere
            capo e custode inflessibile del parco annesso al palazzo, l'attuale
            villa comunale. Si chiamava Vincenzo Parrotta detto 'u Scarolu,
            abitava nel rione Pizzetto ed era il padre di Virginia e Alfonsina
            Parrotta. Era il terrore dei ragazzini che, mentre lavorava, si
            infiltravano nel parco per ammirare i giochi d'acqua, le cascatelle,
            le siepi ben curate e molestare i pesci e gli uccelli acquatici che
            vivevano nei piccoli stagni artificiali.  Qui lo vediamo
            "assiso  nel suo trono" tra due grandi vasi,
            probabilmente di ortensie, nei pressi di un'aiuola all'interno del
            parco baronale, in posa per il fotografo con lo sguardo di chi
            custodisce con severità dei tesori che oggi ricorda solo chi ha
            più di novant'anni.  LE BACCHE DI GOJI E I PRIMATI DELLA CALABRIA 
    
            Uno nasce e vive in una regione e
            crede di conoscerla bene, di conoscerne le bellezze naturali, le
            città, i monumenti, la cultura, le risorse, le potenzialità, poi
            gli capita di guardare una trasmissione televisiva e di rendersi
            conto che della sua terra conosce ben poco o che, almeno, c'è
            ancora tanto da scoprire e che, nonostante le denigrazioni e,
            soprattutto le ben più odiose auto denigrazioni, il disinteresse
            dello Stato, la carenza di grandi infrastrutture come strade e
            ferrovie, la spaventosa emigrazione, oggi anche di cervelli, che non
            si riesce ad arrestare, la Calabria cresce, produce eccellenze,
            conquista primati nazionali e, a volte, europei.  
 SPAGNOLA E ASIATICA, I "COVID" DEL NOVECENTO CACCURESE 
    Il
            covid col quale stiamo facendo i conti anche noi caccuresi, anche
            se, per fortuna, senza danni irreparabili, non è la prima epidemia
            che colpisce il nostro paese. Già nei secoli scorsi sono state
            molte quelle con le quali siamo stati costretti a fare i conti, a
            cominciare dalla peste negli anni 1528, 1582, 1592 e 1592. IL MATRIMONIO "FATTO IN CASA" 
 Cumu
            è contenta oje za Marietta   
            Questa due
            bellissimi scatti dei primissimi anni '60, che, se non ricordo male,
            immortalano le nozze della signorina Teresa Lacaria, che abitava
            all'inizio di viale della Regina, con un signore piemontese, ci
            mostrano il tipico matrimonio dei quei tempi, quello genuino, fatto
            in casa, quando ancora non si andava nei ristornati, anche perché i
            ristoranti nemmeno c'erano e il boom economico non era
            iniziato,  primo in via XXIV Maggio, il secondo, circa un
            minuto dopo, in via Principessa di Piemonte. E
            tutta ‘a gente jetta li cumpetti, Finita la cerimonia si tornava solitamente a casa della sposa o, nel caso questa fosse troppo angusta, in qualche magazzino o in qualche locale di fortuna un po' più grande dove si faceva il ricevimento ('a spartogna) a base di dolcetti e liquori fatti in casa e distribuiti da persone che avevano una certa pratica, sempre le stesse, assunte per l'occasione come si fa oggi con i camerieri. Quasi sempre si verificavano episodi incresciosi perché, probabilmente per la fame a quei tempi molto diffusa, alcuni invitati eccedevano con i dolcetti col rischio che altri restassero a becco asciutto. Allora l'addetto alla distribuzione, con scarso tatto, li redarguiva esponendoli a una figuraccia. Però
            chi scostumati ‘sti vicini, Alla
            fine gli sposi passavano fra gli amici distribuendo confetti con un
            cucchiaio visto che all'epoca non si usavano le bomboniere, quindi
            aveva inizio il ballo che a volte si protraeva fino a notte
            inoltrata. Ma non era finita perché appena gli sposi si ritiravano
            nella loro stanza da letto sotto la finestra si intonava la
            tradizionale serenata. In
            queste due foto si riconoscono alcune care persone che non so no
            più con noi come il dottore Francesco Macrì, e gli amici Paolino
            Nesci e Peppino Guzzo.                                                       
            'a
            via 'e ru menziornu - la Strada  Caccuri - Santa Rania    Uno
            dei problemi più urgenti da risolvere agli inizi del secolo scorso
            era quello di un accettabile collegamento tra Caccuri e la frazione
            di Santa Rania che era sorta a circa 7 chilometri a sud -
            est  della cittadina a ridosso delle contrade Forestella e
            Serra del Bosco di Casalinuovo.  Lo stato di precarietà dei
            collegamenti creava notevoli difficoltà soprattutto quando, in
            seguito al decesso di qualche abitante della frazione, se ne doveva
            traslare la salma nel cimitero del capoluogo a dorso di mulo, per
            non parlare di quello che poteva accadere in caso di emergenze
            sanitarie.  
 CACCIARE 'E MINNE 'E FORA - GLI ANATEMI CACCURESI 
 Te
            vo'scigare 'nu lampu! (Possa
            tu essere fatto a pezzi da un lampo!") Vo jire l'acqua, l'acqua! Possa tu trovarti in mezzo ad una piena! Vo jire l'acqua appenninu! Possa trovarti in mezzo ad una piena che ti trascina a valle! Te vo trovare a Vitette! (Vitette è una località alla foce del Neto. L'invettiva, in pratica, significa: possa tu essere travolto da una piena e portato e Vitette dalle acque limacciose del fiume.) Te
            via jire cu' lu portigallu alla vucca! (Quando si ammazzava un lupo
            gli si metteva tra le fauci un'arancia infilzata in uno stecco.
            Chiaro, quindi, il significato dell'anatema.) Te via' scumpunnutu! Possa ti essere scomposto, confuso! Te
            viari orbu!   Possa tu essere orbo! Te
            via scurciàtu  Possa tu essere scorticato! Vo jire pettiscigàtu! Possa tu essere uno straccione, un miserabile Chi si nne vo' abbuttare 'na timpa! Possa tu precipitare in un dirupo che ti faccia da tomba! Chi
            vo jire limmertu e pellegrinu!   Possa
            tu  essere sempre un povero straccione, un morto di fame, un
            pezzente! Va fa 'ncinefrica! Vai a quel paese! (Detto, però, in modo affettuoso)       Molti
            di  questi anatemi venivano usati indifferentemente "cu'
            lu sangu all'occhji", ciò accecati dalla rabbia, quindi con la
            segreta speranza che cogliessero davvero il destinatario, ma anche
            per scherzo, bonariamente, col tono che faceva capire al
            destinatario che si trattava quasi di un gesto affettuoso, ma la
            cosa più temuta dai caccuresi era la maledizione della propria
            madre quando l'odio tra i due arrivava al punto tale che la
            genitrice, pur di maledire il figlio che si era macchiato di una
            gravissima colpa, rinunciava perfino al pudore che nei secoli scorsi
            era considerato il bene più prezioso. Allora la donna si scopriva
            il seno (se cacciava le minne 'e fora) per rendere l'atto più
            solenne e terrificante e malediva il frutto delle suo grembo.  
 L'IMMACOLATA DEL 1962 
 
