Riflessioni sul dialetto

 

  Girando per il paese mi capita sovente di cogliere frammenti di conversazioni tra premurose mamme intente a insegnare ai figlioletti  la lingua italiana, molte volte in un italiano corretto, altre volte in una lingua che è la traduzione letterale dal dialetto all'italiano. Se, ad esempio, traduco letteralmente   "Vaju   addue nanna", ottengo una frase in un italiano bastardo che suona: "Vado dove la nonna" perché in dialetto, invece della preposizione articolata "dalla", adoperiamo l'avverbio di luogo "dove."  Bene, frasi come questa, non solo mi è capitato di sentirle centinaia di volte, ma mi hanno procurato anche un sacco di lavoro come maestro  per correggere qualche mio alunno che le pronunciava. Nel nostro dialetto facciamo un uso molto diverso delle preposizioni semplici o articolate, rispetto alla lingua italiana. Ad esempio diciamo  "Vaju alla cchjiesia", mentre in italiano si usa "in", "Luigi è ricotu alla casa",  con la preposizione articolata mentre in italiano usiamo quella semplice: "Luigi è tornato a casa." La stessa cosa vale per i verbi. Molti verbi che in italiano sono  transitivi, in dialetto diventano intransitivi o viceversa per cui non è possibile una traduzione letterale dal dialetto all'italiano, così come non è mai possibile anche dall'italiano in altre lingue. Questo, però, non significa che la nostra lingua materna sia un qualcosa da buttare, anzi la sua conoscenza, essendo il dialetto il prodotto dell'incontro, nell'Italia meridionale e, in Calabria in particolare,  di decine e decine di civiltà, costituisce un cospicuo patrimonio di conoscenza che ha affascinato grandi studiosi, anche stranieri, a partire dal Rohlfs.     Francamente non riesco a capire per quali ragioni i genitori d'oggi siano così restii ad insegnare ai loro figli il nostro dialetto  (una lingua così bella, così ricca, così varia, con una potenza espressiva impressionante), come se la sua conoscenza, in aggiunta  all'italiano che impareranno poi a scuola, negli uffici, guardando la  televisione, navigando in internet, portasse ad un impoverimento e non, viceversa, ad un arricchimento culturale.
   Spesso mi capita di riflettere su alcuni verbi, alcuni aggettivi, alcuni costrutti verbali dialettali che mi fanno innamorare, sempre più, di questa nostra meravigliosa lingua. Nei prossimi giorni cercherò di "appuntare" queste mie riflessioni su questa pagina.

                   ZIMMELLI

   

   Cari giovani caccuresi, avete mai sentito la parola "zimmelli?" Mi auguro di si perché questo significherebbe che c'è ancora gente che la usa e la tramanda alle giovani generazioni. E' un bellissimo sostantivo usato anche in modo un po' scherzoso per indicare suppellettili, oggetti dismessi o anche ancora in uso, materiali vari che ci creano un po' di ingombro, cose che magari potremmo anche non utilizzare, ma che per un motivo o per l'altro ci teniamo ancora in casa. Per esempio, la mia soffitta è piena di zimmelli e anche la cantina e la baracca laboratorio di Zifarell, anche perché c'è chi me ne porta sempre di nuovi.

                    BUSJETTU

    Come per le specie in estinzione dovrebbe esserci una sezione del WWF che si interessasse anche dell'estinzione dei dialetti o perlomeno di alcuni aggettivi, sostantivi, modi di dire dei nostri dialetti. Difficilmente ai nostri nipoti nati all'estero o in Padania i nostri figli insegneranno i nostri dialetti, così, a meno che non nascano altri Rholfs, le lingue locali si estingueranno; già è a serio rischio l'italiano grazie ai giornalisti e ai conduttori e alle conduttrici delle televisioni pubbliche e private, figuriamoci il caccurese o il calabrese. 
    Oggi mi è tornato alla mente il sostantivo "busjettu" col quale da fanciulli apostrofavamo certi nostri compagni che avevano la fortuna di essere nati in famiglie agiate e di mangiare più volte al giorno, un vocabolo che non sento più sulla bocca dei caccuresi da decenni.  Per capire il significato basta guardare questo dipinto di Botero. 'U busjettu è una persona bassa e grassoccia come il figlio del marchese Gonzaga del film Porgi l'altra guancia." Di solito i busjetti sono bonaccioni e paciosi, ma se ne incontrano anche di quelli incattiviti, soprattutto quelli adulti. 

 

               'A SCIPPA E L'ANTU

Doppu ‘na jurnatazza re zappune,

all’antu ‘e ru patrune, ‘ntra ‘na vigna,

zu Roccu ha pezziatu ‘nu zippune,

ha priparatu ‘nu collatu ‘e ligna,

e, doppo chi ha aracquatu l’orticellu,
l’ha carricatu supra ‘u ciucciarellu.

 ('E malatie 'e Rislulia di peppino Marino)

   Tra i sostantivi ereditati dalla civiltà contadina ormai quasi scomparsi dal nostro dialetto, anche per la scomparsa di molte attività agricole voglio oggi ricordarne due: antu e scippa. 'A scippa era lo scasso profondo del terreno per l'impianto di un nuovo vigneto. Oggi lo si fa con gli escavatori, ma una volta era i lavoro più pesante e massacrante per i poveri contadini che lo facevano con zappe lunghe una quarantina di centimetri che affondavano completamente nel terreno per rivoltarlo. L'antu era invece il fronte, l'avanzamento , una linea retta immaginaria di fronte la squadra di zappatori che segnava il limite tra il terreno già zappato e quello ancora "margiu", cioè non zappato. 

PIETRE CACCURESI

17 gennaio 2024

   Nella giornata dei dialetti non poteva mancare una riflessione, anzi un omaggio alla nostra lingua caccurese. Lo faccio palando delle pietre. 
   A Caccuri la pietra può essere 'nu cantaune, 'nu timpaune, 'na cantunera, nu mazzacane, 'na cuticchjia, 'na cuticchjiella, 'nu cuticchjiune, 'na 'ntacciatura,  'na savurra, 'na savurrella, 'nu petrillu, 'na chiattella, tanto per citare solo alcuni sostantivi che indicano la forma e la dimensione di una pietra. 

 

PESSULI



   Nel nostro dialetto esiste un bellissimo sostantivo per indicare i trucioli di legno o le scaglie del tronco degli alberi: pessuli. Una volta le botteghe dei falegnami erano piene di pessuli e di rocciuli, i riccioli del legno che si producevano quando il maestro usava il pialletto o la pialla a mano; oggi è già tanto se ci trovi un po' di segatura e i vecchi marrurasci ormai sono diventati una sorta di assemblatori di tavole e assi già preparati dall'industria che non necessitano di essere piallati o "sgrossati" con l'ascia. 
P.S.
Stamattina, giusto per curare i miei dolori, ho prodotto un bel po' di pessuli  sdradicando una ceppaia, pessuli che nei prossimi giorni finiranno nel termo camino  per produrre calore e acqua calda. 

CRETTU

 



   Oggi mi è tornato alla mente quest'aggettivo del dialetto arcaico ormai quasi scomparso dalla parlata corrente. Il suo significato è poco cotto, immangiabile: Così se sentiamo dire che i fagioli o i ceci sono cretti significa che sono stati tolti dal fuoco troppo presto. Ovviamente l'aggettivo può essere riferito, e lo si fa spesso, anche alle persone per dire che un uomo crettu è praticamente una sagoma con la quale è inutile discutere, tanto non capirà mai niente perché, appunto, è crettu. 

 

                                        GORGIA - GE

  Oggi la mia riflessione sul dialetto riguarda un sostantivo del quale ho già parlato tempo fa in un altro contesto. Anche questa parola oramai è usata pochissimo dai caccuresi sostituita da quella italiana "dialettizzata." 'A gorgia è la branchia del pesce, ma detto per gli umani caccuresi è un sinonimo di gola. Gorgia però viene usata prevalentemente per dire che uno si sgola, urla o semplicemente ripete ossessivamente ( He fattu 'e gorge) una cosa a qualcuno duro d'orecchio, restio ad ascoltare i buoni consigli.

 

                                              'NGNIMARE, 'NGUMARE, 'NGULLARE



   Ecco tre bellissimi verbi del nostro dialetto probabilmente destinati a sparire delle nostre conversazioni come tanti altri vocaboli arcaici che nessuno usa più. Si somigliano un po', ma significano cose molto diverse tra loro. Il primo corrisponde all'italiano imbastire, l'operazione tipica del sarto che unisce provvisoriamente due pezzi di stoffa con lunghi punti che poi saranno sostituiti dalla cucitura definitiva, il secondo al verbo italiano rimarginare (detto di ferita o anche ricrescita di un osso dopo una frattura), il terzo, infine, significa impuntarsi, intestardirsi. 

 

                       FURGATA

16 gennaio

  Domani si celebra la “Giornata nazionale del dialetto e delle lingue locali”, istituita molto opportunamente nel 2013 dall'Unione Nazionale delle Pro Loco per salvaguardare e valorizzare le lingue locali impropriamente definite dialetti, strumenti potentissimi che, non solo hanno consentito a miliardi di individui appartenenti a comunità sparse per il pianeta di comunicare tra loro, ma sono state determinanti nella produzione di un patrimonio di conoscenze, di riti, di tradizioni, di credenze religiose, di storia locale nel quale ogni comunità si identifica.
   Personalmente sono sempre stato un cultore del mio dialetto che ho sempre usato in famiglia, anche in presenza di amici non calabresi guadagnandomi i rimbrotti di mia moglie, nel mio paese e per dar vita a qualche poesiola o canzone inserita in qualche mio  spettacolino, ma amo alla follia la lingua napoletana, per secoli lingua ufficiale nelle cancellerie europee e con la quale sono stati creati capolavori musicali e opere teatrali che hanno conquistato il mondo, di quella siciliana e di tante altre usate nella Penisola. 
  In questa importante ricorrenza non poteva mancare una riflessione su un sostantivo caccurese ormai poco usato: furgata. La furgata è un evento improvviso che può riguardare l'agire umano, per esempio l'improvvisa decisione di di fare qualcosa che avevamo rimandato più volte o anche naturale come, ad esempio, un improvviso colpo di vento. appunto " 'na furgata 'e ventu."

 

                     OCCHJI E RINARI

      Oggi vi regalo un bel proverbio frutto della saggezza dei nostri antenati: 
"
Occhji cacciati e rinari 'mprestati 'un tonanu cchjiu duve su' stati. "
Tenetelo bene a mente. 

                                    ABBUSCARE 'NA RUSELLA



    "Chi vo' abbuscàre 'na rusella, quannu te ricogli? C'ha' abbuscàtu 'na rusella? (detto a chi tarda più del dovuto in un posto)" Chissà chi ha più o meno la mia età quante volte avrà sentito queste invettive che le nostre mamme o qualcuno della famiglia o anche solo un amico ci lanciavano nel secolo scorso? Difficile stabilire l'origine dell'espressione, relativamente più semplice spiegarsene il significato. "Abbuscàre 'a rusella" in senso figurato significa subire un qualcosa di poco piacevole, passare un guaio per cui "Chi vo' abbuscàre na rusella" equivale più o meno all'italiano "Mal te ne colga." Le ruselle, come sa bene la stragrande maggioranza dei cittadini della Calabria Ultra e di quella Citra. sono le caldarroste che vengono arrostite in una padella bucherellata che prende il nome di rusellàra. Da qui la terribile minaccia: "Te fazzu 'na rusellàra, ovvero ti riempio di buchi. 

                                ZICU E GUTTU



   Ascoltavo domenica mattina l'ottimo prof. Sabatini che a Uno Mattina ci spiegava come di declina nei vari dialetti italiani l'avverbio poco sottolineando la fantasia, la creatività, la vitalità delle nostre lingue locali. Si passava da 'nticchia a tantichia e tanti altri ancora. Allora mi sono ricordato che anche nella lingua caccurese ce ne sono due molto interessanti: zicu e guttu. 
  Guttu, un tempo molto usato soprattutto a Santa Rania, deriva dal latino "gutta", goccia, infatti veniva indicato originariamente per indicare una piccola piccola quantità di liquido: " 'nu guttu 'e cafè, 'nu guttu 'e vinu." Di zicu, molto usato nel caccurese arcaico, mi è ignota l'origine, ma ancora oggi mi capita di dire " 'nu zicu 'e pane, 'nu zicu 'è pasta, 'nu zicu 'e zuccaru." 

                            

                               ‘NTRICARE ‘U VILLICU

  ‘A majilla nel nostro dialetto indica la madia quel cassettone nel quale le nostre nonne, ma anche le nostre mamme fino a una cinquantina di anni fa impastavano e “scanavano” cioè preparavano  le forme di pane sa infornare. Per impastare il pane ovviamente si appoggiavano col ventre al bordo della madia più o meno all’altezza dell’ombellico per il grembiule (‘u sinale) si sporcava ( se ‘ntricava) di farina. Da qui la metafora caccurese ‘ntricare ‘u villicu alla mailla.
Ne parlavamo qualche sera fa con l’amico e compagno Peppino Noce, anche lui cultore e custode del nostro dialetto e della nostra cultura mi ricordava.  La metafora, in senso negativo, veniva adoperata dai genitori delle ragazze che si innamoravano di qualche “pelle ‘e lupu”, qualche scansafatiche buono a nulla che le avrebbe fatte morire di fame: Chissu ‘un tu fa ‘ntricare ‘u villicu alla majilla, ovvero non è capace di procurare la farina per impastare il pane, ti farà morire di fame.

ACCUCCHJIA VILLICHI

Accucchjia villichi è una bellissima metafora caccurese per definire i sensali di matrimoni, quelle persone che si adoperavano per favorire l'incontro tra i giovani per combinare un matrimonio, che magari "portavano 'a 'mmasciata", insomma un mezzano o una mezzana come ne esistevano tanti un secolo fa. Accucchjia villichi, infatti, letteralmente significa "uno che avvicina, accoppia gli ombellichi". 

                                        ACCUNTU MUSCIU



  Chi dice che i dialetti sono lingue morte o destinate a morire dice una sciocchezza. I dialetti sono lingue vive, che non morranno mai, magari si contaminano, si rinnovano, si infiltrano in altre lingue ma non muoiono mai. Ne volete una prova?  Chi poteva immaginare che un'antica espressione del nostro dialetto venisse ripresa dall'inglese, addirittura dall'informatica? Eppure è accaduto. 
  "Accuntu musciu" in caccurese è una seccatura imprevista, un'incresciosa incombenza, una fastidiosa pratica che dobbiamo evadere, ma della quale avremmo fatto volentieri a meno, un accuntu musciu, appunto. Accuntu in informatica diventa account, un nome utente, un profilo, una casella e mal sul quale operiamo per accedere ad alcuni servizi. Se una volta creato non lo usiamo o lo usiamo raramente diventa un account musciu, cioè fiacco, inservibile, inutile: 'naccuntu musciu, insomma. 

 

                   'A SASSULA E L'ECATOMBE DELLE BOTTEGUCCE

   Ho chiesto per gioco ai miei nipotini se conoscono  questo oggetto e se per caso sanno anche come si chiama. Per scherzo, ovviamente, perché non solo non possono conoscerlo loro, ma probabilmente anche quelli che hanno meno di 60 anni,  salvo qualche rarissima eccezione. Si tratta, infatti, di un utensile delle vecchie bottegucce di generi alimentari e dei mugnai sparito assieme a questi piccoli esercizi commerciali specializzati, sostituiti da supermercati e  ipermercati che traboccano merci di ogni genere dove compri l'acido muriatico assieme al salame, gli accessori per auto assieme alla marmellata, il pane fresco assieme alle scarpe ortopediche e anche se hai sotto gli occhi il prodotto che devi comprare,  non riesci a vederlo confuso tra migliaia di altre cianfrusaglie e non trovi un commesso per chiedergli aiuto nemmeno a spararti. Intanto assieme alle botteghe sono spariti i bottegai, si sono chiuse migliaia di porte, rimosse migliaia di insegne e i paesi si sono trasformati in cimiteri.
   Scusate la divagazione: l'oggetto si chiamava "sassula" (mi sfugge il nome in italiano) e serviva per riempire buste e sacchi di alimenti sfusi come lo zucchero, la farina o la pasta corta. 

 

           JIRE ALL'ACQUA CU' LI FISCINI

   Sembra incredibile, eppure ancora oggi c'è gente chi va all'acqua cu' li fiscini che poi sarebbe una variante di " 'a fatiga 'e ra magarella", la tela del ragno, ovvero fare qualcosa di completamente inutile. Jire all'acqua cu' li fiscini infatti significa andare a far provvista di acqua con i particolari cesti di vimini che venivano legati al basto delle cavalcature per trasportare ortaggi e frutta, non certo liquidi. Oddio, ogni tanto capita che gente incapace di misurarsi e presa da delirio di onnipotenza ci provi, ma la figura barbina a quel punto è inevitabile. 

OHI CECè

Dedicata a tanti politici e capizzuni dei nostri giorni

Ohi Cecè, ohi Cecè
era zinzula e mo si' rre,
ma si 'a ventarola vota
torni zinzula n'atra vota!

E poi ditemi se i nostri nonno non erano grandi filosofi!

 

C'E PASSATU SAN GIUSEPPE CU' LU CHJIANOZZULU





 
I nostri antenati caccuresi sapevano anche essere perfidi nei loro sfottò, come questo che oggi verrebbe considerato un insulto sessista, anche se per i nostri nonni era solo una innocente battuta "C'è passatu san Giuseppe cu' lu chjianozzulu", ovvero "c'è passato san Giuseppe col pialletto", riferita alle ragazze con una misura ridotta di seno. Non me ne vogliano le femministe, ma anche questa è cultura, patrimonio linguistico da tramandare. 

 

CANCIARE PILATURA

   Stamatina 'stu quatru 'e ortu ha canciatu pilatura: alle 8 era 'n erbinaru, all'una era già lavuratu, 'nzurcatu e chjiantatu.  "Canciare pilatura: quante volte abbiamo sentito nel corso della nostra vita questa espressione adoperata per sottolineare un cambiamento in meglio dell'aspetto di una persona o anche di una cosa come nel caso " 'e ru quatru 'e lortu." Lo diciamo di una persona quando a causa di una malattia o di una vita stentata, di affaticamento, di sofferenza fisica o psicologica si riduce in cattive condizioni e poi, cessata la causa, si riprende e torna alla normalità, cioè "cancia pilatura" o quando ripariamo una casa, ripuliamo il giardino, restauriamo qualcosa. La perifrasi, probabilmente, ha origine dalla muta del pelo a primavera da parte di alcuni animali quando il vecchio pelo viene sostituito dal nuovo più folto e più lucente (le lùcia lu pilu). 

'U PUPPU



   'U puppu è un simpatico sostantivo onomatopeico caccurese quasi scomparso dal nostro dialetto che equivale all'italiano bua. Da bua deriva l'aggettivo puppusu usato per prendere in giro gli ipocondriaci e quelli che si lamentano per un nonnulla, per in graffietto o per due linee di febbre. 

'E MMOTE



   Chissà quanti giovani caccuresi che hanno meno di trent'anni hanno mai sentito questo sostantivo o ne conoscono il significato? Presumo siano pochissimi, sia perché è stato sempre poco usato, sia perché oggi si tende a italianizzare, anzi ad anglicizzare il linguaggio spesso solo per essere "più in." Figuriamoci poi in quest'epoca nella quale, sempre più, le porte e i cancelli si aprono col telecomando! Per i nostalgici del dialetto arcaico, comunque 'e mmote erano gli scatti della serratura (mascatura) a ogni giro di chiave. 


TABBARIàRE

 

     La semina autunnale che mi teneva in apprensione è completata e anche il cenone di questa sera di vigilia è quasi pronto. A questo punto non ci resta che tabbariàre fino alle 8 di sera in attesa di sederci a tavola e goderci la notte di Natale, un Natale in tono minore forse senza nemmeno la fòcera per cui potremo tabbariàre anche dopo cena. Bellissimo questo verbo del nostro dialetto; il maestro Camilleri avrebbe detto “tambasiàre”, ma l’origine e il significato sono identici: gironzolare di stanza in stanza senza un motivo preciso, prendersela comoda, perdere o anche prendere tempo. Esiste anche una variante di origine napoletana, papariare che ha lo steso significato e può essere adoperata per esprimere gli stessi concetti, ma a me piace di più l’arcaico “tabbariare”, Quatto sono belli i nostri dialetti!

SCIAGRERI

   Perda cchjiu l’avàru ca ‘u sciagreri. 

Oggi leggendo questo curioso proverbio che fa parte della mia ampia raccolta, mi sono imbattuto in questo aggettivo del dialetto arcaico che non sentivo da almeno 40 anni. 'U sciagreri è un uomo prodigo, uno spendaccione, uno aduso a sperperare i patrimoni per cui non capisco se questo curioso aggettivo non viene più usato perché i giovani non lo  conoscono o perché, in questi tempi grami non c'è proprio niente da sperperare. 

 

VILLICHIÀRE

   Villichiàre è un curioso verbo del nostro dialetto di difficile, se non impossibile traduzione in italiano. Potremmo provare con "piovigginare", ma daremmo un'idea sbagliata di una pioggerellina non certo abbondante, ma nemmeno lontanamente accettabile di questi tempi, direbbe il grande Totò, "che c'è stata una terribile siccità come voi ben sapete, punto, punto e virgola, punto, punto e virgola!". Villichare, infatti, viene da villichu, ombellico, insomma una pioggerellina così impalpabile, leggera, quasi eterea come la carezza di una piuma leggerissima sull'ombellico. In questo momento sta "villichiannu", ma ormai credo che dovremo "acconzarci" (rassegnarci) a una desertificazione quasi sicura. 

