C’era una volta un padrone molto democratico che
a gennaio, quando assumeva una squadra di braccianti per zappare
il suo vastissimo vigneto condivideva la fatica con i lavoratori che si
spezzavano la schiena dieci ore al giorno con una zappa di 40 centimetri
che quando l’affondavi nel terreno per rivoltare la zolla sembrava la
benna di un escavatore.
La sua condivisione consisteva nello stare tutto il giorno alle
soalle degli zappatori per controllare che non prendessero fiato o che
non affondassero completamente la zappa
nel terreno, una fatica che lo faceva sudare più degli stessi
braccianti.
A mezzogiorno poi, nel corso di una breve pausa con i secondi
contati, condivideva con i lavoratori pure il pranzo tanto per
controllare che non ci mettessero troppo tempo e riprendessero il lavoro
al più presto possibile. Ovviamente condividere il pranzo non significa
dividere il suo cibo con i braccianti
perché quando aprivano “ ‘e spise(1)”
ognuno
mangiava quel
che si portava da casa, soprattutto il padrone. D’altra parte a quei
tempi ‘a spisa dei braccianti era assai frugale: un
tozzo di pane, un pomodoro condito con un pizzico di sale, un pugno di
olive secche e, per i più fortunati, una fettina di lardo crudo che
mangiavano rassegnati
figuriamoci con quale gioia. C’erano quelli che non potevano
permettersi neanche queste “leccornìe” e nel tovagliolo di lino
annodato ai quattro vertici nascondevano una pietra per far vedere che
anche loro consumavano il pasto come i cristiani, anche se di nascosto,
lontani da occhi indiscreti. A questo punto il padrone imprecava contro
la moglie che gli aveva preparato la colazione: “Ma è possibile che
mia moglie mi prepari sempre le stesse cose? Pozzu fare ‘sta vita io,
tutti i jorni casucavallo e ova?” Ovviamente si guardava bene dal dire
ai uno di quei fortunati lavoratore “Te, piate ‘na fella ‘e
casucavallu e ‘sta frittata e damme ‘nu pomaroru e ‘na felluzza
‘e ‘stu salatu piatu ‘e ru granciu(2).”
Questi erano i padroni di una volta, non molto diversi da quelli
di oggi perché la razza padrona non cambia mai; schiavisti che, oltre a
sfruttare i lavoratori, li sfottevano pure. A volte, però, capitava che
qualche contadino dal cervello fino si prendesse comunque gioco di
questa malarazza.
Mi
raccontava mio suocero che una volta al suo paese c’era uno di questi
signori, forse un po’, ma solo un pochino meno canaglia di quello del
“casicavallu e ova” che addirittura “passava le spise(3)”
ai mietitori che nella calura di luglio falciavano il grano. Un giorno
mise in tavola del prosciutto salato affettato e un bel po’ di
cipolle.
Quando
i lavoratori stavano per iniziare a mangiare cominciò a tessere le lodi
alla cipolla, alla sua freschezza, al suo sapore, agli effetti benefici
sulla salute spingendosi ad affermare che lui la preferiva di gran lunga
al prosciutto che a suo dire era un cibo per i palati rozzi. Un ingenuo
bracciante, capita l’antifona, allungò rassegnato la mano per
afferrare una cipolla, ma un suo compagno gli assestò un colpo tremendo
sul polso con dorso della mano: “Lassa stare ‘a cipulla ca piaciari
allu patrune, sostumantu, manciate ‘u prisuttu!”
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