 Digitando la parola Immacolata nel mio personale "motore di ricerche" ho ritrovato questa seconda foto della processione dell'Immacolata che scattai nei primissimi anni 60, precisamente l'8 dicembre del 1962. E' stata scattata qualche attimo dopo quella che ho pubblicato stamattina, quando la processione, lasciatosi alle spalle il viale del Convento, aveva già imboccato la via XXIV maggio diretta in chiesa. In questa sono riconoscibili diverse persone tra le quali, oltre al parroco don Salvatore Peri e a Giovanni Muto (Vatticore) con la croce di penitenza, la guardia comunale Luige De Rose, Gennaro Rao che porta la statua, Marcello De Franco in basso al centro tra ragazzi con alle spalle Rocco Spatafora e alla sua sinistra Vincenzo Perri e poi ancora un ragazzo col basco, un cugino dell'ex sindaco Luigi Durante. 
 INVENTORI E SFRUTTATORI 
 
 GRANDI LETTERATI CACCURESI E CERENTINESI 
                                                 
            I
            CAGNUSI 'E CACCURI               Santu
            Roccu mio benigno                 
            San Rocco mio, benigno   Questa simpatica storiella che mette un po’ in ridicolo le bellissime ragazze caccuresi è stata ripresa dal compianto dottor Giuseppe Aragona nel suo pregevolissimo volume su Cerenzia pubblicato nel 1989 e ristampato recentemente. 
 A CACCIA DI GALASSIE NELLA TERRA DI LUIGI LIILIO 
 Stamattina a Savelli mi è capitato di fotografare questa bellissima meridiana collocata sulla facciata della chiesa dei Santi Pietro e Paolo adiacente lo stabile nel quale fu alloggiata per molti decenni la Pretura, attiva già nella seconda metà del XIX secolo. Sotto la meridiana una tabella per il calcolo dell'equazione locale di Savelli che consente di calcolare esattamente il mezzogiorno del luogo che, com'è noto, non coincide con l'ora segnata dall'orologio che è quella del meridiano che passa per l'Etna, ma varia di qualche minuto in più o in meno a seconda che il paese si trovi a ovest o a est dello stesso meridiano etneo. Non ho avuto l'opportunità di chiedere notizie in merito, ma credo si tratti di una lodevole iniziativa dell' osservatorio astronomico Lilio, l'astronomo, medico e matematico cirotano ideatore del calendario gregoriano, sorto qualche anno fa nella zona di Pino Grande e che consiglio di visitare a tutti gli amici perché si tratta di una struttura unica in Calabria, ma anche tra le più importanti in Italia e in Europa, che collabora anche con l'Agenzia spaziale italiana. Per renderci conto delle potenzialità di questo nostro osservatorio basti pensare che il 22 marzo 2017 il suo telescopio ha fotografato la Galassia Sombrero lontana 29 milioni di anni luce e nel settembre dello stesso anno ha ospitato il XXV Congresso Nazionale del Gruppo Astronomia Digitale con la presenza di astronomi di tutta Italia. Un'altra eccellenza calabrese della quale possiamo e dobbiamo andare fieri e che dimostra, che se si volesse si potrebbe fare ricerca di qualità anche in questi nostri paesini destinati a morire nel giro di qualche decennio per lo spaventoso spopolamento e per l'abbandono totale di uno stato che da sempre investe i suoi soldi, anche quelli che l'Europa gli dà per il Mezzogiorno, nella "terra dei conquistatori risorgimentali", mentre qui abbiamo bisogno di tutto, a cominciare da strade un po' più decenti per raggiungere Savelli e il suo osservatorio, ma anche tanti paesi e città della nostra bistrattata, grande, bellissima Calabria. 'A SARMA 'E LIGNA SUTTA 'U LETTU - AH, L'AMORE CHE COSè! 
   