'A ZIRRA

       Chissà chi ricorda ancora questo bellissimo sostantivo  e chi magari ne conosce il significato? Credo pochi ormai, o, almeno pochi sono quelli che ancora lo usano.  Ormai non facciamo altro che parlare giargianese, così  tra lockdown, stage, workshop, hair stylist, outlet e via cazzeggiando, figuriamoci se qualcuno ha ancora voglia di usare la nostra bellissima lingua dei padri, il nostro meraviglioso dialetto che con una sola parola a vlte descrive l'universo. Come zirra, appunto.
      Ho provato più volte a trovare un sinonimo italiano col quale sostituire questo meraviglioso termine come bizza, ira, stizza, ma nessuno riesce a rendere completamente l'idea. 'A zirra è quel qualcosa di misterioso, quel senso di angoscia, di malessere, di fastidio che fa piangere inspiegabilmente il bambino, ma che rende intrattabile anche l'adulto, soprattutto dopo la pennichella pomeridiana, fin quando 'un se rissonnari ( esce dallo "stato comatoso" provocato dal sonno) e riprende i suoi giochi e le sue attività. 

 


     'U SPINNU

'U spinnu nel dialetto caccurese è la nostalgia, la voglia di rivedere qualcuno o qualcosa, una persona amata, un amico, un luogo dell'infanzia. Ieri, per esempio, "m' è venutu 'u spinni 'e ra casa e Caccuri" e così sono andato a fare la spesa anche "pe' me cacciaru 'u spinnu e ra casa mia", ma dopo due minuti è tornato  'u spinnu 'e ri Zifarelli. 

     'A PRESCIA SANTA

       Quante volte vi siete sentiti dire: "Ca poi jistimi 'a prescia santa?" Chissà quanti ragazzi caccuresi oggi conoscono il significato di questo ammonimento che corrisponde più o meno al latino, "fèstina lente" o meglio, ha più o meno lo stesso scopo? Chi ce lo rivolge, infatti, vuole invitarci a riflettere, a non prendere decisoni avventate delle quali poi potremmo pentirci e maledire la fretta (prescia) che ci ha impedito di ragionare. 

Sulligàre

   Oggi legando alcune viti mi sono tornati alla mente i verbi e i sostantivi caccuresi relativi alla coltivazione di questa pianta tra le più antiche conosciute dall'uomo e diffusa su vaste aree della terra: da scippa, lo scasso profondo del terreno che si fa quanto si impianta un vigneto,  a rifunnere (zappare in profondità il terreno intorno alla vite per asportarne le radici superficiali) a 'nzuffrare, a sbitignare, a sulligare. 
   Quest'ultimo verbo, che non so se esista anche nei dialetti dei paesi vicini e della regione,
ha il pregio di esprimere un'azione precisa evitando inutili giri di parole per indicare ciò che si sta facendo. E' un verbo composto dal verbo semplice ligare (legare) e dalla preposizione su e significa legare su, più in alto, ovvero la seconda o terza legatura che si fa man mano che la vite si allunga.  

Appizzutàre

    Oggi la riflessione sul dialetto verte si questo belliissimo verbo caccurese che corrisponde all'italiano "appuntire". Gli italiani appuntiscono, i caccuresi appizzutanu, fanno la punta a un palo, a un piolo per conficcarlo nel terreno. Così anch'io oggi "haiu appizzutato" un po' di pali per sostegno alle viti.

Acqua 'e maiu



   Una bella pioggia nel mese di maggio, soprattutto se "fatta con giudizio", col cielo completamente coperto, magari di notte e con sole che ricompare solo il giorno dopo o, comunque dopo molte ore, è appunto, come dicevano i nostri vecchi, " 'n' acqua 'e maiu", un dono del cielo, una cosa utile, gradita che arriva al momento giusto. E' esattamente questo il significato di questa espressione caccurese che, fortunatamente,  ci capita ancora  di sentire spesso.

Superiscere

 



    
Rileggendo l'orazione della Quindicina gli occhi mi sono caduti su un curioso verbo del dialetto arcaico che in vita mia avrò sentito non più di tre - quattro volte: superiscere. 
"Grazie Segnure e tante benedizione pe’ quantu gucce ‘e acqua c’è su’ allu mari finu a chi ‘e benedizioni superiscianu tutti i peccati chi ce su’ 'a terra".  Per chi conosce il caccurese il significato è abbastanza chiaro. "E che le benedizioni superino tutti i peccati", sono molto più abbondanti, ma, da almeno cinquant'anni il verbo arcaico è stato sostituito dall'italianizzato "superare" o, in alternativa, da "supravanzare."  A me l'antico piace, non so a voi. 

Arrecare



   Oggi ci interessiamo di un curioso verbo caccurese che sembrerebbe italiano, ma che nel nostro idioma ha un sigificato completamente diverso.  Arrecàre, nel dialetto caccurese, ma penso anche in quelli di altri paesi, si riferisce alla caduta a terra generalizzata di un  prodotto agricolo  ormai maturo dall'albero: "L'alive su' arrecate", "I pira su' arrecati", "'E castagne su' arrecate" e così via. 

Peritrozzulu

    "Stanotte sentìa 'nu peritrozzulu a via va chi 'un m'ha fattu rormere." Una volta era facile sentire un brano di conversazione come questo, ma oggi è difficilissimo, oggi si usa un dialetto italianizzato al massimo si dirà "sentia ancunu caminare". Già, ma cos'è " 'nu peritrozzulu" (il gruppo tr si pronuncia più o meno come nella parola inglese three)? Semplice, è il rumore di passi, l'andare avanti e indietro nel buio o di primo mattino. Bellissimo questo sostantivo.

Rimmargiare



   
Rimmargiare è un verbo caccurese che potremmo tradurre con devastare, sconvolgere, rendere qualcosa inservibile. Da rimmargiare deriva il sostantivo rimmargiu adoperato anche come sinonimo di persona adusa a far danni. Insomma un bel verbo come tutti quelli del nostro bellisismo idioma.  


E necàru!

      Ecco un'altra espressione caccurese curiosa che non so se è usata anche in altri dialetti della zona essendo ormai quasi in disuso.  Viene usata in diversi contesti, ma il significato è più o meno lo stesso: "menomale, per fortuna, è andata anche bene." La si usa, per esempio, dopo una calamità naturale dopo una grandinata che distrugge un raccolto ( e necàru ca ce su' rimasti l'arbuli", dopo un incidente d'auto che danneggia gravemente il veicolo( e necàru ca un se fattu nente illu), insomma dopo ogni fatto che poteva avere conseguenze ancora più gravi che, per fortuna, non ci sono state. Bellissimo, ricchissimo, da amare profondamente il nostro dialetto.


Ammaruciare

Stamatina haiu ammaruciatu na zapparella. A qualcuno di voi è mai capitato? E soprattutto, mi riferisco ai ragazzi, sapete cos'è un maruciu? Credo di no, visto che oggi il sostantivo arcaico viene sostituito da manico, senz'altro più moderno, ma, forse, meno bello. 

Suffràina

  "Tegnu nu rulure 'ntra suffràina": Chissà quanti ventenni (ma forse anche trentenni) caccuresi sono oggi in grado di tradurre questa frase? Mi auguro che siano tantissimi, ma ne dubito. Quale genitore oggi si prende la briga di raccontare al figlio o alla figlia che i nostri nonni chiamavano il fianco suffraina, un sostantivo del dialetto arcaico ormai quasi scomparso. A me, però, piace usarlo, magari come effetto speciale col quale stupire i ragazzi. Si scherza, ovviamente.  


Trinchillinu

    Alzino la mano i ragazzi caccuresi che conoscono questo curioso aggettivo e i miei coetanei ai quali ogni tanto torna in mente. Quante volte da fanciulli abbiamo rivolto questo epiteto ai nostri compagni per deriderli o magari abbiamo descritto così, sbrigativamente, con questo solo aggettivo le caratteristiche fisiche di una persona? Quando davamo del "trinchillino" a qualcuno volevamo intendere che si trattava di una persona esile, gracile, che non avrebbe mai attaccato briga e che quindi costituiva alcun pericolo. Chissà se i nostri fanciulli useranno ancora in futuro questa parola, ammesso che fra qualche anno ci siano ancora fanciulli visto che per fare un corso completo alle elementari e alle medie a momenti bisogna unificare le scuole di tre paesi


Tricupiare

   Questo  verbo è una variante di "tricare"  che si pronuncia come l'inglese thre e significa tardare. Tricupiare, però ha un qualcosina in più infatti significa attardarsi volutamente in un posto, magari per seguire un qualcosa che ci interessa e vedere come va a finire o anche "sono costretto ad attardarmi a causa di qualche imprevisto" Insomma un altro verbo bellissimo. 


'Ntoppàre

    Oggi voglio deliziare gli amici visitatori de L'Isola Amena con questo bellisismo verbo che è presente sia nella lingua napoletana, sia in altre lingue locali calabresi e meridionali, anche se con significati differenti, Innanzi tutto va detto che la bellezza di questo verbo sta anche nella pronuncia molto chiusa della "a" che solo un caccurese riesce a produrre, poi nel significato che non è quello di "mettere una toppa" come in altri paesi della Calabria o "imbattersi, incontrare", ma "capitare in un luogo, sbucare con passo felpato, arrivare per caso".  Peccato che oggi sia scomparso dalle conversazioni tra giovani caccuresi. 

Mentre ogne tantu, là, allu viveri

‘ntoppava’ zu Giuvanni re Rizzeri.
da "I Cruci 'e 'na vota" di G. Marino


'A gallera

“E’ carutu ‘u zoppu alla gallera” e la variante “ E’ arrivatu ‘u zoppu alla gallera” sono due espressioni metaforiche del nostro dialetto delle quali conosco il significato, ma non so spiegarmi le origini. Sarei davvero grato se qualche amico volesse aiutarmi in questa ricerca. Le due farsi significano praticamente “Sei arrivato dove ti aspettavo”, “qui mi cascò l’asino”, “Finalmente ti ci sei rotto la testa”, “finalmente l’hai capita”,  ma se il senso metaforico di “zoppu”, lo zoppo, colui che zoppica (anche nel modo di ragionare e nel comprendere le cose), quello di “gallera” mi è davvero oscuro. Peccato che gli intellettuali caccuresi del secolo scorso non si siano mai presi la briga di indagare e, soprattutto, di scrivere e tramandare questo prezioso patrimonio.

 

'N carriggiola

     

  
Alzi la mano chi di voi non è mai stato portato 'n carriggiola come dicevano i nostri nonni e i nostri genitori adoperando questa bellisisma espressione del nostro dialetto che corrisponde all'italiano " a cavalluccio."  Speriamo che non vada perduta come altri sostantivi, aggettivi e modi di dire della nostra "lingua materna". 

Cropa


  
Oggi mi sono ricordato di questo curioso aggettivo che, probabilmente, esiste solo nel dialetto caccurese o di qualche altro paese vicino. In Sicilia, ad esempio, cropa è un sostantivo che significa "una manata di spine", mentre in altri posti è una polenta tipica. A Caccuri la cropa è una sagoma, un sempliciotto, una persona "dolce di sale" detto in tono scherzoso e affettuoso.  


'N cruci e nuci



  
  C'è nel nostro dialetto caccurese questa curiosa espressione che, comunque, ha un significato diverso da quelli di altri dialetti della regione. 'N cruci e nuci significa letteralmente "Sulle croci e sulle noci",. ma il significato reale è fare le cose in modo disordinato, scriteriato, alla carlona. L'esempio più classico è quello dell'accatastamento della legna in modo precario, instabile, alal rinfusa. " 'N cruci e nuci", appunto. 


Ccu' cioti e valluni 'un piare 'mpignu.



  
Questo antico proverbio, vero e proprio condensato di saggezza e di rassegnazione, è ancora abbastanza conosciuto. In italiano potrebbe essere tradotto pressappoco così: " Non incaponirti a cercare influire sul comportamento dei cretini e sul corso dei torrenti" perché sarebbe solo tempo sprecato. Difficile far ragionare un cretino così com'è difficile imbrigliare il corso di un impetuoso torrente, una fiumara calabrese che per decenni rimane in secca, ma, che in caso di precipitazioni abbondanti straripa da ogni dove devastando abitazioni, coltivazioni, opifici vai che uomini stolti costruiscono sulle sue rive se non addirittura nel greto. Sembra scritto di proposito per questi tempi infami nei quali centinaia di imbecilli si improvvisano politici o imbonitori o l'una cosa e l'altra e altre migliaio di altri imbecilli credono acriticamente alle loro fandonie e nei quali canali, torrenti, fiumi straripano distruggendo tutto ciò che l'uomo ha stupidamente e abusivamente costruito sulle sponde e nell'alvo del corso d'acqua senza pensare minimamente che "cu' cioti e valluni 'un s'ha de piare 'mpignu."

 

Vurdunàra



    
La nostra amica Rosanna Spina mi chiede se questo sostantivo del dialetto arcaico ha qualche riferimento alla località Virdò (Vurdoy in sangiovannese). Confesso che non ho una conoscenza approfondita di questo termine, ma mi pare di ricordare che i miei nonni lo usavano come sinonimo di fullunera (da fullune). Vurdunèra deriva sicuramente da vurdune che, a sua volta potrebbe essere il corrispondente dialettale di borzone o vèrtula (bisaccia) e 'u vurdune  un contenitore nel quale venivano stipati oggetti,  biancheria e altro per cui 'a vurdunàra era la donna che aveva la tendenza a conservare, magari anche disordinatamente le cose come 'a fullunàra, la donna abituata a 'nfullunare, cioè a conservare quasi nascondendo le cose, ma in modo disordinato come in un  povero giaciglio ('u fullune) arrangiato con stracci vecchi alla rinfusa. Debbo dire, però, onestamente, che queste note in questo caso si basano scordi lontani e confusi per cui potrei ave scritto anche delle inesattezze che qualche amico cultore del dialetto potrebbe facilmente correggere. 


Agliuttu - cafulliare

    La riflessione di oggi verte su un sostantivo e un verbo caccurese che spesso vengono adoperati insieme per definire più o meno scherzosamente un modo particolare di mangiare. Diciamo subito che agliuttu è un aggettivo napoletano che corrisponde all'italiano ghiotto, ma che in caccurese cambia leggermente di significato, anche se non è facile definirlo. Agliuttu in caccurese è mangiare come fanno gli affamati, " a bocca larga", un boccone dopo l'altro, velocemente come di uno che ha una fame arretrata da mesi. "Ahi, cumu manci agliuttu!"  o " 'Un manciare agliuttu ca t'affuchi" si suole dire a mo' di rimprovero a chi "pratica questa specie di sport olimpico", come Totò e Enzo Turco in Miseria e nobiltà. 
   Cafulliare, invece, è il mangiare di buon appetito, alla Bud Spencer, anche di nascosto e magari con qualche senso di colpa, tant'è che il verbo ha anche una leggera venatura di divertito rimprovero. Più venato di cattiveria è, invece, un altro verbo che ha più o meno lo stesso significato: lupelliare (mangiare come un lupo). 

Sciammasùna



  
Chi ha più sessant’anni ricorda certamente le galline che razzolavano libere per le strade del paese, almeno nelle zone periferiche e nel rione Croci non ancora completamente urbanizzato. Ogni famiglia aveva il suo gallinaru nel quale la sera rinchiudeva le proprie galline che poi, al mattino presto, le massaie provvedevano a liberare dopo aver gettato loro un pugno di avena, di orzo, o infilato nel pollaio una ciotola di canigliata ( crusca impastata con acqua). Poi le galline, insaziabili (Si ‘a gallina avissa’ li renti se mancera’ puru ‘a patruna) dovevano procurarsi da sé il cibo per il resto della giornata razzolando nei dintorni. All’imbrunire, tra le tante occupazioni delle nostre povere nonne c’era anche quella di fare ammasunare, cioè far rientrare, le galline nel pollaio.
  Generalmente i volatili facevano ritorno da soli nel loro ricovero, ma a volte qualcuna s’attardava nei pressi impegnata a beccare gli ultimi semini, gli ultimi vermetti mettendo a dura prova la pazienza della padrona e allora la massaia le andava dietro e sollecitandola con dolcezza le diceva “Sciammasù, sciammasù, sciammasuna” un sostantivo composto dalle parole scià adoperata per scacciare le galline e ammasuna, imperativo che significava rientra nel pollaio, vai ad appollaiarti. La gallina capiva al volo (a differenza di molti umani) e rientrava nella baracchetta di tavole o nel piccolo recinto. 
   L’esortazione viene adoperata ancora oggi, anche se molto raramente, per invitare scherzosamente qualcuno a levarsi di torno

'A ragatella

 


 


  
Alzi la mano chi non ha sognato 'na ragatella, il sogno di tutti i fanciulli, ma anche di alcuni adulti a detta della buonanima di mio zio Vincenzo che lo rinfacciava spesso a mia madre, una donna che se ne avesse avuto la possibilità avrebbe viaggiato per tutta la vita. Ma cos'è esattamente la ragatella? Ragatella viene dal verbo arcaico ragàre che significa trasportare, portare qualcosa in qualche posto, ma ragatella significa "essere trasportato", farsi una gitarella a bordo di un mezzo di trasporto come il ragazzo della foto portato a spasso col carrettino dagli altri simpatici ragazzi caccuresi che saluto con affetto. La ragatella, insomma. è il desiderio ancestrale di viaggiare a bordo di qualsiasi mezzo di trasporto, quel desiderio che spinse Ulisse a visitare tutti i paesi del Mediterraneo, la voglia di volare, di evadere, di lasciarsi trasportare. 

 'Mpapazzare



   
Oggi ci occupiamo di questo bellissimo verbo caccurese ancora usato più o meno frequentemente. Nasce, come molti altri, nel mondo contadino, ma poi viene adoperato anche in altre branche dell'attività umana. Il suo significato preciso è riempire un contenitore fino a buon punto, quasi interamente con frutta fresca, olive, castagne o qualcos'altro, detto con compiacimento, quasi con incredulità. Nell'uso comune, infatti, si suol dire "He 'mpapazzatu 'u saccu", "He 'mpapazzatu 'u panuru" etc. Un bel verbo, almeno per noi vecchi caccuresi, un verbo da affidare a una sorta di WWF delle lingue locali, anche se basterebbe parlare il dialetto con i propri figli, almeno in casa, e non in quella lingua artificiale che non è nè dialetto, nè italiano. 

 

Levantina: o ottava o quinnicina



  
Oggi ci occupiamo di due proverbi del mondo contadino di quando i nostri nonni e i nostri bisnonni costruivano la scienza sull'osservazione della natura e dei suoi fenomeni ed erano capaci non solo di formulare le loro previsioni meteorologiche, ma perfino intuire l'andamento della prossima annata agraria,  tenere sotto controllo il corso dei fiumi e dei torrenti, lo stato del terreno, perfino "diramare gli allerta meteo". Il primo recita: "Quannu mina' la levantina, o ottava o quinnicina" e mi è tornato alla mente osservando il tempo di ieri e soprattutto quello di oggi con il paese e le campagne avvolte da un nebbione e i rovesci, anche modesti, si ripetono a intervalli più o meno regolari (Una va e una venari, dicevano i nonni riferendosi alle "botte 'e acqua"). Un tempo d'autunno, finalmente, come non si vedeva da anni, una vera manna per le sorgenti al lumicino da tempo, nonostnate l'insolita primavera piovosa 2018. In pratica il proverbio significa che si tratta di un tempo che dura perché quando le piogge arrivano da sud est (scirocco) si protraggono per otto - quindici giorni. 
  Il secondo, invece, osserva filosoficamente che per ottenere dei buoni raccolti ogni stagione deve fare il suo dovere: "Si 'u vernu 'un vernìa e l'astate 'un statìa amaru 'u zappature chi zappa e chjianta." Credo che non ci sia bisogno di traduzione quanto piuttosto di tributare lodi ai nostri antenati. 

Abbuccàre - Ha chjiunu 'u coppu e l'abbucchi?



  
Oggi ci occupiamo di questo bellissimo verbo caccurese il cui significato preciso è versare distrattamente o maldestramente il contenuto di un recipiente, di solito un liquido, ma anche granaglie o, comunque, qualcosa che poi è difficile se non impossibile recuperare.  Abbuccare l'ogliu, abbuccare 'u vinu, abbuccare 'u sale, abbuccare 'u zuccaru sono esempi di frasi nelle quali lo troviamo usato frequentemente, ma c'è anche un uso proverbiale, pedagogico che si condensa nell'ammonimento - consiglio : "Ha chjinu 'u coppuu e l'abbucchi." Il significato è semplice. Spesso nella vita ci capita, quasi alla fine di un lavoro pesante, noioso, che ci è costato molto, economicamente, ma anche moralmente, di aver voglia di mollare tutto, di pensare che non vale più la pena di continuare, soprattutto nel caso i nostri sacrifici avevano lo scopo di aiutare una persona che poi si rivela ingrata. Ed ecco allora sempre pronto l'amico, un parente, un familiare a ripeterci: "E mo chi fa? Ha chjiunu 'u coppu e l'abbucchi?", ti arrendi proprio quando sei in dirittura d'arrivo, dopo tutto il bene, tutti i favori che gli hai fatto, rinunciando anche a un minimo di gratitudine che potrebbe avere nei tuoi confronti quando oramai ti rimane pochissimo da fare?  

