CRONACHE DI POVERI BRIGANTI
di Giuseppe Marino
  Più volte qualche amico ha mostrato interesse per il mo saggio sul brigantaggio pubblicato qualche decennio pregandomi di fargliene avere una copia. Purtroppo, pur non essendo rivelato un successo editoriale come quello di altri scrittori affermati, le 500 copie stampate  andarono esaurite dopo un paio di settimane, ma non me la sento di affrontar ulteriori spese per una ristampa che potrebbe rivelarsi un pessimo investimento per cui ho deciso di postare, poco per volta, i vari capitoli di "Cronache di overi briganti - Il bri'ìgantaggio nel XIX secolo a Caccuri e dintorni" Tipografia Pubblisfera- San Giovanni in Fiore 2003, un libro che si avvaleva della presentazione del professore Cesar Mulè, storico, giornalista e già Sindaco e presidente dell'Amministrazione Provinciale di Catanzaro  illustrato dall'amica Daniela Secchiari.  Seguite questa pagina ogni giorno.

 

                                                                                                                      

 

II territorio

Caccuri è sorta su monti impervi da cui prende nome per la loro orografia cacuminale. Secondo Alessio (1939) il toponimo deriva da Cacurius. Benché nel sito siano stati rinvenuti segni di presenza già nel neolitico l'insediamento ha rilievo dalla scelta di monaci di rito orientale di erigere nelle aree montane (nel 1228 è attestato un Johannus sacerdos de Cacurio) piccoli monasteri fra cui il più noto è il santuario dei Tre Fanciulli fondato dall'abate Dearco (sec.XII) d'indirizzo florense. L'istituzione secondo Anna Russano Cotrone era ancora visibile fra il 1663 e il 1721. Nel sec.XVIIIsi era affermato nel divenendo insediamento di rilievo: "Erat in territorio oppidi Caccuri Geruntinac Diocis magnum quidam ac satis celeber monachorum graecoruni coenobium Sanctorum Trium Puerorum". Nel 1775 non era più quasi ravvisabile.

Oggi è ancora attivo radicalmente riedificato dopo un devastanteintervento  compiutonel 1965 dal parroco  Luigi Guarascio puntigliosamente descritto da Carlo Arnone (cfr. Il Monastero dei  TreFanciulli Fasano ). Gravi soprattutto l'abbattimento dell'arco e della sernicupola, la sostituzione  del pavimento e l'allargamento delle monofore, il rifacimento della copertura. Più cauti sono stati gl'interventi di restauro effettuati nel 1977 dall'Amene che si occupò pure di affreschi e di altridecori.

Edifici da menzionare sono la chiesa domenicana della Riforma ( giàdetta di S. Maria Soccorso dei Poveri dota-

ta di portali ad arco e rosone e di alcune tele devozionali, ma soprattutto di sculture raffiguranti Santa Filomena, San Francesco di Paola, la Madonna con il Bambino), la chiesa di S. Maria delle Grazie che conserva tele settecentesche e un buon coro ligneo con scanni di artigiani calabresi ed un pulpito di Trocini (1795).

Interessanti le campane: la grande del 1578 con medaglione della Madonna e la piccola con stemma dell'università.

Feudo dei Malatacca (1393) fu poi di Polissena Ruffo che lo trasmise allo sposo Francesco Sforza. Dalla Casa del Biscione ritornò ai Ruffo e quindi a Marano. In questa congiuntura della famiglia locale Simonetta si distinsero Cecco(14101480) che diverrà Cancelliere degli Sforza e il fratello suo Giovanni, storico del Ducato di Milano ed autore di altri testi conservati anche all'estero (in più esemplari uno su pergamena alla Biblioteca Nazionale di Parigi).

La sequela feudale si esaurì con l'eversione in mano a Casa Cavalcanti che lo ebbe dal 1651: Marzio (+1694), primo duca di Caccuri (su concessione di Carlo II del 1683, Rosalbo (+1781),Gaetano (1793) ed infine Marianna ultima intestataria con giurisdizione sulle II e III cause civili e miste zecca e portolania.