            La salma era un'antichissIma
            unità di misura in uso già nel XIII secolo in Sicilia, poi estesa
            in seguito a tutto il Regno di Napoli, usata sia per misurare le
            superfici agrarie, sia  gli aridi e, in alcune zone,
            anche  i liquidi. Il valore variava da zona a zona  per le
            estensioni di terreno, ma anche per gli aridi. 'E RUSELLE? MEGLIO FARSELE DA SOLE CHE "ABBUSCARLE" 
    
            Caldarroste, pastilli, veròle,
            brostuli. mondà, frogiate, mondine: per noi  soltanto ruselle,
            le dolci, calde ruselle che ti scaldano le manI e il cuore e ti
            deliziano, il palato, specialmente quando hai la fortuna di trovare
            castagne 'nzerte, che siano 'nzerta russa, 'nzerte di Mammola, di
            Palermiti (addue 'un se riciu' cchjiu misse cantate) o di Caccuri,
            ma, 'a 'nu malu riparu vanno bene pure le mie riggiole arrostite con
            una vecchia rusellare sul gas che non è il massimo, come fa notare
            qualcuno, ma che è megliu 'e nente o meglio è Il prezzo che
            paghiamo alla modernità dei radiatori.  
 'A SAGLIOLA E LA SCUOLA DI STRADA 
 Per noi fanciulli degli anni 50 e dei primissimi anni 60 che avevamo la straordinaria fortuna di vivere negli sperduti paesi interni della Calabria, meglio ancora se, come nel mio caso, in un rione all'estrema periferia del paese che stava nascendo allora, con quattro case, un forno, una fontana, due viuzze sterrate e polverose con a ridosso stalle e porcili, la strada era una vera e propria scuola dove imparavi un sacco di cose, assistevi dal vivo a quelle attività umane che consentivano di produrre ciò di cui avevamo bisogno, a procurarci il cibo, gli indumenti, perfino gli svaghi: dalla castrazione dei maiali al metodo originale che le nostre nonne adoperavano per capire se la gallina stava per far l'uovo o se ci voleva ancora tempo, alla filatura, al lavoro a maglia, alla macellazione o al governo degli animali degli animali e ad altro ancora acquisendo quella cultura e una quantità di nozioni che nessun maestro, nessun professore di liceo avrebbe mai potuto darti. Spesso assistevamo agli scambi commerciali e alle interminabili manfrine, schermaglie, sceneggiate per spuntare un prezzo più favorevole e poi alla pesatura dei generi. I fruttivendoli ambulanti che allora arrivavano in paese con le prime Api Piaggio si portavano dietro la stadera, ma, a volte, anche un dinamometro come quello nella foto che non era il massimo della precisione, soprattutto se era vecchio e un po' arrugginito, ma, come si dice, "Chissa era l'ugna" che in dialetto chiavamo " 'A sagliola". 
 'U SANCERI 
 “Ntre
            vie n’adduru ‘e menta, ‘e rosmarinu,  
            ‘U sanceri era una salsiccia a base di sangue di maiale, di
            pecora o di capra rappreso insaccato all’interno di un budello per
            soppressate. Le nostre donne lo preparavano mescolando il sangue di
            maiale o di pecora con aglio e prezzemolo tritati finemente, sale,
            una spruzzatina di pepe e un filo di olio. Da questa operazione si
            otteneva un composto che si insaccava delicatamente nel budello
            chiudendolo con uno spago ai due lati. Quindi lo si faceva bollire
            per circa un’ora, lo si lasciava raffreddare e lo si serviva a
            fette accompagnandolo con un rosso di vigna di Barracco. 
 L'ISTRUZIONE NELL'ITALIA PRE UNITARIA 
 Una
            delle tante “leggende metropolitane” descrive i meridionali
            prima dell’unità d’Italia rozzi, analfabeti, non scolarizzati.
            In realtà questo è il quadro delle popolazioni meridionali dopo un
            ventennio di dominazione sabauda. Prima del 1860, infatti, i livelli
            di analfabetismo erano più o meno gli stessi in tutta la penisola
            con qualche prevalenza in alcune regioni del nord. Diversa era
            invece la situazione degli studi universitari nei quali il Sud
            primeggiava largamente sia sul Nord che sul Centro come si evince da
            questo specchietto. Fra l'altro il Regno delle due Sicilie
            ospitava  la Federico II, la più antica università pubblica d'Italia,
            fondata dall'imperatore svevo,  dopo quella di Bologna che
            però fu fondata da una libera associazione di studenti, e
            l'Orientale, la prima scuola di sinologia e di lingue orientali
            italiana.  ISCRITTI
            ALLE UNIVERSITA’ ITALIANE SECONDO IL CENSIMENTO DEL 1861 Macroregioni
            o città                                   
            Numero degli iscritti Napoli                                                               
            9.459 Sicilia                                                                
            1.069 
 Sardegna                       
                                              137 Piemonte,
            Lombardia, Veneto                   
            2.572 Emilia
            Romagna                                            
            1471 Toscana                                                           
            764 Umbria
            e Marche              
                                          259 Dal
            che si deduce che nell’anno dell’Unità d’Italia l’ex Regno
            meridionale aveva esattamente il doppio degli studenti universitari
            di tutto il resto della Penisola. E meno male che eravamo
            "peggiori dei beduini" (detto alla quella personcina
            perbene ed equilibrata di Cialdini), rozzi e ignoranti! QUALCHE CENNO SUI "TRE FANCIULLI" 
 La foto a sinistra ci mostra quel che rimane di un'epigrafe scolpita su pietra tufacea e collocata sul portale della chiesetta dei Tre Fanciulli, un tempo annessa al monastero omonimo i cui resti erano ancora visibili alla fine del XVIII secolo. Da questo prezioso documento apprendiamo che la chiesa dell'antico monastero basiliano, incorporato nei possedimenti florensi dopo che con la donazione di Enrico VI all'abate Gioacchino da Fiore era stato spogliato dei suoi beni, fu restaurata per l'ultima volta dal giovane abate commendatario Giacomo Caracciolo nel 1717. Bisognerà aspettare ancora due secoli prima degli ultimi interventi che ci consegnarono la chiesetta come la vediamo oggi. 
 CACCURI ADERISCE INCONDIZIONATAMENTE AL REGNO D'ITALIA 
 