 

Mansu



  
L'aggettivo "mansu" nel nostro dialetto corrisponde all'italiano mansueto, riferito a un animale domestico o, in modo irrisorio, anche elle persone per sottolinearne beffardamente il carattere remissivo. la dipendenza da una persona ( soprattutto dalla moglie domatrice). Fin qui niente di speciale: un animale lo si può rendere mansueto in tanti modi. Il più eclatante è quello che vediamo spesso nei film western, la domesticazione del cavallo, mentre il cane, il gatto, un asino diventano mansueti quando cominciano ad aver fiducia del padrone che dà loro il cibo, li accarezza, non li maltratta. Più difficile, a dire dei nostri nonni, rendere "mansu 'u porcu", addomesticare un maiale selvatico, anche se, nella loro consolidata saggezza, credevano di aver scoperto un metodo infallibile che consisteva nell'invitare i bambini, che potevano permettersi di fare certe cose in pubblico, a compiere una curiosa operazione sulla testa del maiale. La pratica era molto diffusa tanto è vero che, ancora oggi, per ironizzare sulla sottomissione e sulla dipendenza di certe persone da altri soggetti si usa dire ancora: "Para ca t'ha p.... alla capu." Di questi tempi sembrerebbe che la moda sia stata ripresa e utilizzata ampiamente e con profitto da certi politici . 

 

Sbersulàre





 
Ecco un altro bellisismo verbo poco usato anche perché l'azione che indica oramai la si compie raramente e solo da parte di qualche contadino o, soprattutto, dai taglialegna. Sbersulre significa capovolgere,  rivoltare, rovesciare, mettere qualcosa sotto sopra riferito soprattutto ai ceppi di legna. Modi di dire: "He sbersulatu 'nu zippune, He sbersulatu 'na zomma."


Ammalàre - 'Nquirere



 
La riflessione di oggi verte su questo primo verbo che farebbe pensare a quello italiano, ma che nel nostro dialetto ha un significato molto diverso. Ammalare per noi caccuresi non significa prendersi qualche malattia, ma far andare a male qualcosa come un raccolto non fatto per tempo per cui il prodotto è praticamente inutilizzabile o marcito nel terreno  (es. 'E ficu si ce cu' ammalate - L'alive se su' ammalate), ma anche sprecare un qualcosa (es. 'Un ammalare acqua).  Insomma il contrario di " 'nquirere" che significa cercare di recuperare più prodotto posssibile, risparmiare riciclando qualcosa, 


Garafìnu e chiccarellu

   Quante volte vi è capitato di andare alla ricerca 'e 'nu garafinu o che qualcuno vi abbia cercato di fornirgliene uno? Se avete meno di quarant'anni, anche se vi sarà capitato di sentire pronunciare questa strana parola del dialetto arcaico probabilmente non ci avrete capito niente, visto che da quarant'anni a questa parte capita di sentirla sempre più raramente. Noi vorremmo però che questo curioso sostantivo non sparisse definitivamente dalla nostra bellissima lingua per cui lo riproponiamo alla vostra attenzione . 'U garafìnu è un barattolo, un piccolo contenitore di natura imprecisata nel quale riporre provvisoriamente un liquido. Una variante di garafìnu, anche se di dimensioni più ridotte,  è lu chiccarellu, parola anch'essa oramai scomparsa. Per avere un'idea abbastanza precisa di un chiccarellu pensate al tappo a corona di una bibita. 

 

Carroccia



  
Carroccia è un altro bellissimo termine del nostro dialetto arcaico poco conosciuto e poco usato. Difficile darne una definizione precisa per cui verrebbe da dire che la carroccia è una carroccia e basta. ma possiamo rendere l'idea con abbondanza, un grappolone,  un bel po', una gran quantità. Così possiamo avere una carroccia di ciliegie (un grosso grappolo), do pomodori, come nella foto, perfino di goals o "golli" come li chiamavamo da fanciulli quando scorrazzavamo sui campetti di calcio di fortuna. "Vi ne facimu 'na carroccia" era lo sfottò rivolto agli avversari prima o durante una delle tante intermnabili partitelle nella villa comunale, nell'orto del maestro Annibale Cimino, nella palestra all'aperto della scuola elementare o sulla Serra Grande, prima di trasferirci nella piccola valle di Serra del Cucco, la zona più ricca di fossili dell'intero territorio comunale che siamo riusciti incredibilmente a devastare colmandola di materiale di riporto per costruirci il campo sportivo. Speriamo che anche questi bellissimi vocaboli non finiscano sotto tonnellate di oblio. 

Scarpisacchjiu



 E quann'è chi v'aviti 'e fare 'nu bellu scarpuisacchjiu? Io mìu fazzu tutti 'i iorni", perché quando lavori, soprattutto in modo frenetico magari col maltempo che ti costringe ad affrettarti e a intensificare il ritmo, oppure devi trasportare a spalla qualche carico pesante o gli aventi ti obbligano a correre a perdifiato, 'u scapisacchjiu è assicurato. Scarpisacchjiu, faticata, una parola bellissima di questo nostro bellissimo dialetto che dovrebbe diventare patrimonio universale dell'Unesco. 

 

Meriu - Azzaccanu


  
Oggi la riflessione verte su due vocaboli molto usati nel lingUaggio pastorale che oggi si sentono molto raramente anche perché ormai le greggi e gli ovili intorno a Caccuri sono scomparsi.   Il primo, dal latino meridies, è il meriggio delle pecore, la curiosa abitudine ovina di radunarsi nelle ore più calde delle giornate estive in un luogo relativamente fresco, in circolo, addossate le une allE altre probabilmente per usare la lana delle compagne come isolante termico. Il secondo è il rientro di pecore e capre nell'ovile ed è una derivazione della parola zaccanu, presente in molti dialetti calabresi, anche se il Rolfs restringe il campo alle zone aspromontane e deriva dall'arabo sakam, recinto.  Azzaccanare si usa anche in modo scherzoso riferito alle persone. "Me vaiu azzaccanu" è un modo scherzoso per dire "Vado a letto" o mi ritiro in casa. 
 

Sciolla - Sciollàre

  Sciòlla è un sostantivo che, assieme al verbo sciollàre è ancora abbastanza usato nelle conversazioni tra caccuresi. Il termine significa dirupo, zona scoscesa, erosa dagli agenti atmosferici e in precarie condizioni idrogeologiche per cui soggetta a franare. Sciollàre quindi significa fare franare, abbattere, demolire un rudere, ma anche in senso figurato rompere un matrimonio, una società, venir meno a un patto. Nel nostro territorio ci sono diverse sciolle tra le quali le Sciolle di Campodimanna, come viene indicata anche nelle carte topografiche la zona sulla destra del Neto  a valle di Carelli in agro di San Giovanni in Fiore. 


 'A puta

    'A puta, da non confondere assolutamente col noto sostantivo spagnolo, è un termine caccurese col quale si indica la mossa vincente nella lotta libera o un trucco per risolvere qualche problema manuale  che ci rende imbranati. All'improvviso arriva un amico e con un piccolo trucco ( 'a puta) riesce a fare quello che noi non siamo riusciti a fare.  Allora è normale che gli si dica: "Ah, ma tu ce sa' 'a puta?"  Insomma "sapire 'a puta" è molto importante in ogni circostanza e ci facilita la vita.


   Ecco un altro bellissimo, magico verbo caccurese che oramai si sente poco, anche perché, avendo abbandonato le terre, oramai c'è poco o niente da scummintere.  Dicevamo un verbo magico e lo è perché procurava contemporaneamente, al contadino e al resto della sua famiglia, gioia e tristezza. 
Scummìntere significa completare il raccolto, raccogliere gli ultimi fichi, le ultime pere, l'ultima ciliegia, gli ultimi baccelli di fagiolo, i pochi pomodori ancora attaccati alla pianta. Vedere i frutti scummisi, le piante spoglie, pensare che ci vorrà un anno per rivederle rigogliose e cariche di ogni ben di Dio mette tristezza così come la fine di una vita, una tristezza mitigata, però, dal pensiero che il granaio è colmo di grano, 'u casciune è pieno di fagioli, la dispensa zeppa di barattoli di conserva di pomodoro, la tafarella piena di fichi messi ad essiccare per farci 'e crucette e che 'e reste 'e agliu pendono dal soffitto della cantina assieme a salati, capeccolli e suppressate. 

'Ntruzzare



 
'Ntruzzare significa esattamente urtare qualcosa, sbattere contro qualcosa in modo non violento. E' un verbo di origine napoletana oramai poco usato e sempre più sostituito con urtare "nella versione caccurese" cioè pronunciando la "a" molto chiusa come solo un  caccurese da almeno tre generazioni riesce a fare. Le occasioni nelle quali è più frequente l'uso di questo verbo arcaico sono i brindisi, L'atto di far tintinnare i bicchieri viene infatti indicato come "ntruzzare" per cui i partecipanti al brindisi si invitano l'uno con l'altro con l'imperativo " 'ntruzzamu."
   Da bambini ripetevamo spesso in coro una sorta di mantra costruito su questo verbo:
'Ntruzza, 'ntruzza, cumpari Petruzzu, 'ntruzza, 'ntruzza, cumpari Petruzzu, 'ntruzza, 'ntruzza, cumpari Petruzzu. 

Cannancàre



  
Osservare la bellezza e la potenza espressiva di questo verbo del nostro dialetto ormai poco adoperato anche perché, per fortuna, le condizioni di vita che ci  costringevano a "cannancare" sono sparite, almeno per noi che abitiamo in Europa o in altri paesi del cosiddetto civile e progredito occidente,  anche se il rischio che tornino i tempi di infausti di un secolo fa è sempre in agguato. Cannancàre significa assistere al lauto pasto di qualcuno, a uno spuntino, all'assaggio di un dolce desiderando ardentemente che quel qualcuno si degni di invitarti a tavola o a farti assaggiare quel dolce o una leccornìa, mentre quello nemmeno non ti degna della minima attenzione. Un po' quello che succede oggi ai paesi del Terzo mondo che cannancano la nostra opulenza e che vorrebbero, anche attraverso quella che chiamiamo immigrazione clandestina, di assaggiare almeno le briciole. 

 

'A lucerta a due cure



 
Chi non ha mai visto una lucertola con due code? Scommetto nessuno, scommetto che ognuno di voi l'ha vista almeno una volta nella sua vita, io ve lo auguro. Si, perchè "Avire 'a lucerta a due cure" è un curioso modo di dire per stigmatizzare la grande fortuna di una persona, un uomo al quale la ricchezza piove dal cielo, una specie di Gastone, il personaggio dei fumetti di Walt Disney.  Un altra espressione che ha più o meno lo stesso significato è "tena la gallina chi le fa l'ova a dui russi." Peccato che questi gioielli linguistici vadano scomparendo. 


Pijare 'a mamma cu' li picciuni



  
Bellisisma questa massima caccurese, un modo di dire adoperato per preannunciare a qualcuno una sicura sconfitta in una controversia, per dissuaderlo a imbarcarsi in una causa persa in partenza.  La constatazione nasce dall'antica abitudine dei ragazzi di prelevare gli uccelli dai nidi a primavera, poco prima che i piccoli pennuti spicchino il loro primo volo. Riuscire a catturare, assieme a piccoli anche la madre (pijare 'a mamma cu' li picciuni) era considerata una impresa memorabile, una cosa che riusciva solo raramente. Perciò, ammonire qualcuno con la frase " Ce piji 'a mamma cu' li piciuni"  è un consiglio a non imbarcarsi in un'avventura dall'esito scontato e foriera di guai.  Peccato che anche questo gioiello sia quasi scomparso dal lessico corrente. 

C'è rimastu 'u spirdu!



  
Quante volte nella nostra vita abbiamo sentito pronunciare questa specie di sentenza a commento di un fatto di sangue, di un omicidio, di un morto in un incidente o, anche semplicemente di una morte naturale, ma per strada! Nei nostri paesi un tempo c'erano delle mezze megere, ma anche donne in buona fede, che ripetevano questa stupidaggine: "C'è rimastu 'u spirdu", lo spirito, l'anima in pena per la morte violenta che non trova pace e che invece di andarsene in paradiso o all' inferno a seconda della decisione del Padreterno, rimaneva sul posto e magari ogni tanto si divertiva pure a spaventare i passanti, A quel punto per noi fanciulli, ma anche per molti adulti suggestionabili, passare di sera o di notte da quel posto diventava una impresa sovrumana per cui si faveano larghi giri per altre strade senza pensare che anche in quelle, nel corso dei millenni, chissà quatri "spirdi" c'erano rimasti. 

Spréiere



 
Oggi vi ripropongo questo bellisismo verbo oggi poco usato, ma che ha un suo fascino e una sua musicalità. In italiano potremmo renderlo col verbo svanire, evaporare, ma il termine dialettale è molto di più perché, riferendosi a cose concrete,  ha una specie di componente magica. Una cosa può "sprèiere" perché sottratta abuilmente da qualcuno, squaglioarsi come neve al sole, ridursi di volume a seguito di normalissimi passaggi di stato fisico - chimici, ma anche, come ci raccontavano le nostre nonne, per sortilegi, magie, affascinu, invidia dei nostri simili. Così "spreiari" il raccolto, la farina, l'olio, magari man mano che si attingeva al recipiente, l'erba falciata. A volte persino le nuvole quando tornava a splendere un bel sole. Nella canzone popolare " 'A disperata" a spreiere è l'incarnato del volto di Ninetta ghermita dalla morte: "Le rose re la faccia su spreuite e c'è rimastu 'u giallu, ohi chi peccatu!".

 


Gargia 



 
C'è un sostantivo curioso nel nostro dialetto. Curioso perché in altri dialetti, come ad esempio il siciliano,  ha il significato di un'altra parola dialettale: gorgia (gola).  Nel dialetto caccurese gorgia è  la gola, la trachera, ma gargia,  è invece, un'aspettativa, una speranza, un sogno nascosto che speriamo ardentemente che si realizzi. Il sostantivo, di probabile origine spagnola, viene anche utilizzato negli sfottò in espressioni  come: " 'A teni 'a gargia!" oppure " T'è rimasta 'a gargia!" per infierire su chi non riesce a raggiungere un obiettivo o ha subito una cocente delusione. 


Scardella - scardellusu

   Scardella è un sostantivo femminile del nostro dialetto che sta a indicare un pretesto per non rispettare le regole, per ribaltare il tavolo, per non onorare un patto. Da scardella deriva l'aggettivo scardellusu, pretestuoso, molto azzeccato per tifosi e calciatori sempre pronti a contestare le decisioni arbitrali inventandosi ogni volta una scardella. Scardellusu è, per esempio, il ragazzino (ma anche certi adulti) proprietario del pallone che, a un certo punto, quando la sua squadra sta perdendo, s' inventa un torto subito, un presunto sopruso, una regola violata, si riprende il pallone e se ne va a casa, ma anche l' individuo che trova sempre da ridire su tutto, per esempio sulla qualità del cibo, insomma "camurriusu" come il Montalbano di Camilleri. 

Tannu


 
Oggi riflettiamo su questo curioso avverbio del dialetto meridionale e di quello caccurese che corrisponde più o meno al latino olim e che significa una volta, quella volta, tempo fa, in quel momento. Spesso viene usato ripetuto, "tannu tannu" a signficare "in quel preciso momento", "proprio allora." 



Aggallàre




   Questa volta ci occupiamo di questo verbo che esiste anche in italiano, ma con un significato diverso, Nella lingua nazionale aggallàre  significa il venire a galla dei pesci, dei sommozzatori o, comunque, di qualcosa di un qualcosa prima sommerso. Nel nostro dialetto, invece, significa accapigliarsi, venire alle mani, lottare. Di due persone che sono venuti alle mani si dice "Se su' aggallàti", mentre per minacciare qualcuno si suol dire "Si t'aggallu t'apparu i costi" (se ti acchiappo ti spiano la schiena).

 

'Nchjiàrruliare - Catringuliare



  
Oggi riflettiamo su due bellissimi verbi del dialetto arcaico, ma non troppo. poco usati e forse poco conosciuti, ma di una bellezza straordinaria. Partiamo dal secondo. Catringuliare deriva da catrìngulo che è un trabiccolo, un utensile o un apparecchio difettoso, mal funzionante, che si rompe spesso. Catringuliare, perciò significa cercare di riparare, far funzionare un qualcosa di cui non si capisce bene il funzionamento o che funziona male. 
   'Nchjiarruliare, invece, pur essendo abbastanza simile, in realtà significa
fare qualche piccolo lavoretto, senza pretese, magari a tempo perso, per trovarselo già fatto quando poi si deve fare qualcosa di più importante o semplicemente per sbarcare il lunario, ma viene usato anche nel significato di "tiriamo avanti, tiriamo a campare, niente di importante."   "Peppino, che fai di bello?   'Nchiarruliamu."

'Un chjiavi mancu a 'nu vallu ('Un nesci 'e n'aria scupata) 



    Oggi mi piace riflettere su due bellissimi detti caccuresi (non sono sicuro che non si usino anche in altri luoghi, ma qualche amico potrebbe darci qualche delucidazione) che corrispondono più o meno all'italiano "Non saper fare una O con un bicchiere."
   Immaginate un cacciatore che da un'altura punti il fucile verso un un punto qualsiasi di una sottostante vallata e  prema il grilletto senza riuscire a colpire la vallata e avrete il significato preciso del primo. Ora pensate alle difficoltà di un  tizio che deve attraversare un'intricata foresta piena di arbusti e di rovi, alla fatica e al sudore che deve spremere. Se invece un suo amico deve attraversare un'aia pulita e pronta per la trebbiatura, ma nonostante questo, non riesce nell'impresa, come gli urlereste dietro? 

Tremu'  li 'mpanti



  
Ancora una bellissima perifrasi, un modo di dire caccurese che ripeteva spesso mio padre (ma anche mio nonno) per dire che faceva un freddo intenso, che fa battere i denti, un freddo da fare tremare i fanti,  come quello che dovettero sopportare i nostri poveri soldati, soprattutto quelli meridionali abituati al caldo o, almeno al tepore delle nostre contrade, nelle trincee del Carso, del monte Sabotino o dell' Adamello. Bene, stamattina, effettivamente, "tremavanu i 'mpanti." 

Càranu l'aggelli

   Questa volta, più che una riflessione sul dialetto voglio proporvi un modo di dire caccurese per indicare una giornata particolarmente fredda come quelle di questi giorni  o dei famosi giorni della merla.  A proposito, mentre le origini della locuzione italiana sono incerte perché fanno riferimento ai giorni nei quali il Po ghiacciato facilitava il transito di cannoni o di signore in carrozza o alla favoletta dei merli che si sporcano col fumo di un comignolo presso il quale si erano rifugiati per il freddo, quelle della locuzione caccurese sono più certe e di facile interpretazione. "Oje càranu l'aggelli" significa semplicemente "oggi il freddo è così intenso da uccidere gli uccelli che cadono stecchiti sul terreno. insomma quel freddo che faceva esclamare a nonno Saverio, notoriamente freddoloso, in dialetto "riggitanu che usava solo quand'era contrariato: "Hannu mu squagghjianu li campani!"

Sdillampàre  - Surruscàre



 
Ogni volta che mi capita di riflettere sui nostri termini dialettali mi sorprendo, oltre che per la ricchezza di aggettivi, sostantivi e verbi, anche della precisione ricercata di questa nostra bellissima lingua. Prendiamo per esempio questi due verbi impersonali: surruscàre e sdillampàre. Apparentemente significano la stessa cosa; lampeggiare, ma in realtà indicano si lo stesso fenomeno atmosferico, ma ne precisano con pignoleria il loro diverso modo di manifestarsi. Sdillàmpari quando il temporale è relativamente vicino, quando cioè al lampo, in un lasso di tempo di durata variabile, fa seguito il tuono, mentre surrùsca' (dal napoletano surruscare) quando si vedono i lampi lontanissimi nel cielo, ma non sentiamo il tuono perché il fenomeno è così lontano che il suono si perde nell'atmosfera senza riuscire ad arrivare al nostro orecchio. Ora ditemi come si può disperdere un tesoro come questa stupenda lingua locale! 

Ciamprune

   Oggi riflettiamo su questo curioso aggettivo sostantivato presente nel nostro dialetto, mutuato da quello napoletano, ma di origine spagnola. Ciamprune deriva infatti dallo spagnolo "chanflòn" che era il nome di un'antica moneta di rame grossolana, tagliata male che fu storpiato prima in cianfrune e poi in ciamprune. Nel nostro dialetto è usato proprio per indicare qualcosa di sgraziato, di grossolano, un uomo grande e rosso da non confondere, però,  con ciamprellu o ciamprellazzu usato per indicare una persona alta e dinoccolata. 

 

 

Allìere



   
Oggi la nostra attenzione è rivolta a un verbo bellissimo oramai in disuso perché i giovani, ma anche molti meno giovani preferiscono usare il  corrispondente verbo italiano presente anch'esso da sempre nel nostro dialetto. Io, però, sono affascinato dal verbo arcaico allìere che preferisco a scegliere. E allora quando vendemmio "alliu l'uva" da portare in tavola separandola da quella da macinare, quando raccolgo le olive mi ritrovo ad "alliere chille pe' conzare", quando raccolgo la frutta "alliu 'a meglia' meglia" e così via. 