                                                       
            TUNDRA,
            LA TIGROTTA CACCURESE  Nel
            1997, il  2  giugno, dopo tanti anni durante i quali 
            Caccuri non aveva più dato la luce a nessun bambino, ne ad altre
            creature, tranne qualche cane o qualche gatto, si ebbe una nascita
            singolare: si trattava di un cucciolo di tigre,  al quale venne
            imposto il nome di Tundra. La tigrotta  nacque da una tigre 
            in cattività in un circo attendato in quei giorni nel nostro paese,
            un evento rarissimo come mi spiegarono all'epoca gli amici circensi.
            Purtroppo  " l' illustre caccurese"  morì
            qualche giorno dopo mentre il circo si trovava a Scandale dove 
            si era nel frattempo  trasferito e
            da allora a Caccuri continua a non nascere nessuno.                                                           
            UNA
            FOTO DI GRANDE VALORE STORICO 
      
            Il cuore economico e sociale di Caccuri era, fino agli inizi degli
            anni ‘60 del secolo scorso, il tratto di strada compreso tra la
            piazza (quella senza nome da non confondere con piazza Umberto) e
            via Misericordia (resti della casa dei Simonetta). In poco più di
            cento metri vi erano il forno di Salvatore Blaconà, tre bar, un’ osteria, una trattoria, due
            botteghe di sarto, quella di mastro Giovanni Gallo e quella di
            mastro Giovanni Secreto, due barbieri, zio Gennaro Parrotta e mastro
            Luigi Tallerico, un fabbro ferraio, zio Michele Marino, due calzolai,
            due negozi di generi alimentari, quello di Rosina Iacometta, vedova
            Fazio e quello di Angelino Secreto, due macellerie, quella di
            Eugenio Pitaro e quella di Luigi Iacometta,  il
            fruttivendolo,  un negozio di calzature, un negozio di tessuti,
            Maria 'a Marrucarmina (la moglie di mastro Carmine Chiodo) un negozio di elettrodomestici 
            e una rivendita di tabacchi. 
            Le osterie, i bar e i saloni erano dei veri e propri centri
            di aggregazione e di socializzazione dove la gente si incontrava e
            discuteva di tutto. Nel bar Quintieri, all'incrocio tra via
            Misericordia e via Portapiccola, c'era anche un bigliardo a stecca e
            un altoparlante collegato a una radio col grammofono che diffondeva
            le canzoni in voga negli anni '40 e '50. Fu da quell'altoparlante
            gracchiante che ascoltai da bambino le note de "Lu pecuraru de
            Cerenzia" e de "La donna riccia" di Modugno.  Nel piccolo
            slargo  davanti la casa dei signori Manfreda,  verso la metà del
            Novecento,  erano ubicati,
            fra l'altro,  l'ufficio postale che, trasferitosi poi in piazza
            per un breve periodo, fu ospitato nella casa di donna Lisetta
            Lucente alla Misericordia, e l'ambulatorio medico del dottore
            Vincenzo Ambrosio, di fronte casa Manfreda.    
 LA PREVENZIONE DEL MAL DI TESTA 
 Secondo un’antica credenza popolare caccurese spuntando una ciocca di capelli il primo venerdì di marzo ci si liberava del mal di testa per tutto l’anno senza dover ricorrere agli analgesici. Una medicina popolare che ricorda un po' quella di Plinio il vecchio di grande attualità in questo periodo di terrapiattisti, di scie chimiche, di falsi sbarchi sulla luna e di vaccini che provocano l'autismo che probabilmente si affermò quando si dava la caccia ai gatti, malvagie creature amiche delle streghe. 
 LE FARMACIE CACCURESI DA LUISA DE MATTEIS A EMILIO SPERLI' 
 
   
            Il 25 aprile del 1922 il Comune di Caccuri autorizzò l’apertura
            di una farmacia di proprietà del dott. Vincenzo De Franco in
            sostituzione di quella della signora Lucia De Matteis.  Don
            Vincenzo, oltre che in medicina e chirurgia, era anche laureato in
            farmacia e i suoi prodotti galenici erano molto efficaci. Quando fu
            nominato segretario comunale in sostituzione del cognato dott.
            Vincenzo Ambrosio che divenne medico condotto, per evidente
            incompatibilità con l'ufficio pubblico ricoperto, dovette cedere la
            condotta al dottore cutrese Raffaele Piterà la cui farmacia era
            ubicata in uno stabile di Salvatore Durante in via Simonetta e
            quando anche Piterà, uomo di grande compagnia, famoso
            "epicureo" e gaudente  lasciò libera la condotta,
            questa passo al dottor Gaetano De Franco che trasferì la farmacia
            nell'antico palazzo  De Franco in via Buonasera. Nei primi anni
            '60, infine, gli subentrò il dott. Emilio Sperlì e la farmacia si
            trasferì in Salita Mergoli.  
 ' A QUINNICINA 
 Deus in adjutorium meum intendeDomine
            ad adjiuvandum me festina Gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito SantoCom’era
            in principio, ora e sempre, nei secoli dei secoli, amen. Grazie
            Segnure, ne ngninocchjiamu alli peri vorri e ne sentimu cumpessàre
            tutti i peccati c’hamu fattu ‘e quannu simu nati, fino a mo. O
            mio amato buon Gesù, chi pe’ la redenzione ‘e ru munnu volisti
            nascere, patire e morire, circondato ‘e ri Jurei, ‘e Jura
            traditure, con nu baciu traditu, cumu agnellu attaccatu e portatu
            allu macellu; portato addue Anna, Erode, Pilato e Caifa, accusatu
            ‘e ri farsi testimoni, vattutu cu ‘na canna, ncurunatu re spine,
            sputatu n’faccia, abbiveratu cu’ fiele e acitu, cu tri chjovura
            ‘nchjiovarunu i peri e le manu e tutte l’ossa e ru corpu se
            meravano.  Segnure, pietà e misericordia ‘e ru cielu e re la
            terra, di boni e di mali. Signor
            mio Gesù Cristo Crocifisso, figlio  della Beata Vergine Maria,
            aprite le vostre sante orecchie ed ascoltatemi come ascoltaste
            l’Eterno Padre sul monte Calvario. (Credo) Signor mio Gesù Cristo, Crocefisso, figlio della Beata Vergine Maria, aprite i vostri santi occhi e guardatemi come guadaste dall’albero della croce la vostra cara madre afflitta e addolorata Maria: (Credo) Signor mio Gesù Cristo Crocifisso, figlio della Beata Vergine Maria, aprite la Vostra Santa Bocca e parlatemi come parlaste a San Giovanni l’Evangelista quando lo desti per figlio alla Vostra Dilettissima Madre Maria. (Credo) Signor mio Gesù Cristo Cocifisso, figlio della beata Vergine Maria, aprite le Vostre Sante braccia ed abbracciatemi come abbracciaste l’albero della Croce e la Vostra Cara Madre Afflitta e Addolorata Maria. (Credo) Signor mio Gesù Cristo Crocifisso, figlio della Beata Vergine Maria, aprite il vostro Amorosissimo cuore e in tutto ciò che vi domando esauditemi come piace alla Vostra Santa Volontà. (Credo) Tre “Credo” in onore delle tre ore che stette il Signore in agonia. Oi Gesù, oi Gesù, tutti quanti chjiamamu a Gesù, Gesù quannu me veni appressu e ra grazia veni. Gesù mio quantu si’ bellu, Gesù mio quantu si’ caru, Gesù mio quantu si’ riccu e nue simu poveri, tu fannìla ‘a caritate cumu a tutte l’atre anime chi simu unite alla preghiera, Gesù mio stenna ‘sta manu ca tutti nue facimu pace, ca ‘stu sdegnu s’alluntana, Gesù mio cumu me piaci. Oi Gesù, oi Gesù, oi San Giuvanni mio, convincialu tu, ca tu he dichiarare ca ‘sta’anima mia si l’ha de pijare Gesù, Giuseppe e Maria. Cruce Sante ‘e ru Segnure, tu veni cu’ rigure e lu spiritu infernale mannalu cu lu male, de male e d’agonia, Cristo andate via. Fujiti, male occasioni, ‘e ra mente mia, ‘e ra casa mia, ‘e ra gente mia, ‘e ra ruga mia. Segnure pietà e misericordia du cielu e da terra, ‘e ri boni e di mali. Chi bella cosa chi va pe’ la terra, è lu Gloriosu Figliù re Maria, chillu c’ha criatu celu e terra e spargia sangu pe’ l’anima mia. O mio amato e buon Gesù, tu quannu si chjiamatu, tannu veni, alle quattro, alle sie, alle nove ure, quannu nascia la Luna e quannu chjova, veni a ‘sta casa, re ‘sta peccatura ca tutta chista casa cunsùla, apri l’ali ca cu tia mi c’aruru, te pigli l’alma e me lassi lu core. Stamattina jennu pe’ via scontai Gesù, Giuseppe e Maria. Io le fìcia ‘na vera nchinata, si mi ce vo’ a mia a ‘sta compagnia. Illa ha rispusu cu parola amata: “Figlia, si vo venire sta a tia”. Mo chi me viju re Gesù mmitàta, lassu lu munnu e vaju cu Maria, io te salutu e te ricu l’Ave Maria. Grazie Segnure e tante benedizioni pe’ quantu anime criasti allu munnu e ra prima fina alla fine. Grazie Segnure e tante benedizioni pe’ quantu pampine ‘e arbuli ce su’ allu munnu. Grazie Segnure e tante benedizioni pe’ quantu cocci ‘e rina ce su’ allu munnu. Grazie Segnure e tante benedizione pe’ quantu gucce ‘e acqua c’è su’ allu mari finu a chi ‘e benedizioni superiscianu tutti i peccati chi ce su’ 'a terra. CURIOSITA' ANAGRAFICHE CACCURESI E LA STORIA DI PANAZZU 
    