'Nchjiniatu

    "Ih chi te via 'nchiniatu!" Chi di voi, amici lettori, a seguito di una marachella non si è sentito scagliare addosso dalla propria madre, dalla nonna o dal nonno questo terribile anatema? Ma può, secondo voi, una madre maledire il proprio figlio o i nonni i propri nipoti? Allora, se vi è capitato di essere apostrofati in questo modo, tranquilli, è un anatema all'incontrario; non una maledizione, ma un modo simpatico di fare un augurio.  Lo 'nchjiniatu, infatti è uno che sta sulla giusta china, che cammina sicuro sul pendio, che è sulla retta via, uno avviato a raggiungere importanti traguardi. 

'A chjiricocula



E adesso è il tempo delle nocciole. Dopo fave, piselli, fagioli, oggi abbiamo raccolto un bel po’ di nocciole una parte delle quali la potete ammirane nella foto. Nelle prossime ore parte saranno pralinate e parte utilizzate per la mousse con le pere e “si me gira la chjiricocula” mi ci preparo pure il gelato.
‘A chjiricolula: quant’è bello questo sostantivo del nostro dialetto che sta per ghiribizzo, capriccio, bizzarria improvvisa, un vocabolo oramai quasi scomparso o, comunque, pochissimo conosciuto, ma la cui bellezza e carica ironica non potrà mai essere surrogata da nessun altro sostantivo italiano.

    Sgallinare



Oggi è la volta di un verbo di origine che secondo alcuni esisterebbe anche in italiano, ma con un significato completamente diverso. In italiano, anche se poco usato al punto da essere ignorato anche dai più importanti dizionari, significherebbe starnazzare o anche stato di agitazione delle gallina, mentre in dialetto indica lo svezzamento dei pulcini, ovvero il momento nel quale il pulcino si libera dalla tutela di mamma chioccia e diventa autonomo. Dal pollaio poi il verbo si è trasferito nelle case per cui si usa dire che anche il ragazzo è ormai "sgallinato", ovvero non ha più bisogno dei genitori. può prendere il largo e nuotare da solo. 

 

Vettàta - Vettate



  
Chi  di voi ha  subito qualche volta questa minaccia: "Te fazzu vettate, vettate!"  Un severo ammonimento che spesso mi sentivo rivolgere da mia madre che però quasi mai dava seguito alla cosa per cui le mie carni non subivano oltraggio e potevo tranquillamente riprendere a fare qualche monelleria, mentre mio padre, sempre severo, profferiva minacce ancor più terrificanti tipo " 'Un la senti tuni?" che tradotto alla buona suonava come "Non mi ascolti,m vero?"  Le vettate, però, non erano uno scherzo. Ne sapevano qualcosa i flagellanti quando, il sabato santo si ritrovavano il corpo pieno di lividi procurati dai flagelli. Ed ecco spiegato il significato di questo sostantivo del quale non conosco l'origine. Forse il mio caro cugino Francesco Cosco, profondo conoscitore delle lingue locali,  potrebbe venirmi in soccorso o magari anche qualche altro dotto amico che si interessa di glottologia dialettale. 

Ciampalavùre



 
Lavùre  è un sostantivo maschile che deriva dal verbo lavurare (arare il terreno) e corrisponde all'italiano "seminato", campo nel quale è stato seminato il grano. 'U lavure, dunque, è il grano appena nato, quando le piantine sono ancora giovani, non ancora pronte per essere falciate. Attraversare un campo di grano in quelle condizioni provoca, un danno più o meno grave che solo una persona sbadata, sciocca, inutilmente dannosa, incapace di rendersi conto delle conseguenze del suo operato può fare. Nell'aggettivo  c'è, comunque, anche una vena comprensione, un rassegnato compatimento per un povero sciocco che fa certe cose non per cattiveria, ma perché la natura lo ha creato così. Ed ecco spiegato il significato di "ciampalavùre", che oggi, alla luce del'esclusione di Cuperlo dalla direzione nazionale del suo partito,  potrebbe adattarsi ottimamente a certi esponenti delle minoranze uscite da quello che chiamano, con sprezzo del ridicolo, congresso. 

 

Tianèlla e buzzinottu

   Oggi mi sono tornati alla mente i nomi in dialetto di due comunissime stoviglie che stanno quasi per sparire dalla lingua parlata dai nostri giovani. Il primo, di evidente origine napoletana,  è quello della teglia che in dialetto diventa tianèlla, il secondo, buzzinottu sta invece a indicare una pentola di latta bombata.  Il termine buzzinottu viene spesso adoperato ironicamente per definire una persona bassa e tarchiata tenuta in poco conto. Davvero belli i nostri dialetti. 

Strèuzu



  
Oggi mi piace rispolverare un antico aggettivo poco usato ai nostri giorni. Rispolverare per modo di dire dal momento che lo uso spesso, anche se prevalentemente in famiglia- Oramai diventa sempre più difficile trovare un giovane che lo conosca. Mi è capitato anche di trovarlo in alcuni dialetti calabresi, ma con un significato completamente diverso dal nostro. 
  A Caccuri strèuzu ha diversi significati, a seconda se riferito a persona o a oggetti. Riferito a un oggetto si potrebbe tradurre strano, sbilenco, asimmetrico, irregolare, mentre riferito a persona assume il significato di strambo,  strampalato, stravagante, una persona che
fa cose imprevedibili.
  'U streuzu è uno che fa un lavoro pasticciato, bizzoso quando non ce ne sarebbe proprio bisogno, uno del quale non sai mai cosa aspettarti. Insomma uno strèuzu. 

Abburdacàre, giargianese e il grande Cicco

 
Messer Cecco, uomo per prudenza e per lunga pratica eccellentissimo.
N. Machiavelli, Istorie fiorentine


  
Devo l'ispirazione per questa riflessione a due carissimi compagni, Silvana Barillaro e Fulvio Rurale ai quali mi lega un sincera amicizia che dura oramai da oltre quarant'anni. Silvana si sofferma sulla bellezza del verbo caccurese (ma forse in uso anche in altri paesi) abburdacàre che  significa "abbondare con l'acqua"  e viene usato solo in questa accezione. Da sempre sappiamo che l'acqua è vita e che lo stesso corpo umano è formato per il 75% di questo liquido per cui abbondanza di acqua significa buoni raccolti, prosperità, salute e vita,  mentre Fulvio mi fa rilevare, cosa di cui gli sono molto grato, che il sostantivo "giargianese" è milanese il che mi fa pensare che potrebbe essere stato introdotto nel nostro dialetto all'epoca della prima emigrazione di terroni caccuresi al seguito del grande Cicco Simonetta, il  primo ministro, cancelliere e capo della diplomazia sforzesca che assieme al fratello Giovanni e allo zio Angelo, nel XV secolo si trasferì da Caccuri a Milano. E' molto probabile che qualche nostro burocrate caccurese, di ritorno dalla Lombardia, si sia messo a parlare in milanese spiegando ai suoi concittadini che chi non era milanese era un "giargianese", ovvero uno che parlava una lingua che non era il milanese per cui in caccurese giargenese divenne sinonimo di straniero che parla una lingua incomprensibile.  Un altro esempio, dunque, di reciproco arricchimento prodotto dall'immigrazione e dall'emigrazione che come dicevo prima, per alcuni di noi iniziò già nel XV secolo e che, fu anche allora "una fuga di cervelli." Si, perché checché ne dicano i leghisti, l'efficiente burocrazia e la buona amministrazione meneghina hanno origini caccuresi. Fu il grande Cecco, infatti, in collaborazione con lo zio Angelo, futuro ambasciatore a Venezia,  e il fratello Giovanni, storico del Ducato e padre del cardinale Bonifacio, a creare dal nulla la Cancelleria ducale, la diplomazia e la burocrazia sforzesca, a perfezionare la crittografia con le   Regule ad extrahendum litteras ziferatas, una scienza della quale si serviva per impedire che il controspionaggio mediceo (o della Repubblica di Venezia o di qualche altro stato italiano) potesse capire i messaggi diretti agli ambasciatori milanesi in caso di intercettazione. Il Duca Francesco Sforza, figlio di Muzio Attendolo era bravissimo con la spada, ma assolutamente digiuno di amministrazione, burocrazia, diplomazia, cose nelle quali era espertissimo il caccurese Cicco, ma ebbe il buonsenso, al contrario del suo sciagurato e incapace figlio, il famigerato e sfortunato Moro, di affidarsi al genio caccurese e ai suoi compaesani terroni. Quando il Moro, per l'insipienza e la dissolutezza della cognata Bona di Savoia (i Savoia, sempre loro a combinare guiai, tanto per cambiare) riuscì ad usurpare il ducato, fece tagliare la testa a Cicco, bloccò l'immigrazione dei terroni, aprì le porte ai nordici (Carlo VIII di Francia) e cedette il Ticino agli svizzeri, E i risultati si videro. 
Ma queste cose non raccontatele a Salvini altrimenti potrebbe restarci male. 

Tiolacu



Probabilmente gli antichi caccuresi non dovevano avere un buon concetto della teologia  che consideravano una disciplina  stravagante, cavillosa, inconcludente e noiosa. Da qui l'abitudine di dare del "tiolacu" ai soggetti con queste caratteristiche. Anche questo sostantivo è oramai in disuso, almeno tra le nuove generazioni, non perché non si trovino più in circolazione tiolachi, ma perché i genitori (e ovviamente la scuola) ritengono poco importante l'insegnamento della lingua locale, tutti concentrati sull'inglese. Come certi nostri politici, insomma.


Sdillociare 



Oggi voglio offrire agli amici visitatori l'occasione per riflettere su questo bellissimo  verbo dl nostro dialetto un tempo molto usato ma che oggi va scomparendo sostituito da altri verbi o da brevi perifrasi. Sdillociare, lettralmente perdere la logica,  corrisponde al verbo italiano sragionare e significa appunto fare discorsi incoerenti, farneticare, ma anche rompersi la testa alla ricerca di una spiegazione. Dal verbo deriva poi il sostantivo sdillociu, rompicapo, pensiero assillante, ma anche espressioni come "Mi ce staiu sdillociannu", "Signu sdiollociatu", "Ce mancava 'stu sdillociiu".    

Nescere 'e ri mari quagliati

Una delle operazioni più difficile, secondo i nostri avi che coniarono questa espressione, era riuscire a liberarsi dall'abbraccio mortale di un mare cagliato. Provate a immaginare di ritrovarvi naufraghi in un mare di cagliata e di voler raggiungere la riva a nuoto. Sarebbe davvero una impresa al limite del possibile perché dopo poche bracciate si perderebbero le forze col rischio di rimanere prigionieri per sempre della massa pastosa, ancorché profumata e saporita. Chi perciò riesce a uscire da un mare di cagliata non può non essere una persona eccezionale. Ecco perché i nostri nonni per dire che uno era capace di grandi imprese dicevano "Chissu nèscia di mari quagliati." 


Fràganu



  
Nelle mie riflessioni sulla nostra stupenda lingua locale oggi voglio soffermarmi su un bellissimo sostantivo che ho trovato, fra l'altro, in alcuni antichi documenti dei quali vi parlerò tra qualche giorno. A me piace moltissimo, quando parlo con i miei conterranei, adoperare la mia lingua, quella che mi fu insegnata da mia madre e dai miei parenti e compaesani perché c'è dentro tutta la nostra cultura e un patrimonio inestimabile di valori e quando converso con non calabresi adoperare l'italiano preferendolo a quell'ibrido che sta ormai diventando la lingua di Dante e di Petrarca. Il rispetto e  l'amore per se stessi e per la propria cultura passa, a mio avviso, in modo imprescindibile, dall'uso quotidiano della lingua materna.  Cosi uso seminario al posto di workshop, fine settimana al posto di weekend, assemblea al posto di convention e va bene al posto di OK, anche perché la contabilità dei morti mi mette i brividi. 
   Ma per tornare al discorso iniziale, il sostantivo di cui voglio parlarvi è "fràganu" che significa crollo, macerie, disastro, ancora abbastanza in uso tra le nostre popolazioni, soprattutto in senso ironico e con una punta di rimprovero quando lo si riferisce a una caduta accidentale di qualcuno o anche di se stessi: "Me signu fattu 'nu fraganu", "S'è fattu 'nu fraganu." In realtà, come dicevo prima. questa parola sta a indicare il crollo di una struttura che può essere una casa, un muro di sostegno, un'impalcatura etc. 

Rigirràre

Ancora un bellissimo verbo del dialetto caccurese oramai in disuso che mi piace riprendere, anche attraverso l'uso che ne faccio ancora con i miei familiari. L'origine del verbo dialettale  richiama l'italiano registrare nel senso di regolare, mettere a punto. Rigirràre perciò significa proprio "mettere a punto la propria persona", lavarsi, cambiarsi d'abito, smettere i panni da lavoro e vestirsi decentemente per andare in qualche posto. "Rigìrrate ca nescimu", "Me vaju rigìrru ca signu lordu", "Rùnete 'na rigirràta" sono alcune delle frasi più comuni nelle quali compare questo verbo che mi è molto caro. 

Abbentàre

Oggi mentre lavoravo, come sempre madido di sudore, mi è tornato alla mente questo bellissimo verbo oramai in disuso che testimonia, ancora una volta, la ricchezza del patrimonio linguistico dei nostri avi e la loro capacità di creare parole adatte a ogni situazione, sinonimi precisi e non intercambiabili perché cambiandoli diciamo si più o meno la stessa cosa, ma non con la precisione e la dovizia contenute in quel sinonimo che abbiamo cambiato. Il verbo in questione è "abbentàre." Sempre più spesso mi capita di sentire qualche amico che mi dice: "Facciamo un break?", o, semplicemente: "Ci riposiamo un po'?" Ineccepibile la seconda; meno opportuna la prima, ma a me piace di più "abbentàre." Abbentàre,originariamente "avventàre",  deriva dalla parola vento. Quando si lavora si suda perché il nostro corpo usa il sudore come ventola di raffreddamento dei motori per il noto effetto della sottrazione di calore prodotto da un liquido in evaporazione, evaporazione che è favorita dal vento. Abbentàre, perciò, significa riposarsi un po', ma anche rinfrescarsi, far arieggiare il corpo per provare un po' di refrigerio asciugandosi il sudore e, magari, approfittarne anche per bere un bicchiere di  vino che, come dicevano saggiamente i nostri vecchi, "asciutta lu surure." 

'A fatiga 'e re magarelle



Davvero bella ed efficace questa locuzione del nostro dialetto che corrisponde, più o meno, alla famosa "Tela di Penelope" che veniva tessuta di giorno e disfatta di notte e sta a indicare il fare e rifare lo stesso lavoro senza molto costrutto evitando di dedicare la propria attenzione ad altri problemi che, probabilmente, richiederebbero una più urgente soluzione. Letteralmente la frase si traduce in "La fatica dei ragni", ossia la tela del ragno, "le trait d'union" con il lavoro della moglie di Ulisse. ma le "magarelle" ci sono più simpatiche, anche perché non ci appioppano addizionali o aumenti di tasse. 

Lavuràre

"Ah lavorare è bello, è bello faticar,  prendiamoci il martello e … andate a lavorar", cantava qualche anno fa il grande Lino Toffolo. Mi piace questa canzone che spesso, quando sono da solo (perché se si è da soli non ci si vergogna di se stessi ), nel verde di Zifarelli, intento a qualche faccenda da contadino, mi ritrovo a canticchiare a modo mio, storpiando un po' le parole. Così il verbo italiano "lavorare" della canzone, si trasforma il quello dialettale "lavuràre", ma non perché traduco dall'italiano al dialetto; no, semplicemente intendo dire che mi piace proprio "lavuràre." Lavuràre, infatti, in caccurese non significa lavorare che traduciamo invece con "fatigare", ma arare il terreno, operazione per la quale anticamente ci si serviva di buoi o di muli, asini e financo del "nobile destriero", mentre oggi si usano trattori o motozappe. Chissà perché i nostri quatercavoli contadini, invece di usare il verbo latino aro, as, avi, atum, are per indicare questa operazione, hanno preferito un verbo, come dire...... un po' meno faticoso (anche i cavalieri del lavoro a loro dire lavorano)? Forse proprio perché "lavuràre" è meno faticoso di altri lavori nei quali tocca solo all'uomo usare la forza fisica e non agli animali o al motozappa, tanto è vero che lavorare viene, invece, tradotto con "fatigare."  Ecco, forse stavolta ho capito perché a me piace molto lavuràre e molto meno fatigàre.

Acciagullàre

Questa volta le riflessioni riguardano un verbo del nostro dialetto del quale non ho trovato alcun riscontro e del quale non conosco le origini. Sarò grato a chiunque potesse, eventualmente, illuminarmi in proposito. Per quanto mi riguarda so solo che viene adoperato per formulare, in modo scherzoso, una minaccia "T'acciagùllu", " 'u voliari acciagullàre". Il significato, infatti corrispontde più o meno ad ammazzare, ridurre a mal partito.

Puppu - Puppusu

Ecco un sostantivo bellissimo che fa parte di quei termini "gergali" che si adoperano quando ci si rivolge a bambini al di sotto dei tre anni. Corrisponde all'italianizzato "bua" e significa piccola ferita, leggera capocciata o sbucciatura , insomma un piccolo infortunio che provoca dolore al piccolo. Credo che si usi soltanto a Caccuri e in qualche paese vicinissimo, perché nel resto della Calabria, ma anche in Sicilia  per "puppo" s'intende il polipo. Da puppu deriva l'aggettivo puppusu per indicare un tipo ipocondriaco, che si lamenta per un nonnulla, che tende ad amplificare gli effetti di piccoli incidenti  domestici o di altra natura che, comunque, non provocano alcuna conseguenza.

 

Spulicàre

Spulicare è un verbo ancora molto usato nel linguaggio corrente col significato di cercare, frugare  accuratamente, perquisire. In pratica lo stesso significato del verbo italiano spulciare dal quale deriva sicuramente. E' usato in espressiopne come "M'ha spulicàtu", "Ha spulicàtu ''ntre bugge", "ha spulicatu 'ntra l'armadio" e altre ancora. Un verbo con lo stesso significato, a parte alcune leggere sfumature, è "scarare", quest' ultimo usato di preferenza quando ci ri riferisce alla raccolta di prodotti agricoli nel senso di "cercare accuratamente"  perché niente vada perduto. 

 

'E due vegnu portu cipulle!

Ogni autentico caccurese conosce certamente questo simpatico modo di dire. Beh, sarà simpatico per chi lo pronuncia, un po' meno per l'interlocutore - destinatario della minaccia, a meno che l'ammonimento non si rivolto a terze persone, magari non presenti. Le cipolle in questione, ovviamente, non sono quelle belle, dolci di Tropea che io e Mario coltiviamo con amore e con una cura maniacale (oramai ci chiamo Attila perché dove passiamo non cresce più un filo d'erba selvatica), ma sono cipolle metaforiche, ovvero lividi, ficozze, bernoccoli; insomma palate. In italiano si potrebbe tradurre liberamente "Ti arrivano botte da ogni parte", in napoletano "Statte accuortu ca so' mazzate!" Comunque, fuor di metafora, fra qualche giorno davvero io e Mario ogni volta che verremo ossia torneremo in paese, porteremo cipolle, perciò chi ci vuol male è avvisato. Ma poi penso che è un avviso senza senso: chi potrebbe voler male a Mariuzzo nostro?

Zimmèlli

Ecco un altro sostantivo caccurese del quale è difficile spiegarsi il significato. E' una parola ancora usata nel dialetto corrente. Il suo significato, più o meno letterale è ciarpame, oggetti inutili e inutilmente ingombranti che spesso creano notevoli problemi di spazio in casa. Il termine è dispregiativo, ma può anche trasformarsi in un qualcosa che sta a significare il nostro attaccamento a oggetti ritenuti inutili e inservibili, ma ai quali, siamo comunque legati da piacevoli ricordi per cui alla fine optiamo per tenerceli in casa sopportandone i disagi.

Piàre 'e tumme

Non sono mai riuscito a spiegarmi l'origine di questa curiosa espressione caccurese il cui significato è  più o meno "deperire, iniziare il declino, essere in punto di morte". Una volta era molto usata nel linguaggio corrente, ora la si sente sempre più raramente e solo in bocca a persone di una certa età. Sarebbe davvero interessante se si riuscisse a far luce su questa specie di mistero, ma forse qualcuno più anziano o più ferrato di me nel dialetto potrebbe darci qualche delucidazione. Intanto registriamo che la "tumma" più conosciuta è un formaggio vaccino tipico dell'isola di Pantelleria, dolce  e leggero, ma non credo abbia qualcosa in comune con la nostra "amara presa d'atto."

 

Sumiàre

                                 

Sumiàre è un bellissimo verbo del nostro dialetto che si adopera per indicare una piccolissima, insignificante perdita di liquido da un serbatoio qualunque. Così si dice spesso che 'a vutta sumia', 'a cipia sumia', 'u varrile sumia'.

Jannacca



'A jennacca è una collana, generalmente di corallo, ma anche di oro o altri metalli, i cui grani vengono infilati l'uno dietro l' altro. Un tempo era il regalo che la suocera era soltia fare alla nuora quando il figlio si fidanzava. Le nostre donne le sfoggiavano spesso nei giorni di festa. Alcune donne ne indossavano una di corallo tutti i giorni, anche perché si riteneva che il corallo fosse un portafortuna.