            Nel Cinquecento a Caccuri, figuravano, tra gli altri, anche questi
            cognomi: Gaita, Crissune, Accepta, Onesto, Mataxa, Santello,
            Maglocco, Cucchiero, Capillo, Bucchinfuso, Crescione, 
            Quattromani, Spolveri, Xpano, Accimbatore, Patrizio, Mingazio, tutti
            scomparsi da secoli. Altri cognomi presente nell'anagrafe caccurese
            nei successivi secoli e comunque fino alla metà del XIX secolo
            erano i Manfreda, i Procopio, i Montemurro, i Leonetti, i  Iesu,
            quest'ultimi di probabile origine ebraica.  SAMBUCO CONSERVA E SCIRUBBETTA 
 
 'U FERRU FILATU (IL PIERCING DEL MAIALE) 
                
 
 ROSUZZA 'E PETRE - PETRE 
        Viveva
            a Caccuri a cavallo tra il XIX e il XX secolo, una povera donna di
            nome Rosina, ma che tutti chiamavano Rosuzza e che, purtroppo, non
            sono riuscito a identificare. Era una sempliciotta, analfabeta che
            non aveva la più pallida idea di come fosse fatto il mondo. Viveva
            da sola perché il marito e i figli erano da tempo emigrati in
            America e il sogno suo impossibile era quello di poterli un giorno
            raggiungere per stare con loro e vincere la solitudine. 
 
    Come
            tanti, forse come  tutti quelli che,  emigrati in America
            per lavoro,  fecero ritorno in Italia, per loro volontà o
            perché costretti da qualche grave motivo, nonno Saverio sentì per
            tutta la vita una struggente nostalgia per quel paese che, anche se
            lo aveva sfruttato costringendolo a scavare carbone a centinaia di
            metri sotto terra come un dannato, gli aveva dato, per la prima
            volta in vita sua, un po’ di dignità, quella dignità che invece
            gli aveva negato il Regno d’Italia dei Savoia che era nato circa
            un ventennio prima di lui e, soprattutto, gli aveva consentito di
            mettere da parte le famose seimila lire che occorrevano, agli inizi
            degli anni venti a Caccuri per costruirsi un monolocale di otto
            metri per cinque. Così, quando nel 1958 un ictus e una conseguente
            paralisi lo costrinsero a starsene a casa, lui che nella vita non
            aveva mai avuto un attimo di riposo e che quando tornava la sera a
            casa con l’asino carico di legna si caricava anch’egli più
            della bestia,  mi faceva sedere accanto a lui e mi parlava di
            quel mondo “fiabesco e sconosciuto.”  
 FRATELLI FODERO FUOCHISTI OVVERO "I PURBERARI" 
      
            Nella prima metà del XX° secolo gli spettacoli pirotecnici della
            festa di San Rocco e delle altre feste che si celebravano a Caccuri
            erano curati da fuochisti del
            luogo, i fratelli Nicola e Vincenzo Fodero, originari di Belcastro,
            ma sposati  con ragazze
            caccuresi e residenti  nel
            nostro paese da molti anni. Uno dei numeri più apprezzati dai
            giovani e meno giovani del tempo era il famoso “asino
            scoppiettante”, una carcassa a forma di somaro costruita con
            stecche di legno e altri materiali di fortuna ed imbottita di
            girandole e botti che zu Nicola (a destra nella foto) si caricava sulle spalle prima di
            accendere le girandole  e
            di mettersi a “sgroppare” di qua e di là sulla piazza in un
            fantasmagorico gioco di luci e colori per la gioia dei presenti. 
 'E CACCURI MANCU 'U PORCU 
 
 IL TEATRO VIAGGIANTE NEL SECONDO DOPOGUERRA 
      
            Negli anni ’40 dello scorso secolo, dopo la fine del secondo
            conflitto mondiale, anche  Caccuri era meta di compagnie
            teatrali viaggianti sui carri di Tespi che giravano in lungo e in
            largo la penisola cercando di sbarcare il lunario facendo
            dimenticare alla gente gli orrori della recente guerra con le loro
            “mirabolanti” commedie. Spesso, qui da noi, attori e capocomici
            erano vittime di piccole truffe e raggiri messi in atto da non
            troppo onesti giovanotti che si intrufolavano nel teatrino
            improvvisato (in via Parte nel garage Ambrosio o nel palazzo De
            Franco) con le più furbesche trovate, senza pagare il biglietto.
            Alcuni personaggi delle opere rappresentate divennero così popolari
            da trasformarsi in soprannomi di gente del luogo come
            "Famiglio", soprannome del compianto, carissimo compare
            Rocco Parrotta.                                                                    
            A
            MARIETTA MORRONE LOPEZ 
 