Schettu - a

                 

Qualche giorno fa, riflettendo sul verbo scapulàre (ricordiamoci che nel dialetto caccurese la "à" della sillaba sulla quale cade l'accento si pronuncia molto chiusa), mi ero chiesto il perché nei dialetti meridionali e, ovviamente, anche in quello caccurese, per definire una persona libera, non sposata, insomma una persona che oggi  è di moda definire single sotterrando l'italiano che pure ha un bel po' di sinonimi per definire questo stato, invece di adoperare "scapolo" o qualcosa di simile che, come abbiamo già avuto modo di osservare, è un aggettivo che deriva dal latino ex capulum (fuori dal cappio, libero, sciolto), usiamo l'aggettivo schettu o schetta per la donna. La conclusione alla quale sono arrivato è che, in materia, subentrano, come sempre,  i condizionamenti della religione, l'abitudine a giudicare la moralità delle persone e definire l'essere umano dai comportamenti, soprattutto in materia sessuale. Per convincersene basta tenere conto dell'etimologia dell'aggettivo schettu elaborata dal glottologo tedesco Gerhard Rohlfs, indiscussa autorità nello studio dei dialetti calabresi, secondo il quale l'aggettivo dialettale ha l'identica origine dell'italiano "schietto". Entrambi deriverebbero dal tardo latino, a sua volta derivazione  dal germanico - gotico slaihts che significa puro, incontaminato, vergine, schietto. Ed ecco spiegato l'arcano. I nostri avi hanno preferito adoperare schettu o schetta perché a loro, più che sottolineare lo stato libero della persona (scapolo da ex capulum), interessava, evidentemente,  porre l'attenzione anche sulla purezza, sulla verginità di  chi non era sposato e, perciò, indubitabilmente casto e puro, secono i dettami della religione e della morale comune, almeno così si riteveva generalmente, soprattutto per la donna.  Da qui l'uso si schettu - a in luogo di scapolo.

 

Scapulàre

Conoscere il dialetto è molto bello, non solo perché questo ci consente di continuare a usare correttamente la lingua dei nostri avi e quindi di conservare il più possibile intatte le nostre radici, ma anche perché, attraverso lo studio più o meno approfondito della lingua locale, riusciamo a ricostruire il nostro passato e l'evoluzione storica delle antiche lingue dalle cui ceneri o dalle cui radici nascono i dialetti. Così si scoprono cose molto interessanti che allargano l'orizzonte della nostra conoscenza. Prendiamo il verbo scapulàre, presente in quasi tutti i dialetti meridionali, compreso il caccurese. Si tratta di un verbo che nasce dalla fusione della preposizione latina ex usata per reggere un complemento di moto da luogo, nel significato di "fuori da" e dal sostantivo capùlum, cappio, lacciuolo, oggetto che serve per afferrare. Scapulàre significa perciò, letteralmente,  liberarsi da un cappio. Per questi motivi il verbo è usato nel nostro dialetto, sia nel significato di smettere di lavorare (liberarsi dal lavoro) che di congedare, liquidare, mandare via. "L'he scapulati" (li ho liberati da un legame, da un  obbligo, li ho liquidati, me ne sono liberato. Stranamente, però, nei dialetti meridionali, per tradurre "celibe", invece di usare "scapolo", come avviene nella lingua italiana, si ricorre all'aggettivo "schettu". Ma questo lo scopriremo nelle "prossime puntate."

Ammicciàre

Il verbo ammicciàre nel nostro dialetto ha due significati: il primo, usato in falegnameria, sta per realizzare un incastro, ( 'a miccia)  di cui abbiamo già parlato diffusamente su questa stessa pagina, il secondo, invece, sta per "farci caso, porci un'attenzione maggiore". A volte di fronte a un fatto o a una situazione particolare adottiamo un comportamento superficiale perché non poniamo attenzione a qualche dettaglio apparentemente insignificante, poi, magari su suggerimento di qualcuno, "ci ammicciàmo", cioè vi poniamo una maggiore attenzione allora quel fatto o quella situazione ci appaiono sotto una luce completamente diversa per cui ci rivolgiamo al nostro amico o al nostro parente dicendogli: " 'Un c'avìari ammicciàtu", "Te ringraziu ca mi c'ha fattu ammicciàre."

 

Pùrchjia


     
Vincenzo Fazio               
               Giovanni Gallo

Devo al mio grande amico Vincenzo Fazio (Ciciarone), scomparso negli anni '80, la conoscenza di questo bellissimo sostantivo oramai completamente scomparso dal nostro dialetto e conosciuto solo da qualche pastore che ha più di 70 anni. Glielo avevo sentito ripetere spesso, ma non avevo avuto mai il tempo ( o forse la curiosità) di chiedergli il significato. A ciò si aggiunga il fatto che la mia proverbiale sordità che mi trascino dietro sin dall'infanzia (ma va anche detto a onor del vero che certi amici che mi sfottono sono messi molto peggio di me) non mi aveva fatto capire bene la consonante iniziale per cui confondevo pùrchjia con turchjia. E' stato nel corso di un incontro fortuito con l'altro mio amico, Giovanni Gallo, pastore in pensione e grande esperto del mondo agro - pastorale, fra l'altro nipote acquisito di Vincenzo Fazio,  che sono riuscito a completare questa mia piccola ricerca. Magari da domani scoprirò che un sacco di gente conosceva il termine, ma ciò non sminuisce la mia personale soddisfazione. E ora veniamo al significato: pùrchjia si riferisce alla pecora e significa semplicemente puerpera; la pecora pùrchjia è perciò una pecora figliata da poco. E ora parafrasando il grande Ferruccio Amendola in un film della coppia Bud Spencer - Terence Hill, mi vien da dire che "il mio più grande difetto nella vita è quello di pensare che queste bellissime parole del nostro dialetto, non dico tornino di uso comune, anche perché sono spiti da tempo pecore e pastori, ma che non vadano perdute."


Nomi di origine araba



 
Molti sostantivi e aggettivi del nostro dialetto sono, come ho gia avuto modo di scrivere, di origine araba. Per oltre un secolo, infatti, in un periodo compreso tra l'inizio del  IX e i primi decenni del X, arabi e saraceni regnarono su vasti territori della Calabria  influenzandone anche la lingua. Dall'arabo sciorbet deriva il nostro "scirubetta" (sorbetto in italiano), gelato preparato con neve fresca e mosto cotto. Anche "gammitta", solco, canale di scolo dell'acqua deriva dall'arabo ciammit, così come "Chjianca" (macelleria) che deriva dal sostantivo arabo kianca e tamarru, da tammar, dattero o venditore di datteri.

Cognomi di origine longobarda o gotica

Dall'immenso crogiolo lingustico calabrese nel quale si sono fusi termini derivanti dalle lingue di decine e decine di popoli occupanti, oltre a molti aggettivi e sostantivi di origine longobarda come Nnocca (knocca), stuccu (Stukki), trincare, cioè bere (trinkan), saltano fuori anche alcuni cognomi della stessa derivazione come Librandi (da Aliprandus), Raimondo o Raimondi (da Ragemundus), Talarico (da Athalaricus) con le varianti di TallaricoTallerico e Talerico dovute, probabilmente, a errori di trascrizione. 


Rèpanu

Rèpanu è un sostantivo diffuso nei dialetti meridionali, presente, ovviamente, anche il quello napoletano, anche se il significato varia spesso. Alcuni traduttori napoletani on line traducono rèpanu con "discorsone, temporeggiamento, ritardo", ma nel dialetto caccurese viene usato col significato di "comprensione, esatta percezione, presa di coscienza di un fatto o di un fenomeno." Piàre repanu significa in caccurese capirci qualcosa, avere l'esatta percezione di un qualcosa, mentre " 'un piàre rèpanu" significa esattamente il contrario, non capirci niente, essere disorientato, frastornato. 

'A morte 'e Giacchinu

Con questa espressione nel dialetto caccurese si vuole indicare una musica o una canzone triste di quelle che ti deprimono e che provocano trestezza o noia. Mi sono chiesto più volte quale potesse essere l'origine del detto. Assai improbabile che si faccia riferimento all'abate Gioacchino da Fiore, morto agli inzi del XIII secolo, quindi oltre otto secoli fa, mentre è più credibile che possa riferirsi alla messa da requiem di Verdi scritta nel 1874 per onorare la memoria di Gioacchino Rossini.

" 'A mamma "

"Nn' he chjinu 'na visazza e la màmma" oppure "Nn'he chjiunu cinque casciotte e la mamma." Spesso da bambino sentivo ripetere frasi del genere, ma non ne afferravo appieno il significato. Intuivo che si usavano espressioni del genere per definire un buon raccolto, ma non capivo cosa c'entrasse la mamma con le olive o con le patate. Poi me me lo sono fatto spiegare e, per molti anni me ne sono stato quieto. Ma la vecchiaia, si sa, rende anche un tantino dispettosi per cui qualche tempo fa mi sono divertito a sottoporre il quesito ad alcuni giovani sottoponendoli a questo particolare "test". Anche loro si sono trovati nelle stesse difficoltà che incontrai io da ragazzo perché gli adulti non hanno tempo di soffermarsi a spiegare queste cose e ai giovani gliene può importare di meno. Eppure si tratta di una epressione molto bella e molto dolce. E' noto che la mamma, sia essa una donna, sia essa la femmina di un qualsiasi animale, tende sempre a proteggere i figli, soprattutto dal freddo coprendoli il più possibile, un tempo addirittura sotto le sottane come fa  la chioccia quando prende i pulcini sotto le ali. Ora la mamma in questione non è altro che la quantità di prodotto che si mette in cima al sacco o a qualsiasi altro contenitore per coprire il prodotto già conservato, appunto come una mamma che ammanta i suoi piccoli. Insomma 'a curmatura per dirlo in altro modo.

 

Puta e Reglia



La parola puta (che non ha niente a che fare con il sostantivo spagnolo)  nel nostro dialetto ha diversi significati. Puta può esser una forma un tempo del verbo potare(imperativo o indicativo), ma può significare anche trucco, magagna o mossa nella lotta libera. E' capitato a ognuno di noi di non riuscire a fare qualcosa che altri fanno senza problemi o viceversa. Si tratta di quelle piccole, semplici operazioni come, ad esempio, aprire una porta, svitare qualcosa, accendere un apparecchio elettrico che a volte ci fanno tribolare, mentre ad altri riescono falici. In queste occasioni, si usa dire "Ma tu ce sa 'a puta?" (tu conosci qualche magagna che ti fa riuscire l'operazione oppure "Io ce sacciu a puta", per questo riesco a farlo senza problemi. Nella lotta, invece, "'a puta" è la mossa vincente, l'arma segreta che ti consente di abbattere l'avversario.
 Un altro sostantivo interessante è
reglia (s.f.), usato a volte anche come aggettivo. 'A reglia è un pezzo di legno o di tavola irregolarmente scheggiato che si ottiene spaccando la legna con asce o cunei o facendo lo stesso lavoro con le tavole. Reglia viene usato anche in una minaccia molto comune e ancora usata: Te fazzu reglie, reglie! Usato come aggettivo reglia si usa per indicare una persona astuta, sagace, arguta, insomma un tipo in gamba per il quale si prova una certa ammirazione. 


Allaccurtu, ojarottu, alli tri jornu

Ancora  tre bellissimi esempi della ricchezza del nostro dialetto, un patrimonio che dobbiamo a tutti i costi tutelare e tramandare alle generazioni future. Le prime  due parole sono avverbi di tempo, il primo significa "a breve" (generalmente entro tre giorni), mentre il secondo "fra otto giorni";  la terza è una locuzione con la quale si indica il Carnevale ( i tre giorni di carnevale). 

Zirru, trena, tiritocta

Trena. zirru, tiritocta; tre strumenti oramai quasi scomparsi, anche se l'anno scorso, grazie all'impegno dei fratelli Pitaro, hanno fatto una timida ricomparsa, qui a Caccuri, durante i riti della Settimana santa. In effetti questi curiosi "giocattoli" della nostra infanzia, inventati, pare da Archita di Taranto circa quattrocento anni prima della nascita di Cristo, venivano adoperati, prima del Concilio ecumenico Vaticano II, anche nei luoghi di culto durante i riti della Passione per sostituire le campane, mute per il lutto della Chiesa fino alla resurrezione del "Figlio di Dio". Mi sono chiesto spesso quale potrebbe essere l'origine dei nomi di questi tre strumenti fino a giungere alla conclusione che potrebbe trattarsi di parole onomatopeiche in quanto riproducono nel nome il loro rumore caratteristico. Questo per zirru e tiritocta; per trena, oltre a questa probabile origine ce ne potrebbe essere una più suggestiva: trena potrebbe derivare dal greco threnos, il treno,  canto funebre. Ciò perché, come già detto, il suono della trena non era altro che una sorta di canto funebre per la morte di Gesù Cristo. Forse non è così, ma a me piace immaginarlo.

Sciasciare

Ecco un altro verbo del nostro dialetto oramai scomparso per "mancanza dell'azione." Fino a qualche decennio fa le  mamme avevano la simpatica abitudine, che pare risalisse attirittura a 4.000 anni prima di Cristo, di fasciare i bambini come se fossero dei capicollo infliggendo loro, probabilmente, una sorta di tortura cinese ( non ho mai capito cos'è una tortura cinese, ma lo dicono tutti). Ovviamente, dopo qualche ora il bambino doveva essere cambiato per cui la mamma lo doveva sciasciàre, cioè doveva togliere le fasce. Ora, sparite le fasce è sparito anche il verbo. E' rimasta solo la polemica tra i medici favorevoli alle fasciature e quelli contrari. I primi sostengono che i bimbi non fasciati rischiano di morire nella culla, mentre i secondi sostengono che a rischiare di morire nella culla sono quelli che vengono fasciati. Più chiaro di così........


Apule

Ecco un curioso avverbio dall'origine a me ignota. Il suo significato è soffice, delicatamente, superficialmente e viene usato in diverse locuzioni. Per definire una focaccia soffice, ad esempio, si dice spesso: " 'Na pitticella apule, apule", oppure se si deve toccare qualcosa di fragile o di delicato  si fa una raccomandazione tipo: "Pìalu apule, apule." 

Ammùzzu

Bellissimo questo sostantivo ancora fortunatamente molto usato nel nostro dialetto. Si tratta di un sostantivo di origine calabro - sicula il cui signidicato originario è quello di cottimo, cioè di un lavoro pagato sulla base di un prezzo pattuito, indipendentemente dal tempo impiegato per eseguirlo. Nel tempo, però, é stato sempre più usato con il significato di "a vanvera, a occhio e croce, senza particolare applicazione" e con qusto significato si va diffondendo in alcune regioni dell'Italia del nord come la Liguria occidentale dove sono presenti numerose comunità di immigrati calabrsei-

Spunnacàre

Spunnacàre è un verbo dialettale di origine araba oramai quasi scomparso dal nostro dialetto. Lo usa molto raramente solo qualche persona molto avanti negli anni o qualche raro cultore del dialetto in vena di facezie.   Spunnacare deriva, come detto, dal sostantivo arabo funduq che significa casa, magazzino, alloggio per mercanti, ma comunemente viene adoperato per indicare un magazzino all'ingrosso. Sfunnacare perciò, in molti dialetti italiani, come ad esempio quelli del Cilento, significa svuotare un magazzino magari per riempirne un altro. Nel dialetto caccurese progressivamente la lettera "f" si è trasformata in una "p" per cui sfunnacare in caccurese é diventato spunnacare. Fino a qualche decennio fa il verbo era usato esclusivamente quando ci si riferiva all'approvigionamento dei tabaccai  di sali e tabacchi dai depositi dei Monopoli di Stato.

Arrancàre

Ecco un bellisismo verbo che potrebbe essere facilmente confuso col verbo italiano arrancare, ma che in dialetto ha un significato molto diverso. Mentre in italiano arrancare significa trascinarsi faticosamente, camminare sbilenco e con uno sforzo ben visibile, in dialetto significa accorerre da qualche parte, fare una capatina in un posto nel quale si verifica un particolare evento. es. "Mo ce vaju arrancu", "Si tegnu tempu ce fazzu n'arrancata."

Ziculìa

Ziculia è un 'altro bellisismo termine dialettale che non si usa quasi più. E' un aggettivo con valore di avverbio che viene adoperato per indicare una modica quantità o anche un'azione flebile. Es. "Chjovari? Si, ma è 'na ziculia."  Deriva sicuramente dall'avverbio zicu che significa poco.


Mmuccaficu

Davvero bella ed efficace questa composizione lingustica formata da un verbo (mmuccàre) e da un sostantivo (ficu) e che serve a definire un credulone, un sempliciotto che crede a tutto, che si beve qualsiasi fandonia. Mmuccare, infatti significa inghiottire, deglutire, quindi alla lettera il significato di mmuccaficu è "uno che si inghiotte i fichi", una persona che crede a qualsiasi panzana, insomma.


Scioffare

Chi te vo'scioffare! Quante volte chi ha più di cinquant'anni ha sentito pronunciare questa specie di anatema? Spesso, però, il destinatario della maledizione non si chiedeva neanche cosa significasse questo verbo e anche chi più o meno intuiva che si trattava di un infortunio, non era sicuro del significato preciso. Scioffare possiamo tranquillamente tradurlo con "slogarsi tutto."


Rramercàre



Verbo oramai poco usato e soprattutto usato per enfatizzare l'azione aggiungendovi una punta di rimprovero o di sarcasmo nei confornti di chi ne rimane vittima come a sottintendere una sua responsabilità nell'accaduto. Il suo significato è "procurarsi una  ferita o una contusione (mercu)  a seguito di una caduta o di un comportamento sbadato, ad esempio sul lavoro. Da bambini ce lo siamo sentiti ripetere migliaia di volte dalle nostre mamme quando ci sbucciavamo le ginocchia o la fronte: "Ti l'ha fattu 'natru mercu?......... Te si' rramercàtu n'atra vota?"


Miccia


Incastro a mortasa (foro) e tenone

'A miccia nel nostro dialetto, oltre a indicare il cordoncino che brucia per innescare un esplodente, è anche e soprattutto l'incastro per legno in falegnameria. Ovviamente ci sono diversi tipi di "micce", ma il più diffuso è quello a tenone e mortasa passante per cui quando si parla di miccia si è portati a pensare a quel tipo. Quando ancora non c'erano le pialle elettriche con toupie e trapano la mortasa veniva realizzata a mano usando uno scalpello particolare e una mazza di legno con un lavoro duro, lungo e difficile che richiedeva grande abilità da parte del falegname per evitare che un foro fatto male rendesse difficille la messa a squadra delle assi che dovevano poi essere unite nell'incastro.

Mmarràta - Ammarràre

Ecco due parole un tempo molto in uso, ma ora poco adoperate,  mutuate dal linguaggio dei contadini e degli artigiani. La prima è un sostantivo e indica un picolo accumulo di terra col quale si deviava l'acqua nei vari solchi dell'orto quando si praticava l'irigazione a scorrimento senza l'ausilio di tubi di gomma o di impianti a goccia. "Cacciare 'a mmarràta significava, perciò, togliere con la zappa l'accumulo di terra che sbarrava la via all'acqua per mandarla in un determinato solco, mentre "mìntere 'a mmarràta" significava esattamente l'opposto.
Ammarràre è, invece, un verbo che non va assolutamente confuso con quello italiano che deriva dal francese e che significa ormeggiare la nave; ammarràre in caccurese significa semplicemente perdere l'affilatura, la capacità di tagliare di un coltello, un'accetta, una sega.

 Scacchìare

Questo verbo potrebbe essere confuso con scacchjiàre, ma, a parte la diversa pronuncia, è molto diverso anche il singnificato. Scacchìare significa ridere rumorosamente, in modo sguaiato, spesso senza un valido motivo. Si virìa cumu scacchìava' ...... oppure S'ha fattu 'na scacchìata ......

Gnermitàre


 Badolato anni '50 - Mietitori dall'archivio di A. Larocca, dirigente Alleanza contadini e sindaco del paese

Gnermitàre è uno dei tantissimi, bellissimi verbi ereditati dal mondo contadino e che rischiano di sparire con la sparizione di quel vecchio mondo e di quella vecchia cultura. Il significato è quello di riuscire a fare qualcosa di complicato che richiede pazienza e abilità, compiere un'azione difficile e ha origine nell'arte, appunto, di jermitare, cioè preparare 'u jermitu o l' abbauzu. Quando ancora i contadini mietevano il grano con la falce, non si limitavano a tagliare lo stelo delle spighe, ma, contemporaneamente le legavano tra loro a fascetti di dieci o quindici. Tali fascetti prendevano il nome di jermitu o abbauzu. Poiché il fronte dei mietitori doveva procedere compatto lungo una linea orizzontale (antu)  senza che qualcuno rimanesse indietro, non si poteva perdere molto tempo a preparare i jermiti che poi venivano lasciati a terra e raccolti dalle donne che a loro volta li univano tra loro a formare le gregne,  l'operazione richiedeva quindi destrezza e velocità, soprattutto considerando che il falciatore doveva legare tra loro gli steli con la mano destra nella quale stringeva contemporaneamente la falce, per cui gnermitare divenne sinonimo di abilità e rapidità nel fare qualcosa. "L'he gnermitàtu" perciò significa: "Sono riuscito a far bene una cosa complicata".

Scacchjiàre

Scacchjiàre è, invece, un verbo di interpretazione etimologica  molto più semplice. Deriva, infatti da cacchjiu (cappio) e significa letteralmente togliere dal cappio, sciogliere, slegare. Viene adoperato generalemente per dire che si è riusciti a comprendere un qualcosa di difficile, a svelare un arcano oppure il contrario " 'un c'he scacchjiatu nente", non ho capito un bel niente.

Scariàre

Il verbo scariàre apparentemente è simile a scaràre, ma in realtà si tratta di due verbi diversi. Scarare si usa per i prodotti agricoli col significato di " 'nquirere", ricercare accuratamente il prodotto affinché nulla vada perduto, come ad esempio per le olive nascoste tra l'erba, le castagne, i fagioli secchi. Scariàre, invece, ha un uso, come dire, più domestico e significa frugare alla ricerca di qualcosa che non si riesce a trovare. Es. C'è scariatu, ma 'un signu riesciutu a lu trovare", He scariàtu 'ntr' 'u como', ma 'un l'he trovatu.

Rriciniàre

Rriciniàre è un altro verbo oramai poco usato e significa stropicciare, sfregarsi gli occhi. "Quannu te rricinìi l'occhji vo' dire ca te fa sonnu."

Caccia fama e va a metere!

Dopo due verbi poco usati, un proverbio che è davvero un condensato della saggezza contadina. Quante volte lo abbiamo ripetuto con amarezza nel constatare che a qualche incapace è stato affidato un posto di grande responsabilità, un compito che non sa assolvere come andrebbe assolto, solo perché per sbruffoneria o per mera fortuna è riuscito a farsi una fama di persona capace e preparata? Caccia fama e va a metere!, fatti una buona reputazione e vai a mietere tranquillo, anche se non hai mai impugnato una falce in vita tua.

Nnacizzàre - Scaràre

Sono due bei verbi della società contadina quasi in disuso. Il significato letterale del primo è inacidire ed è usato in  riferimento a ortaggi o frutta andati a male.  A volte viene sostituito  con "piatu 'e l'aciru." Il secondo indica la parte finale di un raccolto quando si va alla ricerca accurata degli ultimi ortaggi o delle ultime verdurte, ad esempio gli ultimi pomodori rimasti sulla pianta, le olive o le castagne nascoste far i sassi o le sterpaglie, insomma per " 'nquirere" come spiegato in basso in questa stessa pagina.

Vèrtula , visazza e sacchetta

Chi non conosce il famoso proverbio " 'A cumperenzia rrazza la vertula" oppure l'altro altrettanto famoso " 'U latru s'attacca la vertula."  Certo non sono famosi come l'ìncipit della favola di Fedro "Peras imposuit Iuppiter nobis duas", ma in ogni caso abbastanza conosciuti. Il primo ci ammonisce a non essere troppo buoni e a non dare troppa confidenza per evitare che i beneficiati ci strappino la bisaccia per sottrarne il contenuto, il secondo stigmatizza la diffidenza del ladro che, commisurando l'onestà degli altri alla sua, lega con cura la bisaccia temendo che qualcuno possa derubarlo. La nostra vertula infatti è la sarda  " sa bertula", ovvero la bisaccia, da non confondere con la visazza lasciandosi trarre in inganno dall'assonanza con il sostantivo italiano. 'A visazza, infatti, è un sacco di juta (cannavellu) della capacità di una ottantina di litri o poco meno. Se le dimensioni sono più modeste (20 - 25 litri) si parla di sacchetta.

Acciu, petrusinu e vasalicò

Ci occupiano questa volta delle tre piante aromatiche più conosciute e più diffuse i cui nomi dialettali derivano tutti dal latino, la lingua dei nostri padri, un tempo lingua universale, poi dismessa, non solo dalla scuola italiana, ma anche dalla chiesa e oggi conosciuta in modo approfondito solo in Germania e in qualche altro paese civile. L'acciu altri non è che l'apium gravolens, il comunissimo sedano. 'U petrusinu, bellissimo sostantivo presente in tuttti i dialetti meridionali, è il latino proteselinu, ovvero il prezzemolo che va bene dappertutto (petrusinu ogni minerra). Infine 'u vasalicò è l'ocium basilicum (greco basilikon), divenuto progressivamente basilicùm, basalicò, e infine vasalicò, ovvero il basilico. Non so se capita anche a voi, ma se chiudo gli occhi, oltre all'aroma di queste utilissime piante sento anche quello del dialetto. 

Sbaseràre

Ecco un altro bellissimo verbo di origine quasi sicuramente spagnola. In lingua spagnola, infatti, la maschera o visiera si chiama visera, mentre nel dialetto caccurese diventa vasera. Per estensione poi assume anche il significato di viso. Con l'aggiunta del prefisso sba si ottiene quindi questo verbo che ha il significato di "romperere la visera, la maschera", in pratica rompere il grugno, cambiare i connotati. Ovviamente uno il danno se lo può provocare anche da sé, ad esempio cadendo malamente e sbattendo il viso al suolo o incocciando in qualche ostacolo imprevisto (s'è sbaseratu). 

'Nzignare - 'Ncignare

La riflessione di oggi verte su un verbo ancora molto usato nel nostro dialetto, ma anche in altri dialetti meridionali come il siciliano, il salentino o quello di alcune zone del salernitano. Il verbo è " 'nzignare" con la sua variante " 'ncignare". Nel nostro dialetto le due varianti si equivalgono e hanno entrambe il significato di iniziare, cominciare una cosa per la prima volta (ad esempio un lavoro all'uncinetto), mentre nel dialetto siciliano 'nzignare scritto altrimenti 'nsignari è una derivazione dal latino "insignare" a ha il significato di insegnare, ma anche di imparare. A Caccuri, dove i verbo ha il solo significato di cominciare, iniziare a fare qualcosa, è più in uso la forma 'nzignare rispetto alla più arcaica 'ncignare spesso usata dagli anziani. 

Zirrichiàre 

Nel nostro dialetto ci si imbatte spesso in questo termine del quale non ho trovato riscontro in altri dialetti dei paesi vicini. Può darsi che la mia ricerca sia stata superficile per cui magari potrei ricevere, come mi auguro, qualche smentita o qualche spiegazione più attendibile circa l'origine del verbo. Nell'attesa, però, mi azzardo a formulare un' ipotesi in base alla quale questo curioso verbo potrebbe essere stato coniato dopo il 1868, anno nel quale, nel bosco di Eido, fu ucciso il brigate sangiovanense Giovanni Cosco, alias Zirricu (o Zirrica alla sangiovannese). Secondo una leggenda completamente infondata, come ho ampiamente dimostrato nel libro "Cronache di poveri briganti", a Zirricu, dopo essere stato catturato a seguito del tradimento di un compare, un certo PIntisciolle, fu tagliata lentamente e con qualche difficoltà,  la testa,  mentre il brigante urlava a squarciagola per il dolore e il compare lo rimproverava perché si mostrava troppo "sisitu." La realtà fu, per fortuna meno romanzesca e, soprattutto,  meno cruenta, anche se l'epilogo fu comunque la morte del fuorilegge, in ogni caso  il verbo "zirrichiare"  significa proprio tagliare lentamente e con qualche difficoltà qualcosa. 

Porbicàre o corbicàre?

E' corretto dire "porbicàre" "corbicàre?" I due verbi, il cui significato è seppellire, coprire con la terra,  vengono usati indifferentemente dai nostri compaesani senza che si riesca a stabilire quale sia il più corretto. Questione di gusti, forse. Io preferisco "porbicare," ma altri potrebbero legittimamente preferire l'alternativa.  

'U posto affettivu 

Ho riflettuto a lungo su questa curiosa storpiatura dell'aggettivo effettivo da parte di molti concittadini e riflettendo mi è venuto di pensare che pare sia fatta apposta per rafforzare un concetto. 'U postu affettivu è il posto fisso, il lavoro stabile, effettivo, quello che, secondo il Devoto - Oli, implica un'applicazione assidua e continuativa, insomma quello al quale, tranne che per i lavativi ché quelli non mancano mai, ci si affeziona perché è il nostro lavoro e ci dà il pane,  per dirla con i nostri compaesani poco acculturati, "'u postu affettivu". Purtroppo di questi tempi le occasione di lavoro "affettivo" diventano sempre più rare per cui è anche molto difficile affezionarsi a quello precario al quale, viceversa, sembrano affezionati tanti nostri politici e tanti cosiddetti manager. 


Miròsulu

Ecco un bellisimo sostantivo del mondo contadino oramai in disuso e a rischio "estinzione." Credo siano oramai davvero pochissimi a sapere che 'u miròsulu è il comunissimo trifoglio presente in tutti i prati della zona. 

Mùrria 

Ecco un'altra parola oramai scomparsa dal nostro dialetto, anche perchè sono oramai scomparsi anche i vecchi falegnami che usavano spesso questo sostantivo. 'E murrie erano infatti le cornici che coprivano i telai delle porte interne.  

Cimiciùrru

Com'è bello, com'è ricco e com'è "internazionale" il nostro dialetto. Ecco un esempio di sostantivo che dovrebbe avere addirittura origini argentine. 'U cimiciurru corrisponde, più o meno, al chimichurri, una salsa verde utilizzata per insaporire le carni arrosto che viene utilizzata ancora in Argentina, Nicaragua e altre nazioni sudamericane. Il nostro cimiciurru, con qualche leggera variante, viene adoperato per lo stesso scopo. 

Arrimiscàre

Alzi la mano chi ha meno di vent'anni e  conosce o usa spesso questo bellissimo verbo di origine napoletana, ma presente in molti dialetti meridionali compreso il caccurese. Oramai si usano sempre più i verbi  italiani sbrigarsi, affrettarsi, far presto, ma a nessuno viene in mente di dire "arrimiscate!" o Nn'avimu 'e arrimiscare


'Ncavallu a 'nu porcu

L'espressione corrisponde al napoletano "Mettere a uno 'ncopp' a 'nu puorco" e trae origine dall'antica usanza di condurre alla gogna i condannati sul dorso di un maiale tra i lazzi, gli scherni e le contumelie della popolazione. Mintere 'n cavallu a 'nu porcu significa quindi additare al pubblico ludibrio. 

C’ho fattu ‘nu Napuli!  

E' un modo di dire oramai quasi scomparso dal nostro dialetto, anche a seguito delle vicende storiche conosciute  come Risorgimento. Prima della conquista piemontese del Mezzogiorno, infatti, Napoli, capitale del Regno delle due Sicilie, era una delle tre città più importanti e più belle d’Europa. Quando si voleva fare riferimento a qualcosa di ordinato, di pulito, di ameno si evocava immancabilmente la città partenopea per cui tra i duosiciliani nacque e si diffuse questa perifrasi per indicare un luogo con queste caratteristiche.

Alla sculata 'e ri vallani

E' sempre più difficile sentire, nelle conversazioni tra caccuresi,  questa perifrasi che ci invita a non trarre bilanci affrettati, a valutare il nostro operato o quello di qualche nostro competitore o avversario solo alla fine dell'operazione o dell'evento in corso. I vallani sono le castagne bollite che in autunno si preparano come alternativa alle ruselle (caldarroste). Spesso capita  di incappare in qualche castagna non buona o  comunque cotta male, immangiabile per cui sapremo quanti vallani potremo mangiare solo  dopo averli colati e mangiati. Da qui il monito contenuto  nell'espressione.  

Frurata

Riflessione amara quella di oggi che nasce dalla presa d'atto che amici caccuresi solo di qualche anno più giovani del vecchio webmaster, non conoscono il sostantivo "frurata" ovvero la brodaglia, la sciacquatura dei piatti che con l'aggiunta di una o due "junte"(dal latino junctus, cioè la quantità che poteva essere contenuta all'interno di due mani mani aperte e congiunte) di "caniglia" (crusca) o "farinazzu" (farinaccio), costituiva il pasto quotidiano del maiale fino a settembre - ottobre,  quando poi lo si integrava anche con ghiande, favette o castagne. Ovviamente all'epoca per lavare i piatti non si adoperavano detersivi, ma solo l'acqua di cottura della pasta. 


Jazzuliare, frisuliare, scquicciuliare, purberinu, sdillampare.

Questa volta ci soffermiamo un po' su alcuni verbi atmosferici o meteorologici. Il primo deriva dal verbo calabrese jazzàre (nevicare) e si usa per indicare la caduta di un po' di nevischio, quindi non una vera e propria nevicata. Frisuliàre ne è una variante nella quale il  fiocco di neve viene paragonato a una briciola di cioccioli (frisuli) e si usa appunto per indicare la caduta di qualche fiocco senza la pretesa di una nevicata. Nel caso di una nevicata vera e propria si adopera jazzàre o il sostantivo"purberinu", (tormenta). Es. C'è 'n purberinu....!  Squicciuliàre, invece è riferito alla pioggia e deriva da squicciulu (goccia d'acqua). Squicciuliare indica un accenno di pioggia. Sdillampàre significa, invece, lampeggiare. 

Scupetta e ribotte 

Quando da bambino mi recavo a casa di nonno Peppino ero affascinato oltre che da Grassi, un  magnifico setter che ero solito torturare approfittando della sua pazienza e dalla sua "saggezza" di cane adulto, anche dalle storie di caccia che  nonno mi raccontava. Una cosa che mi incuriosiva in modo particolare erano i nomi con i quali distingueva le armi da fuoco che mi mostrava orgoglioso: scupetta e ribotte. A me sembravano nomi ridicoli di cui, ovviamente, non conoscevo l'etmologia ( all'epoca non sapevo nemmeno cosa fosse),  poi, pian, piano  cominciai a capire il significato di questi due curiosi nomi. Scupetta, molto diffuso nei dialetti meridionali, deriva dallo spagnolo Escopeta, a sua volta derivato dal latino medioevale sclopus che è variante di stloppus (Devoto - Oli). Ribotte, invece, è parola esclusivamente locale, che fa ricorso al prefisso "ri" dal lat. "re" per indicare un'azione ripetuta. Il ribotte, infatti, non è altro che la doppietta, cioè un fucile in grado di "ripetere la botta" (il botto), mentre con la scupetta si è finito per intendere un fucile a una sola canna, generalmente calibro 20. Dicevo dell'uso locale del sostantivo "ribotte" per distinguerlo da "dubbotti" come viene chiamato in altre zone della Calabria e del Mezzogiorno. Una curiosita: per Giosuè Carducci le ribotte non erano armi da fuoco, ma pantagrueliche abbuffate. 

 

Arripàre 

E' un verbo presente in molti dialetti meridionali a partire da quello napoletano. Il significato più comune è quello di appoggiare qualcosa da qualche parte, ma nel dialetto caccurese significa anche sdraiarsi per riposarsi, coricarsi,   schiacciare un pisolino. Forse per questo viene spesso confuso con ajjajàre, un verbo del quale parliamo in questa stessa pagina e che significa affievolirsi, spegnersi lentamente. Ajjajàre, infatti, viene usato  per indicare l'addormentarsi di un bimbo irrequieto che non voleva dormire e non stava fermo un secondo e che, finalmente, "si affievolisce", si calma e si addormenta. Per indicare, invece, un sonno pesante nel quale si ricade per un motiovo qualunque, su usa il verbo "chjiatràre"                                                     

Mi nne 'ncàrricu!

Gli antichi caccuresi, che non erano rozzi e volgari come i gerarchi o i militi fascisti e che non potevano prendersi le licenze di quell'impareggiabile "ceffo" di Cetto Laqualunque quando ci ripete che " I havo no dream ", usavano quest' espressione garbata per dire in pubblico "Me ne impipo" o "Me ne infischio" che dir si voglia. Letteralmente l'espressione significherebbe  "Me ne incarico", ma il significato corretto è quello di "Non me ne importa niente". 


Visciglia, carigliu, ilice, auzu, scinu.

Parliamo un po' di botanica passando in rassegna i nomi di alcune piante molto comuni nella nostra zona. Cominciamo da visciglia, nome con il quale si indica una quercia giovane. Questo sostantivo è presente con qualche leggera modifica anche in altri dialetti meridionali, come ad esempio il molisano (vesciglia). 'U carigliu è, invece, il cerro (quercus cerris), albero molto simile alla quercia. Carigliu è diventato poi sinonimo di giovanottone, gran pezzo di ragazzo ("Benerica  para 'nu carigliu!")."  Parente del carigliu è anche l'ilice (quercus ilex), meglio conosciuto come leccio. Il suo legno, difficile da lavorare e molto duro, veniva  utilizzato per fabbricare manici per gli attrezzi (maruci) come picconi, zappe, accette o per le trottole (rrumuli). Un legno, invece inutilizzabile perché molle (frollu) è quello dell'auzu (alnus ribra), cioè l'ontano, molto diffuso nella nostra zona. Infine qualche cenno a un arbusto tipico della macchia mediterranea, 'u scinu, dal latino schinus, ovvero il lentischio, da non confondere con lo scinu frosciu, ossia il terebinto, pianta conosciuta e molto sfruttata da Greci e Egizianin che ne ricavano una resina, la  Trementina di Chio. 

 

Sciùnnere - Sciulicàre

L'amico Adolfo Barone, nel ricordarmi, molto opportunamente, un altro significato del verbo "ventàre" che avevo omesso di riportare nella riflessione precedente, richiama la mia attenzione su altri due verbi, il primo più usato, l'altro un po' meno, di cui parlerò a breve. Intanto, come segnala Adolfo, è opportuno ricordare che "ventàre" significa anche "farcela ancora", essere capaci, avere la forza e e l'abilità di fare qualcosa. Nell'occasione voglio approfondire ulteriormente la riflessione sui verbi ventàre e sbentàre quando sono usati  entrambi col significato di "far scoprire a qualcuno che si possiede qualcosa", notizia che, per vari motivi, sarebbe stato meglio restasse segreta. Nell'uso di "sbentàre" al posto di "ventàre" si coglie una sottile venatura di rimprovero per la "sventatezza" di chi ha fatto trapelare il segreto per cui si potrebbe ipotizzare che il verbo dialettale sbentàre e l'aggettivo italiano sventato possano avere la stessa origine. 
E veniamo ai due verbi segnalati da Adolfo.
Sciùnnere  è un verbo corrente, usato normalmente nei dialetti meridionali  che significa sciogliere,  slegare. Sciulicàre, invece, è un verbo più suggestivo, oserei dire più ammiccante rispetto ad altri che hanno più o meno lo stesso significato,  ma sono più diretti, più "pragmatici." Sciulicàre significa dipanare un filo tenue oppure scartabellare, scartare (togliere dalla carta, dalla confezione) qualcosa o anche venire a capo di qualcosa di complicato o misterioso. 

Sbentàre, ventàre, abbentàre

Questa volta parliamo di tre verbi che si somigliano un po', ma che indicano tre azioni diversissime. Il primo potremmo tradurlo forzatamente con l'italiano evaporare, ma il significato può anche essere quello di perdere il gas (ad esempio nel caso di una bibita gasata lasciata aperta), perdere l'odore, il sapore o altre caratteristiche organolettiche.  Anche ventàre potrebbe essere tradotto  forzatamente con appurare, ma l'esatto significato è un po' più difficile da spiegare. Praticamente significa farsi scoprire di essere in possesso di un  oggetto, un utensile, un qualcosa che potrebbe servire ad altri che potrebbero chiederlo in prestito; da qui l'esortazione: " 'Un tu fare ventàre sinnò t' 'u circa' ". Abbentàre, invece, significa semplicemente riposarsi un po' dopo uno sforzo. 

 

Pugliu

Bellissimo questo aggettivo del nostro dialetto che significa soffice, morbido. Si dice generalmente che "è pugliu" un guanciale (cusjinu pugliu), una focaccia ('na pitta puglia) e qualsiasi altro oggetto che al tatto risulti molle, cedevole. 


Carda - Cardavacchjiu

Nel dialetto caccurese usiamo spesso questi due sostantivi che hanno sostanzialmente lo stesso significato per indicare il pestaggio. Ho cercato senza positivi riscontri questi due vocaboli in altri dialetti caccuresi, ma non so se ciò sia da attribuire alla superficialità delle mie ricerche  le mie ricerche o se, effettivamente, non esistono. 

 

Quannu ‘u pecuraru ‘un vo’  ‘mmiare rìcia ca ‘un po’ trovare ‘a mazzola 

Damme pane ca vaiu alli vovi

Tra contadini e pastori non è mai corso buon sangue. Gli allevatori e i lavoratori della terra, nel corso dei secoli, ma soprattutto negli ultimi due secoli, ebbero sempre interessi contrapposti che, almeno nella nostra zona, portarono  alla nascita di due schieramenti politici: quello dei conservatori e quello dei progressisti. Gli allevatori, infatti, avevano interesse a che le terre rimanessero incolte per essere utilizzate come pascoli per i loro armenti, mentre i contadini ne reclamavano l’assegnazione per poterle coltivare, trasformarle e ricavarne un reddito che potesse migliorare le loro condizioni di vita. Da questo scontro durato decenni e che a Caccuri si acuì maggiormente a partire dal 1919, non solo nacquero due schieramenti politici antesignani della destra e della sinistra caccurese, ma anche due proverbi, probabilmente opera di qualche contadino dal “cervello fino” come vuole la tradizione che voleva stigmatizzare la presunta scarsa voglia di lavorare degli allevatori.
Il primo recita: “Quannu ‘u pecuraru ‘un vo’  ‘mmiare rìcia ca ‘un po’ trovare ‘a mazzola” (Quando il pastore non vuol condurre il gregge finge di non trovare il vincastro).
Il secondo , invece, fa riferimento ad un altro pretesto: “Damme pane ca vaiu alli vovi.” (Se vuoi che porti i buoi al pascolo mi devi dare del pane). Qui, probabilmente si vuol sottolineare il fatto che poiché a quei tempi il pane scarseggiava, chiedere pane per portare i buoi al pascolo era un pretesto efficacissimo per non lavorare.