      
            Riordinando i miei archivi mi è
            capitata tra le mani la fotocopia di questa stupenda ode del poeta
            Umberto Lafortuna dedicata alla signora Marietta Morrone Lopez che
            mi sembra degna di essere tramandata
            ai posteri per la bellezza dei versi e quella di due persone come la
            signora Morrone e l'illustre maestro caccurese che, oltre all'amica
            in questione, celebrò con il suo canto anche alltri amici come
            Ernesto Benincasa e Vincenzo Guzzo mettendo in luce tutta la sua
            grandezza, non solo di poeta per l'infanzia e vernacoliere.  Ma
            se la dea ti vinse per bravura Invece
            sposa, madre assai virtuosa TACCE E POSTE 
 
 
    
            Chi ha meno di quarant'anni
            difficilmente avrà mai visto una "posta o una taccia", ma
            chi ha la mia età le ricorda benissimo perché gli capitava di
            vederle quotidianamente. Le poste si trovano ancora negli
            allevamenti di equini o in qualche scuderia, ma le tacce
            sono sparite da decenni cancellate dalla tecnologia come le macchine
            da scrivere, il calamaio, il lume a petrolio, perfino il flop
            disk.  P.S. 
 SANTA RUMINICA 
       
            Fino alla metà del secolo scorso
            quando un cacciatore uccideva un lupo riceveva il plauso di tutto il
            paese, soprattutto dei pastori ai quali la povera bestia ogni tanto
            scannava qualche pecora. La carcassa dell'animale  veniva portata
            in trionfo per le strade del paese seguita da una folla festante.
            Nella bocca si infilava un legno appuntito al quale era stata 
            infilzata un'arancia per tenere spalancate le fauci dell'animale e
            ognuno offriva un dono a colui  che aveva liberato il paese
            dalla bestia feroce. Una curiosità: il lupo ucciso con l'arancia in
            bocca veniva chiamato "Santa Ruminica" (Santa Domenica),
            forse perché, in ricordo del rispetto dei leoni nei confronti della
            santa che si rifiutarono di sbranarla quando fu condannata al
            martirio per cui i carnefici dovettero decapitarla, era considerata
            anche la patrona del lupo. I lupi venivano anche scherzosamente
            definiti dai nostri nonni "vacaturi", sfaccendati, nemici
            del lavoro.  CIAVULE (taccola, corvus monedula) 
   
            "Che
            fine hanno fatto 'e
            ciavule?" è la domanda che ci
            poniamo in molti dopo la scomparsa di questi socievoli animali
            che  fino agli inizi degli anni '90   vivevano nei
            fori per impalcatura (grupi 'e nnàita)  del
            castello, nonostante la caccia spietata che gli davano i ragazzi con
            le loro frecce (fionde)
            da non confondere con i dardi  che scagliavamo con  l'arco (freccia
            a spizzìnguli dove 'u
            spizzìngulu era
            appunto il dardo).
            Per evitare equivoci  dirò  che, oltre che i dardi, con
            il sostantivo spizzingulu indichiamo
            anche la parte della tagliola per gli uccelli dove viene collocata
            l'esca. ‘U RRUMMULU 
    
            Prima
            di parlare del gioco bisogna premettere che, per il 90%,  i
            "rrummuli" dei fanciulli caccuresi, erano fabbricati dagli
            stessi, spesso mettendo a repentaglio le mani esposte,
            pericolosamente, alle asce o alle raspe. Ma si trattava, quasi
            sempre, di veri e propri gioielli. I migliori erano quelli di
            "ilice" (elce, leccio), un legno molto duro che preservava
            " ' u rumulu" dai danni di cui parleremo in seguito. Le
            trottole che si compravano nei negozi, colorate e con la parte
            inferiore rigata, venivano disprezzate dai ragazzi che le chiamano
            spregiativamente "tavulonzi" (tavoloni, pezzi di legno
            molliccio).  Il gioco consisteva nel lanciare la trottola,
            attorno alla quale si attorcigliava un lungo spago,  cercando
            di colpire con la punta, quella del malcapitato di turno che era
            costretto a "parare", cioè a lasciare la propria trottola
            per terra alla mercè degli spietati compagni. Ovviamente le punte
            delle altre trottole lasciavano il segno, soprattutto se quella
            "parata" era un "tavulonzo". Se non la si
            colpiva direttamente, il lanciatore aveva la possibilità di
            prendere sul palmo della mano la propria trottola mentre ancora
            girava, accostarsi a quella "parata" e colpirla con la
            propria ancora in movimento. Se il lanciatore non riusciva a colpire
            la trottola direttamente o nemmeno  con la sua prendendola sul
            palmo della mano mentre ancora girava o, addirittura, non riusciva a
            fare girare la propria, doveva rassegnarsi a "parare" a
            sua volta "il suo rrummulu"  e assistere ai generosi
            tentativi di disintegrarglielo. 
                                                                             