Imprecazioni

Oggetto delle nostre odierne riflessioni sono alcune pittoresche esclamazioni un tempo molto usate  e oggi quasi sconosciute forse anche per esorcizzare le situazioni negative che costringevano la gente a usarle, forse più semplicemente perché nessuno si preoccupa più di insegnarle ai figli. 

Se su' 'mpesati i muncibelli! 

Ecco un'altra imprecazione che sta scomparendo dalla nostra "lingua locale."  Chi come me si avvia oramai a superare la soglia fatidica che segna il confine tra la mezza età e la vecchiaia, l'avrà sentita  centinaia di volta, soprattutto in caso di condizioni meteorologiche particolari, quando ci troviamo nei turbini di vento, ma anche quando abbiamo a che fare con persone adirate o esagitate. In essa si fa riferimento al Mongibello (Etna) e alla sua capacità di provocare, attraverso le eruzioni, paura, sconcerto, devastazioni. Mungibeddu, infatti, è il nome siciliano del grande vulcano.   

Petre levative! (Volate pietre!)

Era usata  soprattutto quando si raccontava della reazione inconsulta, spropositata di qualcuno ad un fatto, a una notizia, a una richiesta giudicata inaccettabile. "Cce rittu si me 'mprestava 100 euro. Petre levative! E' diventatu 'nu riavulu!"

Fossa stata ura surda!

E' una sorta di maledizione per un comportamento, una decisone presa, un fatto nel quale si è rimasti coinvolti  che hanno provocato spiacevoli conseguenze tanto da maledire il momento in cui l'evento si è verificato. 

'A nuce 'e ru collu!
( L'osso del collo!)

A sentirlo questo anatema sembra di una violenza e di una cattiveria inaudita, in realtà non è poi così malvagio e corrisponde, più o meno al proverbio italiano " A nemico che fugge ponti d'oro", a meno che non sia preceduto dalla frase "Te vo' rumpere".  

'U ciucciu 'ntra musica

E' una bellissima, ironica  considerazione che oramai solo pochi appassionati cultori del dialetto,  tra i quali i miei carissimi amici Salvatore Basile e Antonio Gaetano Lacaria,  conoscono. Tradotta liberamente significa "L'asino che si trova nel bel mezzo di una orchestra" e si usa per definire una persona che si trova in situazioni e contesti sconosciuti nei quali non sa come muoversi o è costretta a parlare di cose che non conosce. "Me sentu cumu 'u ciucciu 'ntra musica."

               'Nzurare

 
Il verbo 'nzurare, dal latino (uxurare) un tempo era usato più frequentemente di "spusàre" (sposare) per indicare il matrimonio dell'uomo; per la donna si usava, invece, "maritàre" . 'Nzurare era, ovviamente, un verbo usato in tutta l'Italia meridionale, anch'esso usato nella già citata canzone " '0 guarracino" (O guarracino ca jeva p'o mare jeve truvanno 'e se 'nzorare ). 

 

            Visciottula

            

Ecco un altro sostantivo dialettale, fra l'altro molto diffuso nella regione,  che rischia di sparire dal dizionario non tanto perché sostituito da sinonimi in lingua italiana, ma a causa della derattizzazione con sostanze chimiche e della pulizia più accurata degli ambienti nei quali viviamo. 'A visciottula, infatti, è una trappola per topi o ghiri che cattura l'animale vivo. E' una scatola di legno con una porticina che scorre in due guide come le serrande di una finestra La porta è attaccata all'estremità di un'asta a bilanciere. Il braccio della "bilancia" è tenuto in equilibrio  da un gancetto al quale è attaccata l'esca (generalmente un bocconcino di formaggio pecorino) che ferma l'altra estremità. Il topo per mangiare il formaggio è costretto a raggiungere il fondo della visciottula. Addentando  l'esca fa spostare il gancetto e l'altro braccio della bilancia pende di scatto dal lato della porticina che si chiude e imprigiona il roditore. Un'altra trappola per catturare gli uccelli vivi è la catrea (catrica in altre zone della regione, acciuolo o mastrillo in Campania, scargarella nelle Marche). La versione caccurese meno sofisticata era costituita da una foglia di fico d'india (paletta 'e ficu 'nniana) al centro della quale si ricavava una finestrella con una grata di legnetti. Uno di questi legnetti veniva appoggiato ad un piolo infisso nel terreno al quale veniva legata l'esca (un semino, un chicco di grano). Il tutto veniva collocato in equilibrio precario su una piccola buca scavata nel terreno nella quale era collocata l'esca. L'uccellino beccando il seme, faceva cadere il piolo che sorreggeva la pesante foglia che, cadendo sulla buca, lo imprigionava senza schiacciarlo. 

Toccu - Vallani - Zinnare

Continuando le nostre riflessioni sulla lingua dei nostri padri ci soffermiamo oggi su due sostantivi e un verbo ancora in uso nella nostro dialetto, ma che, col tempo, potrebbero cadere nel dimenticatoio o essere sostituiti da vocaboli in lingua italiana se non addirittura in lingua inglese.  

 

Jettare allu toccu

Con questa espressione ancora in uso intendiamo riferirci alla conta, il "tocco", gioco, pare di origine toscana,  che serve per individuare "a chi tocca" fare una certa cosa e che diventa poi la famosa "morra" ( in napoletano 'o tuocco) , il gioco  fatto con la conta delle dita che corrisponde a quello del "padrone e sotto" con le carte. Nel gioco del tocco ci si dispone in cerchio e, a un segnale, ognuno presenta un certo numero di  dita di un mano. Il capo gioco fa il totale delle dita mostrate e, partendo da uno dei giocatori in cerchio stabilito precedentemente, tocca   uno per volta tutti i giocatori fino ad arrivare alla  somma delle dita. L'ultimo giocatore toccato è quello che viene individuato. 

Vallani

I vallani, dal greco bàllanos, sono le castagne bollite che da noi hanno un nome greco, mentre in altre regioni hanno nomi diversi come balotte, caldalesse o anseri. 


Zinnare

Il verbo dialettale zinnare, da non confondere con quello italiano che significa tutt'altra cosa, è diffuso in tutto il meridione e indica l'ammiccamento, l'azione del fare l'occhiolino, strizzare l'occhio. Il verbo zinnare è usato magicamente in un verso della celeberrima "O guarracino" (fece n'uocchio a zennariello a lo sperduto 'nnammoratiello), una stupenda canzone di anonimo popolare di fine '700 interpretata da artisti del calibro di Roberto Murolo, Fausto Cigliano, La nuova compagnia di canto popolare, Sergio Bruni ed altri mostri sacri della canzone napoletana. 
  

Zicu

Ecco un avverbio praticamente sparito dal nostro dialetto e sostituito  con l'italianizzato "pocu". Il suo significato è, infatti, poco. Un tempo era diffuso in tutto il Meridione, oggi è sempre più difficile trovarne traccia. 

Trocculiare - Tranganiare

Ecco altri verbi che stanno scomparendo dal nostro dialetto sempre più sostituiti da verbi italianizzati. Entrambi si usano per indicare un qualcosa che non è ben fissato nella propria sede, che si muove, che non è saldo (ad esempio un dente che sta per cadere, la ruota di un carretto, una sedia che non è ben salda etc.) 

Scacàre

Ancora un verbo oramai poco usato sostituito sempre più dall'italiano sbagliare. Lo si può tradurre con sbagliare, fare cilecca. Lo si adoperava molto nei giochi tipo rrùmmulu (trottola), sguiglia (lippa), quatràtu (campana) per indicare l'errore commesso che ti costringeva a passare la mano (ha scacàtu). 


Ajjajare

Ecco un altro  verbo da segnalare al WWF prima che scompaia dal nostro lessico. Il significato è quello di affievolirsi, scemare, spegnersi lentamente. E' ancora usato, oltre che a Caccuri, anche in molti alti comuni calabresi della provincia di Catanzaro. 

Vataliare

Questo bellissimo verbo arcaico può avere diversi significati, almeno nel dialetto caccurese. Generalmente viene usato per indicare le lallazioni dei bambini, la capacità di cominciare ad articolare i suoni di cui dà sfoggio verso i 6-7 mesi, ma può significare anche sbraitare, protestare, sbavare, protestare senza motivo e senza senso.


Lapriste e Cardelle 

Questa volta più che proporvi una riflessione sul dialetto voglio rimediare ad una omissione.  Nei giorni scorsi il  mio amico Tonino Rugiero mi ha fatto opportunamente notare che nel dizionario del dialetto non erano riportati i nomi di due notissime verdure selvatiche alle quali io, e forse molti altri caccuresi e calabresi nati qualche decennio prima del boom economico degli anni '60,  dobbiamo tanto: laprista e cardella. La prima, dal latino rapistrum, è una rapa selvatica a foglia pelosa, mentre la seconda, dal nome scientifico sonchus asper  è  una pianta spinosa simile al cardo, ma molto più tenera le cui foglie, non solo sono commestibili, ma anche gustose. E' inutile precisare che queste due magnifiche verdure selvatiche abbondano nelle nostre campagne e che vale la pena consumare  di tanto in tanto per riappropriarci degli antichi sapori della nostra terra. 

              
                                Laprista                                                                                                Cardella

E gapu 'un si 'ne mora', ma si 'ne male 'ncappa. 

Questa volta mi piace riportare questo antico proverbio caccurese che contiene una verità incontrovertibile. Chi si scandalizza per certi comportamenti del prossimo che ai suoi occhi appaiono degni di censura o per i guai che possono capitare agli altri ritenendo che magari se li siano cercati, farebbe bene a evitare critiche e censure perché prima o poi anch'egli si comporterà, anche involontariamente, allo stesso modo o sarà vittima degli stessi guai. 

Sburiare 

Sburiare è un interessante verbo del dialetto calabrese usato in diverse frasi e con diversi significati. Quello più comune è "svagare", distrarsi con qualcosa di piacevole per esempio per dimenticare un fatto spiacevole, per liberarsi da un'oppressione, anche per non sentire il dolore fisico (esempio mal di testa, mal di denti tc.)  Esiste anche un curioso modo di dire riferito al sonno o meglio alla sonnolenza: "M'è sburiatu 'u sonnu", cioè "Mi è passata la sonnolenza" quasi come se fosse stata distratta da qualcosa di piacevole. 

Arrasellàre 

Arrasellàre è un verbo usato frequentemente nel nostro dialetto, ma, evidentemente, sconosciuto ad altri dialetti della Calabria o sottovalutato, tant'é che non si trova nei vari dizionari dialettali che è possibile anche consultare on line.   Il significato del verbo, che deriva dal sostantivo rasella (cantuccio) è, appunto, mettere in un cantuccio. 

'Nzippiatu 

Ecco un altro bellissimo aggettivo del dialetto arcaico oramai scarsamente usato e forse sconosciuto ai giovani. In italiano si potrebbe tradurre con un termine  volgaruccio, ma che rende benissimo il senso: fighetto. Ma 'nzippiatu può significare anche precisino, vanesio, vacuamente supponente. L'origine del termine mi è sconosciuta; potrebbe forse derivare da "zippa", zeppa, cuneo per indicare uno che sta su con le zeppe (''nzippatu) e la "i" del dittongo servire a dare un  significato ironico all'aggettivo distinguendolo da 'nzippatu, ma queste sono solo supposizioni.

Crettu 

Anche questo aggettivo lo si sente sempre meno nel parlare quotidiano. Crettu  si riferisce a qualcosa che non è ben cotto, che è rimasto al dente. Si dicono cretti, ad esempio, i fagioli o i ceci immangiabili perché mal cotti. 

Azzirpulàre - Arripinnàre 

Questa volte le mie riflessioni vertono su due verbi ancora presenti nel nostro dialetto, anche se usati con sempre meno frequenza.  Arripinnàre deriva da  "ad  re  pinnare" ossia  mettere nuovamente le penne. L'uso dialettale è quindi una sorta di metafora di  rabbrividire per il freddo, fare la pelle d’oca. Azzirpulare forse è più autenticamente caccurese e ha lo stesso significato di rabbrividire per il freddo, quasi congelarsi. 


Squitàre 

Si tratta di un verbo evidentemente poco usato negli altri paesi calabresi dal momento che non sono riuscito a trovarne traccia in scritti o dizionari dialettali che mi sono capitati fra le mani. Potrebbe derivare dal verbo latino quiescere il cui significato è desistere, starsene in pace. Squitare, infatti, significa proprio mettersi l'animo in pace, prendere atto che una cosa non è più possibile, desistere da una intenzione. 

Tricàre

Tricare è un verbo ancora in uso nel nostro dialetto che deriva dal latino tricare, verbo che si rifà al sostantivo   tricae - arum (fastidi, imbrogli, difficoltà ) e che perciò assume il significato di creare difficoltà, problemi che, a loro volta, possono generare un ritardo; da qui il significato di tardare. Tricare non è usato solo nel dialetto calabrese, ma anche in quello del Lazio (tricare) e in quello napoletano (tricà)   

Cupellu

Con il sostantivo maschile cupellu nel nostro dialetto indichiamo l'arnia, ovvero la casa delle api. Esiste anche la versione femminile dello stesso sostantivo per definire una donna di facili costumi. Mi riesce difficile risalire all'etimologia del maschile, mentre, una volta assodato che 'ul cupellu è l'arnia, risulta più facile spiegarsi il significato della versione femminile. Evidentemente " 'a cupellu" è una donna capace di attirare gli uomini come uno sciame di api in un'arnia. 

'Ngrizzulare

Bellissimo questo verbo usato nell'espressione "Me 'ngrizzulano i carni" oppure "M'ha fattu 'ngrizzulare ' carni",  che significano rispettivamente, con una traduzione non troppo letterale,  "Ho la pelle d'oca"  e "Mi hai fatto venire la pelle d'oca".  Oggettivamente le due frasi in dialetto hanno un fascino particolare. Molto probabilmente l'origine di questo verbo è la stessa di quella della parola italiana grinza. 

 

Chi vo' jettàre 'a giurgiulena 

A volte capitava, da bambini, che, presi dall'ansia del gioco o distratti da qualche evento o, semplicemente, per incontinenza infantile, ci facessimo la pipì addosso. Quando le mamme se ne accorgevano, mugugnando e imprecando, tralasciavano le faccende domestiche che le  impegnavano  in quel momento e, armate di santa pazienza, provvedevano a cambiarci. Allora tra le altre imprecazioni, ve n0era una particolare: "Chi vo' jettàre 'a giurgiulena." Per molti anni non ho mai saputo che cosa fosse questa misteriosa "giurgiulena" anche perché questo prezioso seme fra l'altro ricchissimo di Omega 3, molto conosciuto nel basso jonio catanzarese, non viene quasi mai adoperato nella nostra cucina e nella nostra tradizione dolciaria. Si tratta, infatti, del sesamo (sesamum indicum) con il quale, appunto nel basso jonio catanzarese producono uno squisito dolce natalizio, 'u cumpettu, da non confondere col confetto così come lo conosciamo normalmente. Che rapporto ci fosse tra il sesamo e la pipì non l'ho mai capito, però qualcosa in più negli anni l'ho imparata. 

Parìnchjiere

Verbo oramai poco usato che significa "riempire pari", ovvero fino all'orlo. Lo si usa quando si raccolgono prodotti o si versano liquidi in qualche recipiente per invitare chi compie l'0operazione a sfruttare il contenitore fino al limite (Es. parìnchjiere  'u saccu, parìnchjiere 'a casciotta, parìnchjiere 'u mpagliatu."

Tiriu, 'nzurtu, lupellu, cepalìa 

Esistono nel dialetto caccurese vari modi per definire un malanno fisico o psichico che engono usati sia per definire meglio la particolare afflizione, sia, spesso, per evidenziare in qualche modo anche lo stato d'animo di chi ne riferisce, la sua simpatia o antipatia, la sua partecipazione alla sofferenza del malato o il volersene ostentatamente disinteressare, se non addirittura, in rari casi, gioirne. 'Nzurtu sta ad indicare un problema di origine neurologica come le convulsioni, epilessia, ma anche circolatoria come un ictus o un'ischemia. Tiriu e lupellu si usano per malanni di tipo psichico accompagnati da una certa natura aggressiva o un eccessio malumore giudicato un po' fuori luogo per cui usandoli evidenziamo un certo disappunto e un po' di astio per il malato. Cepalìa sta invece ad indicare uno stato d'ansia o di incoscienza del malato, un disturbo leggero insomma tant'è che a volte il termine viene adoperato anche in senso auto ironico. (Oie tegnu 'na cepalìa.....) 

 Parrare allu 'rracqu o allu stracqu

Bellissimo e antichissimo modo di definire il parlare a vanvera, il lanciare invettive o minacce  contro non ben definiti individui,  il cianciare in modo cattivo e  senza senso, esattamente come fa qualche politico dei giorni nostri in cui nome, ironia del destino, fa rima anche con una parte di questa perifrasi.  E' proprio vero: Nomina sunt consequenzia rerum!. 

Appurchjiàre

Ecco un altro verbo molto interessante e poco usato. Traducendo liberamente , anche se abbastanza correttamente,  lo si potrebbe rendere con "attaccarsi alla bottiglia," senza, però, le connotazioni negative ed i sottintesi che l'espressione ha nella lingua italiana. Ci si "appùrchjia" quando si è particolarmente assetati per soddisfare velocemente il bisogno impellente di bere. Ovviamente significa anche bere molto. Ci si appurchjiava generalmente alla bottiglia o "allu gùmmulu" (orcio) pieno di acqua fresca. 

Scapuzzàre  

Ancora un verbo bellissimo con una certa carica di ironia. Significa "tagliare la testa" e si usava di solito quando si trattava di ammazzare un gallo o una gallina (scapuzzare 'u gallu). 

'Nquìrere

Da ragazzino,  quando accompagnavo mia madre a raccogliere le olive, le castagne o le ghiande, la sentivo spesso  raccomandarmi: " Circa 'e 'nquìrere!" All'inizio non capivo il significato di questo curioso verbo, poi ho capito che mi incitava a cercare i frutti in modo più accurato, a scovare anche quelli più nascosti, perché niente andasse perduto. Oggi capisco che 'nquìrere, verbo oramai in disuso, anche perché nella società dell'opulenza si è persa la voglia di 'nquirere,   viene dal verbo  latino Inquirere (inquiro, is, sivi, situm, inquirere) che, tra gli altri significati, ha anche quello di "cercare".  

Muncibellu 

"E' 'nu muncibellu!", "Ha fattu 'nu muncibellu!". Quante volte la sera, al ritorno a casa del babbo, le nostre madri raccontavano ai  nostri padri le bravate che avevamo combinato durante il giorno usando una di queste due espressioni. Muncibellu era sinonimo di qualcosa di tremendo, di catastrofico che avevamo combinato, di un comportamento foriero di disastri e di guai. Ma qual è origine di questo vocabolo? Semplicissimo! "Mungibeddu". da cui Mongibello, era l'antico nome dell' Etna, il vulcano più alto del continente europeo e uno dei più alti del mondo. Evidentemente, le frequenti eruzioni vulcaniche dei secolo scorsi provocavano disastri tali da terrorizzare le nostre bisnonne per cui "muncibellu" divenne sinonimo di sciagura, disastro, grosso guaio o, semplicemente, discolaccio. 

'Nzirillare
                 
Ecco un altro curioso verbo oramai purtroppo scomparso dalla lingua caccurese. E' un sinonimo di "zummullare" in quanto anch'esso significa "infilare", ficcare, ma 'nzirillare esprime in più il compiacimento di chi compie l'azione per esservi riuscito. Da ragazzi, ad esempio, lo si usava per esprimere la gioia, il compiacimento di aver segnato un goal in una delle tante partitelle che si giocavano nei campetti di calcio improvvisati: "ci l'he 'nzirillatu!"

 

'Ncùiere - sè 'ncùiere 

Questo curioso, simpatico verbo certamente di difficile comprensione per i non caccuresi o, comunque, per i non calabresi, indica quel leggero "lamento", quel verso che emettiamo quando siamo impegnati in uno sforzo. 

Zummullàre 
Notare la bellezza di questo verbo oramai quasi in disuso e che significa infilare, infilarsi, ficcare. 


Passuvagliu
Sostantivo del dialetto arcaico scomparso da decenni  e pressoché sconosciuto che indica l'azione di "saccheggio" che si compie in una credenza da parte di qualche componente goloso della famiglia  che fa piazza pulita di cibo o bevande. L' etimologia del termine è, purtroppo, sconosciuta, ma potrebbe derivare semplicemente da "passare al vaglio", ovvero setacciare. 

Jiffa 

E' il nome dialettale della cimice verde conosciuta anche con i nomi di "Nezara viridula" o "Palomena viridissima", ma, soprattutto dai contadini che la stramaledicono ogni volta che ci hanno a che fare. Si tratta, infatti, di uno dei più nocivi insetti in grado di devastare le colture e provocare danni notevolissimi. Di forma pentagonale, di colore verde e di odore sgradevolissimo, colpisce soprattutto il pomodoro, i fagioli e i cavolfiori, ma danneggia tutte gli altri ortaggi. E' così dannosa che, quando si vuol lanciare una  maledizione a qualcuno si usa l'espressione: "Chi te vo piare 'a jiffa!

L'astate sicca serpe,  ca 'u vernu su' ancille!
Proponiamo questa volta un proverbio - indovinello che, come tutti i proverbi, è un condensato della saggezza popolare. Le serpi alle quali fa riferimento il proverbio sono, in realtà, le frasche, il sottoprodotto della sfrondatura degli alberi quegli sterpi di cui ci sbarazzeremmo volentieri, ma che, messi da parte e fatti seccare, in inverno si rivelano utilissimi per accendere il fuoco e riscaldare le nostre case  proprio come le ripugnanti serpi che si trasformano, a seguito di un incantesimo, in  commestibili anguille 

Scioffàre (se scioffàre) 
Questo curioso verbo,  usato per la verità assai raramente,  ha il significato di slogarsi cadendo malamente in un luogo accidentato. Non sono mai riuscito ad individuare l'origine del termine per cui sono portato a pensare che si tratti di una parola onomatopeica.  

Scuntobbis 
Espressione oramai in disuso per indicare un affare più fastidioso che redditizio, una seccatura procurata da qualcuno assilliate o anche in buonafede. 

'Mpajare
E' un verbo oramai in disuso. Letteralmente significherebbe "accoppiare", ma nel nostro dialetto assume quello di "aggiogare" una pariglia (coppia) di buoi all'aratro o ad un carretto. Viene adoperato anche in modo scherzoso per indicare l'azione "di forza" che si compie quando si costringe qualcuno, usando il proprio carisma o la propria autorità,  a compiere un lavoro che non gli aggrada. 

Sciasciàre o spasciàre
Altro verbo oramai caduto in disuso e probabilmente sconosciuto ai giovanissimi da quando i bambini non vengono più avvolti in fasce. Sciaciàre, infatti, significava "liberare il bambino dalle fasce," operazione che veniva eseguita ogni che gli si doveva cambiare il pannolino. 

Muciuliàre 
Veramente curioso questo verbo oramai in disuso e che si riferisce alla cattiva abitudine dei bambini di accarezzare eccessivamente gli animali domestici, soprattutto i gatti. Secondo i nostri antenati questa pratica rendeva gli amici a quattro zampe rammolliti e malaticci, "se mucilàvano", insomma. Ora, premesso che le carezze non hanno mai fatto male a nessuno, è evidente che l'ammonimento "lassalu stare sinnò se muciulìari" aveva il solo scopo di convincere i bambini a non "torturare" con eccessive carezze, magari anche mal tollerate, le malcapitate bestiole. 

Ancora qualche termine derivato dalle lingue dei popoli invasori. 

Sparagnare,
verbo che significa risparmiare, economizzare e deriva dal tedesco
sparen che significa esattamente la stessa cosa. 
Guallara, ernia inguinale, dall'arabo adara. 
Surice, topo, dal francese souris. 

Due termini curiosi

Titillu  
Da sempre sono affascinato da questo strano sostantivo che adoperiamo per definire l'ascella. Vi sono pochi dubbi che esso derivi dal verbo italiano "titillare" che significa "solleticare leggermente" essendo noto che l'ascella è uno dei punti più sensibili al solletico, ma la stranezza consiste nel fatto che in dialetto per indicare il solletico non usiamo il verbo "titillare", ma "zillicare" per cui la cosa risulta davvero di difficile comprensione. 

Zumpa filici

Si tratta di un'altra bellissima espressione oramai in disuso del nostro dialetto e significa fare domande o dare risposte senza rispettare un ordine preciso, una sequenza logica. L'esempio classico è quello di recitare "la litania" delle "tabelline" (tavola pitagorica) " a zumpa filici", cioè   a casaccio, senza partire dall'inizio (es. 6x8= 48, 6x3= 18, 6x5= 30) etc. A beneficio dei non caccuresi va detto che il  "filici" sono le felci e che l'espressione significa letteralmente "saltare le felci."

L'assenza del verbo dovere

Non so se ci avete fatto caso, ma nel nostro dialetto, così come in molti dialetti calabresi, non esiste il verbo "dovere", sostituito, quasi sempre, dal verbo avere. Così "Devo partire" in caccurese diventa "haiu 'e pàrtere", nei dialetti del catanzarese "haiu mu partu" e in quelli reggini " 'ndaiu mu partu";  "deve lavorare" in caccurese si dice "ha de fatigàre", in catanzarese "ava mu fatica", in reggino " 'nd'ava mu fatica" e cos' via. 

'Mpesare

Si tratta di un verbo bellissimo, molto caro al compianto professor Francesco Sperlì, insigne pedagogista e sindaco di Caccuri per 18 anni,  che ha il pregio di rendere addirittura visibile l'azione che descrive.  Il suo significato, come tutti i caccuresi  sanno, è
"avviarsi", "mettersi in viaggio", "partire".   La parola ha origine nella necessità, quando  si parte,  di portarsi dietro tutto ciò di cui si potrà avere bisogno nel corso di viaggio (Pane e mantu 'un gravanu tantu), quindi di caricarsi di pesi ('mpesare).

Campiàre

Un altro verbo molto interessante che significa andare in un posto per darci un'occhiata, recarsi ad una manifestazione, in un luogo dove accade qualcosa per controllare, informarsi, vedere che succede. Ho cercato più volte di spiegarmi l'etimologia di questo verbo e sono arrivato alla conclusione che potrebbe essere legata alla parola "campo." I vecchi contadini, infatti, quando nei campi non c'era la necessità di effettuare lavori urgenti ed indifferibili, vi si recavano, comunque, per dare un'occhiata alle colture, capire se c'erano lavori imprevisti da fare, controllare la crescita delle piante, facevano, insomma, una "campiàta", ossia una passeggiata  esplorativa senza eccessivo impegno.

Ammasunare - S'ammasunare

Provate a tradurre questo verbo in italiano e, soprattutto, a cercare un verbo che renda così efficacemente  ed in maniera così diretta, succinta, l'idea di una gallina , di un asino, di un qualsiasi animale domestico che la sera si ritiri da solo nel suo ricovero per trascorrevi la notte. Eppure questo verbo è quasi sparito dal nostro idioma.

Saccupiare

Anche questo verbo ha il pregio di rendere immediatamente visibile l'azione che descrive. Per "saccupiare" si intende l'azione  che si compie scuotendo un sacco per meglio distribuirne il contenuto (generalmente granaglie o legumi o farina) al suo interno e per sfruttarne al massimo la capienza. Per far ciò bisogna afferrare (piare)  gli orli superiori del sacco  e scuoterlo con forza. Da qui, probabilmente, il verbo composto "saccu - piare"

Josjiaru

Sostantivo bellissimo dal suono magico, sicuramente impronunciabile per un non caccurese. 'U josjiaru è un pertugio, un grosso foro dal quale fuoriesce, gorgogliando, una grossa qualità di acqua (ad esempio lo scarico di fondo di una vasca per l'irrigazione (cipia). Da Josjiaru deriva l'altro sostantivo jusjientaru, spiffero, fastidiosa corrente d'aria. Josjiaru, jusjientauru, jusjiare, jusjiune sono, probabilmente, tra le parole più affascinanti  del nostro dialetto e più difficili da pronunciare.  

Buatta

Questo sostantivo, come tantissimi altri vocaboli, tipo "putiga", "accattu", "scarola" è un prodotto della "contaminazione culturale" che le nostre popolazioni sono state costrette, loro malgrado, a subire a seguito delle invasioni e delle dominazioni straniere (in questo caso francese, dagli Angioini a Murat).  Buatta, infatti, deriva dal francese boite e significa scatola, recipiente di latta.

Tavarca, cipia, tavutu, ciarra, zaccanu, Spunnacare 

Si tratta di alcuni dei tanti sostantivi mutuati dalla lingua di un altro popolo di dominatori che occuparono la nostra regione.   In questo caso si tratta degli Arabi. La Calabria fu teatro di numerose scorrerie saracene e, per un breve periodo, anche sottoposta al dominio arabo. Tavarca (testiera del letto) deriva dal termine arabo trabak, cipia  o l'arcaico gibbia dall'arabo gabijaciarra da zir, zaccanu ( recinto per le bestie) da sakan. Da questo sostantivo deriva poi il verbo "azzaccanare" ovvero ricoverare nel recinto, o, scherzosamente, andare a dormire o mettersi o mettere da parte.  Spunnacare, che significa "svuotare un magazzino, fare acquisti" (usato soprattutto per indicare l'approviggionamento di tabacco da parte dei tabaccai dal fondaco) è un verbo che deriva dall'arabo "funduq". 

Stiavuccu , metaplasmo di stuiavuccu 

Si tratta del famoso tovagliolo di forma quadrata nel quale veniva racchiusa " 'a spisa", cioè la colazione al sacco  del contadino, del mietitore, insomma del lavoratore in genere che partiva al mattino e tornava a casa solo a tarda sera. L'origine del vocabolo è da ricercare, probabilmente, nella funzione principale alla quale era adibito, che era quella di " stuiare", cioè forbire  " 'a vucca",  gli angoli della bocca. Questo vocabolo del dialetto arcaico, purtroppo, è oramai in disuso, sostituito dall'italiano "tovagliolo" o anche da "serbiettu" (dal francese serviette). In disuso anche   il bellissimo "maccaturu"  (Io t'arrobbai lu megliu maccaturu)    sostituito da "fazzoletto."

Capizza, nàca, liona, timugna, zimmaru, cerasi, scifu, cantaru sono, invece, tutti sostantivi di origine greca. Capizza (cavezza), deriva dal greco "capuistru", nàca (culla , zana), deriva da nàke, liona (tartaruga)  da chèlone, timugna (covone) da themoonia, zimmaru (caprone), da ximaros, cerasi (ciliege) da keràsa, scifu (truogolo) da skyfos, cantaru (tazza, recipiente)  da kantharos.

Racioppu

Si tratta di un sostantivo poco usato, ma tipico dei dialetti meridionali,  tra i quali anche il siciliano,   il cui significato è "grappolo d'uva di piccole dimensioni", diverso, quindi, da "pennula" che sarebbe, viceversa, il grosso grappolo che "pende" dal tralcio, quindi  "chi pennari " da cui  "pennula". 

 

S' abbentare

Verbo molto simile all'italiano avventarsi, in realtà, almeno nel dialetto caccurese, ha un doppio significato. Il primo, meno usato, è quello di scagliarsi violentemente contro qualcuno, ma il secondo, molto più usato, almeno un tempo, sta a indicare il riposo, una sosta mentre si trasporta un peso gravoso o mentre si sta eseguendo un lavoro estremamente faticoso. "Abbentate 'nu pocu! ..... Si, mo m'abbentu." 

Jascu

Notare la bellezza di questo pronome personale  rafforzativo che viene, infatti, usato, in modo scherzoso, per soddisfare la nostra mania di protagonismo, per accentuare i nostri meriti, per esaltare le nostre gesta. "Chi si è sobbarcato il lavoro più duro? Jascu! (Proprio io!); Chi ha affrontato i maggiori rischi, i maggiori pericoli, mentre gli altri si defilavano? Jascu!

Mantrellu

 Vocabolo che significa pastorello, garzone, una figura, anzi un mestiere scomparso dal panorama delle attività praticate. 

Mannise

Chi adopera ancora questo sostantivo arcaico per indicare il boscaiolo? Quasi nessuno, se non qualche vecchio che ricorda i tempi antichi quando gli unici combustibili erano la legna e il carbone vegetale  per cui il lavoro dei bravi mannisi era indispensabile alla nostra sopravvivenza. 

                               Minacce tra il serio e il faceto

Te scannarozzu

Questa minaccia è una sintesi felice del verbo italiano (ma si usa anche nel nostro dialetto, scannare ed il sostantivo 
cannarozzu (esofago, ma anche trachea). Te scannarozzu può essere tradotto ti taglio la gola. Come vedete, si tratta di una espressione forte, feroce, anche se chi la pronuncia solitamente non ha intenzioni così malvagie. Esistono poi due varianti più scherzose che indicano la chiara volontà di non volere ricorrere ad una ferocia bestiale. 

Te mintu 'a pullicata 

La "pullicata" consiste in una "manovra" che consistere nell'afferrare l'avversario per il collo stringendolo con pollice, indice e medio, fin quasi a strozzarlo.  Sconosciuta l'origine di questo curioso sostantivo, così come sconosciuta è anche quella di un'altra curiosa  minaccia che imparavamo, da bambini, dagli amici più grandicelli:

Te mintu 'a ciota. 

E' una variante della "pullicata" e consisteva nel mettere l'indice e il medio uniti sotto il mento dell'avversario e premendo con forza fino a provocare un forte dolore. Perchè si tirasse in ballo l'aggettivo "ciota" (stupida, ebete) non sono mai riuscito a capirlo. 


'Mpanicàre

Spiaccicare è l'esatto significato di questo verbo che ha origine, probabilmente, nell'osservazione di un pane inzuppato nell'acqua che, cadendo per terra, si spiaccica sul pavimento " 'a mmattunata". Viene usato, anche se raramente, nell'espressione arcaica "Te 'mpanicu a 'nu muru", sostituito dal più moderno "Te sbattu a 'nu muru."

Nnocca    

Ed eccovi una parola addirittura di origine longobarda. Nnocca deriva, infatti dal longobardo (knocca) e significa "fiocco".     

Nzurtare    

Ecco uno dei tanti esempi di verbo  transitivo in italiano  (molestare, infastidire)  ed intransitivo in dialetto.       

Papparuto

Il sostantivo ha il significato di spaventapasseri, ma veniva adoperato anche per indicare un uomo malridotto al punto da far paura come uno spaventapasseri. 

Parapasciuta  

Bellissimo sostantivo del dialetto arcaico oramai in disuso.  Il termine indica una passeggiata veloce, senza soffermarci a lungo in un luogo, così come può fare una capra quando pascola brucando (pasciari)  saltellando di qua e di là velocemente.  

 Parrasia              

Ancora un sostantivo di origine greca (parresia) che significa logorrea, vizio di parlare a lungo fino a sfiancare l'interlocutore, 

Pirucca

E dopo un sostantivo di origine greca, eccovene uno di origine spagnola (peluca) che non è altro che una salutare sbornia che ci riconcilia con la vita. Ma se la pirucca è una sbronza leggera, il piruccune è il massimo della goduria. 

Revelli

Notare l'originalità e la praticità nell'economia del linguaggio di questo curioso avverbio di luogo che non ho riscontrato in nessun altro idioma e che significa letteralmente (in nessun posto). A vote, l'antica frase " 'Un vaiu revelli" si sostituisce con " 'Un vaiu a nessunu pizzu", ma "revelli" è tutta un'altra cosa. 

Rizzimmòtu

Quanti giovani conoscono questo antico sostantivo del nostro amato dialetto? Cos'è il rizzimmotu? Per saperne di più occorre rifarsi alle  tecniche edilizie di una volta quando ancora il solaio in cemento armato e il laterizi erano sconosciuti ed allora, per costruire la pavimentazione del primo piano di una casa,  si usavano le travi in legno (generalmente di castagno) sulle quali veniva inchiodato il solaio di tavole (scannuli). Su questo solaio, poi, si collocava uno strato di argilla e pietrisco sul quale venivano "battuti" i mattoni di terracotta. Bene, " 'u rizzimmotu" era esattamente questo sottofondo. 

Rroppiàre


Questo verbo è il corrispettivo caccurese del verbo stroppiare (storpiare) che nel dialetto veneto diventa strupiare, in lingua francese estropar e deriva, in effetti, dal latino turpis, ossia deforme. Rroppiàre in definitiva significa deformare le membra, renderle deformi, ma in dialetto assume il significato di ferirsi o di ferire qualcuno, fargli sentire dolore.  

 

Rrummulu  

Era la vecchia, cara trottola di legno che ogni fanciullo caccurese non poteva non possedere. 'U rrumulu, dal greco ròmbos, poteva avere forma e dimensione diverse e, generalmente, veniva fabbricato dagli stessi fanciulli o da qualche pastore. I migliori erano quelli in legno d'elce, molto duro, i più scadenti, chiamati spregiativamente "tavolonza", li si poteva comprare nei negozi e venivano realizzati utilizzando legno di pioppo o di abete, quindi poco duro e perciò molto vulnerabili alla terribili "pernate". I migliori rrummuli, oltre che per la durezza del legno impiegato, erano quelli che non "zappuliavanu", cioè il cui moto rotatorio era sempre uniforme e sicuro. 

Scaranzia

Ancora un curioso sostantivo del dialetto arcaico oramai scomparso dal linguaggio corrente e il cui significato è " compagnia chiassosa, gang." 

Scattignola

Quante ne abbiamo prese da bambini da quei figli di buona donna più grandicelli di noi che si divertivano a seviziarci per puro diletto. " ' A scattignola" era un colpetto che veniva assestato sul lobo dell'orecchio schioccando con forza il dito medio mentre lo si faceva scivolare sulla parte inferiore del pollice. Col tempo il sostantivo venne adoperato anche per indicare il pop corn. 

 

Pullicata 

Davvero difficile sentire oggi qualcuno urlare, adirato: "Te mintu 'a pullicata!"  "Pullicata" in dialetto caccurese è un sostantivo femminile, ma provate a tradurlo in italiano adoperando un qualsiasi sostantivo. A me risulta davvero difficile e l'unica frase adatta a tradurre l'espressione che mi viene in mente è "Ti strozzo" che, comunque, non rende esattamente l'idea.  

Pullitriare

Verbo adoperato per "censurare" bonariamente chi si dà alla pazza gioia, si diverte secondo noi, smodatamente come un puledrino senza cavezza e senza pastoie che scorrazza liberamente per la campagna. 

Putighinu

Un tempo a Caccuri ve n' erano; cinque con quelli di Santa Rania, Ponte di Neto e Botteghella. Ora, di fatto non ce ne sono più  anche perchè suonerebbe davvero strano chiamare "putighino" la tabaccheria all'interno di uno dei bar del paese. " 'U putighinu", infatti era  il vecchio tabacchino, quello di zu Giovanni Marullo o di Maria Mele. Il sostantivo potrebbe essere un diminuitivo di "putiga" (negozio) forse in considerazione del fatto che i vecchi tabacchini erano quasi sempre ospitati in locali angusti. 

Tabbariare

Ancora un curioso, bellissimo verbo che significa sostare in un luogo più del dovuto, prendere tempo, indugiare. Purtroppo, come tanti altri verbi o sostantivi, capita sempre più raramente di sentirlo sulle labbra di qualche caccurese.

Taccaglia

Un altro sostantivo da sottoporre all'attenzione del WWF perché in via di estinzione. La taccaglia è un legaccio, un nastrino o anche una giarrettiera. 

Taccia

'A taccia è oramai scomparsa sia come sostantivo, sia come oggetto. Chi si sognerebbe, mi chiedo,  di indossare, al giorno d'oggi, le scarpe chiodate dei nostri nonni? La taccia, infatti, era un corto  chiodo a testa piatta usato per chiodare gli scarponi dei contadini, sia per evitare la rapida usura delle suole, sia come misura antiscivolo. La tomaia, invece, la si ungeva con " sivu" (sego) per tenderla più soffice e per evitare che il cuoio si screpolasse. 

Tijillu

Da non confondere con la tiella (sfornato di carne di agnello con patate) è il puntello di legno per armature. 

 

Ecco ancora una carrellata di verbi e  sostantivi che derivano da lingue diverse:
derivano dall'osco:
Tifa (zolla erbosa), Auzu (ontano), Sillu (fungo porcino), visciglia (giovane quercia), Timpa (precipizio);

derivano dal francese: Vagliu (antro), da (baile), Ammucciàre (Nascondere) da (mucher), Ciminiera (Caminetto)        da (Cheminee);

derivano dal latino: maruca (Chiocciola), da maruca, sarcina (fascina di legna) da sarcina, pullula (fiocco di neve), da pullula (la farfalla), pessulu (scheggia di legna), da pessulus, parrilla (cinciallegra) da parrilla.  

 

Vacàre   

Questo verbo, da non confondere con l'italiano vacare che ha tutt'altro significato,  deriva dall'aggettivo latino  vacuus, a, um, che significa, fra l'altro, anche disoccupato per cui "vacàre" significa appunto essere disoccupato, non andare a lavorare. 

Vajanella 

L'etimologia di questo sostantivo è un po' complessa. La parola ha origine dal latino "vagina" ossia guaina, fodero. Vagina in spagnolo diventò poi "vainilla" e fu adoperato per indicare il baccello che racchiude i fagioli e da lì, per estensione, anche i fagiolini o tegolini. Vainilla, poi, reintrodotto nell'Italia meridionale dagli Spagnoli, si trasformò poi nel nostro idioma in vajanella. 

Vurpile

Molti anni fa, quando si uccideva il maiale, si metteva accuratamente da parte quest'organo molto ricercato dai falegnami per ungere la lama delle seghe. Vurpile, dal latino verpa, prepuzio, era in effetti, l'apparato genitale del maiale. 

Zimma

Ed ecco un curioso sostantivo di derivazione germanica. Zimma non è altro che l'alterazione dialettale del sostantivo tedesco "zimmer" che significa camera, stanza d'albergo. Peccato che le "zimme" caccuresi siano in realtà, i porcili. 

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