            
            ‘A JOCCA 
 "
            Me para ca se vo' parare jocca" esclamava mia madre quando una
            gallina cominciava a crocchiare e col un comportamento insolito, manifestava il suo
            "desiderio di maternità". 
            Allora la mamma prendeva una cesta di vimini, qualche
            straccio e si affrettava a prepararle il nido contenente
            un discreto numero di uova, sempre, chissà per quale arcano mistero,
            in numero dispari, che la chioccia si affrettava pazientemente a
            covare. Allora anche per noi fanciulli iniziava un'attesa impaziente
            che durava fino a quando le uova non cominciavano a schiudersi e i
            pulcini completavano l'opera liberandosi completamene dal guscio.
            Qualche volta capitava che fra le uova ve ne fosse uno
            "cuvatusu" cioè non fecondato dallo sperma del gallo,
            destinato fatalmente a marcire sotto la chioccia per cui dovevamo
            sorbirci il suo pestilenziale odore. 
            Ogni volta che la chioccia si prendeva una breve pausa
            allontanandosi per qualche attimo dal nido correvamo a esaminare
            attentamente le uova nella speranza di scorgere 
            qualche segno di vita.  Poi,
            quando nascevano i pulcini  e la covata cominciava a razzolare nel cortile, la seguivamo a prudente distanza perché
            la chioccia, temendo che volessimo far male ai piccoli, centuplicava
            la sua aggressività. Oggi anche da noi è difficile trovare
            qualcuno che allevi ancora galline e chi lo fa le compra già quasi
            adulte, di quelle nate nelle incubatrici. 
            Insomma una sorta di fecondazione assistita. Per le galline
            non si applica la legge 40 e la chiesa non è contraria alla
            riproduzione dei polli con metodi artificiali. Almeno per ora. 
            Addio vecchia, nevrotica, amata jocca! 
 ‘U RIOLU 
     L’orzaiolo
            è una fastidiosa infezione di alcune ghiandole dell’occhio che si
            manifesta con una leggera tumefazione della palpebra, un malanno non
            molto grave che di solito guarisce da solo senza problemi, ma che
            comunque è bene non sottovalutare. 
 ‘U PUTIGHINU (IL TABACCHINO) 
 
 'A ZAGAROGNA 
     Negli
            anni ’50 la vecchia corriera  per Crotone passava da Caccuri alle
            quattro del mattino, nel buio più pesto. Per questo motivo i
            Caccuresi l’avevano simpaticamente ribattezzata “ ‘a
            zagarogna”, il barbagianni, che, come è noto, è un uccello
            notturno.  A quei tempi un viaggio a Crotone o a Catanzaro
            poteva a volte trasformarsi in un'avventura, se non un incubo. Non
            era infrequente, infatti che la vecchia corriera forasse o l'acqua
            del radiatore andasse in ebollizione il che costringeva lo
            "chafferro", come lo chiamavano i nostri nonni, a un
            supplemento di fatica pe riparare il guasto. Fra l'altro doveva
            percorrere la tortuosa e a tratti sconnessa 106 per cui, per
            raggiungere da Caccuri la "città di Milone" impiegava
            oltre un'ora quando tutto andava bene. Verso la metà di quel decennio, oltre al pullman della ditta Romano, erano in servizio due
            noleggiatori, Luigi Pisano, con una Fiat Diesel 1400 e l'anziano
            Domenico Capozza con una delle prime Fiat 600. 
 QUANDO SE 'MMIAVA LA CAMPANA 
 Fino a quasi la seconda metà del secolo scorso la grande campana della Chiesa di Santa Maria delle Grazie, fusa nel 1578 da Angelo Rinaldi per l’Università di Caccuri, veniva suonata a distesa ( 'mmiata) facendola oscillare pericolosamente nel giorno in cui veniva eletto un nuovo papa. Quattro robusti giovani la spingevano con forza per imprimerle un moto oscillatorio. La cosa si ripeteva per alcuni minuti per comunicare l' "habemus papam" ai contadini sparsi per le campagne caccuresi. Il suono era così forte, assicuravano i vecchi caccuresi, che i rintocchi raggiungevano Altilia e Belvedere di Spinello. Il 2 marzo del 1939 in occasione dell’elezione al soglio pontificio di Eugenio Pacelli, papa Pio XII°, dopo qualche oscillazione all'improvviso si staccò il battaglio che finì su di un tetto di una casa di fronte il campanile sfondandolo. Da allora, per motivi di sicurezza, si pose fine a questa antichissima tradizione, ma il suono armonioso delle campane di Santa Maria delle Grazie, suonate magistralmente dal compianto Alfredo Rao, sagrestano della parrocchia, o da altri maestri campanari, specialmente in ocacsione di festività solenni, fu udito fino agli ultimi decenni del secolo scorso. 
 FARFALLE E UPUPA NEL CULTO DEI MORTI CACCURESI 
                                                   
 MATRIMONI E VISCUVATI RE LU CELU SU' CALATI 
 
    
            Si sa, "Matrimoni e vIscuvati re lu celu su' calati",
            ma  le ragazze caccuresi in età di marito, nei secoli scorsi,
            avevano un sistema infallibile per sapere in anticipo che tipo di marito
            era loro destinato: quando volevano conoscere la sorte nuziale che
            le attendeva, gettavano  per strada una pietruzza e, dalla
            "meza porta"  guardavano attentamente il primo uomo
            che passava. Se era un contadino quella ragazza avrebbe sposato
            sicuramente un contadino, se passava un artigiano, sicuramente
            sarebbe stato un artigiano a portarla all’altare e così via.  |