(Debbo queste ultime notizie a Mario Pellicano Castagna in Ultime intestazioni feudali in  Calabria Effemme 1978). Nella proprietà degli immobili e dei terreni subentrò la forte e dinamica famiglia Barracco che vi deterrà il 34% della superficie dei territorio del Comune.
A questi subentrarono i Fauci.

 

                                                                                                                                                    I Briganti

 

Questo è lo scenario storico in cui è vissuta ed è cresciuta una popolazione di montagna raccontata senza eticitàma con partecipazione da Giuseppe Marino nel libro che vi accingete a leggere. Per me è stata una lettura avvincente e fonte di emozioni per il crudo realismo di tante vicende dolorose ed infami che hanno tessuto decenni della nostra storia magmatica. Grandemerito questo dell'Autore perché la sua narrazione ha pulsioni forti scaturite da destini resi amari da incontri sbagliati nei croceviadella vita, dalla fame rabbiosa,  dallosfruttamento schiavista, dall' avida incomprensione dei grandi proprietari agrari e dalla ottusità deigovernanti.

Eppure si scorgono lampi di equità nel comportamento di carabinieri e di giudici di grande umanità. Anche la cieca fedeltà di tante donne legate selvaticamente ai loro uomini dev' essere vistacome uno strano olocausto di condi visione.

Marino ha condotto ricerche lunghe, faticose, accurate, supportando ogni rigo del suo racconto (stavo per scrivere ognirespiro dei suoi protagonisti) di riferimenti documentali tratti minuziosamente da atti giudiziari per oltre centocinquant' anni mai toccati da nessuno. Aprendo faldoni e volgendo coacervi di carte ha sollevato il coperchio di un inferno di passioni alimentate da efferatezze e sollecitate da sentimenti bruti mai raddrizzati adeguatamente dalla scuola, da civismo, dall'eco d'insegnamenti di fede e di eticità.

Non vi è un rigo dolciastro di romanticume che sovente incipria le storie dei briganti. Naturalmente l'Archivio di Stato di Catanzaro e per esso la dott.ssa Caterina Pagano, provetta ricercatrice e studiosa, ha avuto un ruolo centrale per avere supportato ed agevolato la consultazione defatigante e m’immagino anche sofferta dell’Autore.

La scrittura è dunque avvincente  e a volte rende pagine letterariamente anche valide per squarci suggestivi ed accorati.

Dico che Marino ha reso un grande servizio alla storia di tanta povera gente che non ha posto nella oleografia stereotipa del processo unitario pur non mancando voci severe isolate purtroppo che con sdegno ed accoratezza  si sono levate  nella  distrazione  e nella indifferenza dei più:tanto i cafoni possono ben morire da cafoni.

Naturalmente manca la storia dei buoni e degli onesti,  dei sordomuti testimoni in cuor loro anche dissociati dalle opposte violenze. Forse è depositato nel cuore dei loro discendenti l'anelito ad una vita di pace e di lavoro non sfruttato dove l'imperio della legge non deve avere il bisogno di baionette ma d'interiori convincimenti. La strada è lunga per incontrare la giustizia.

 

                                                                                                                      L'uomo

 

Giuseppe Marino sente la sua origine caccurese come un segno imposto di rivendica. La sua vita professionale come insegnante ha questo marchio indelebile che lo porta a trasmettere alle generazioni nuove l'orgoglio di una gente fiera e cortese non sempre premiata dal destino. Anche con la sua attività  di amministratore locale sperimento una prassi di contraddizione per il vecchio regime e sostento l'anelito al cambiamento.

Ma e come ricercatore  e studioso che diffonde  speranze  e consapevolezze sia animando associazioni culturali sia redigendosaggi storici sul comune ed i suoi personaggi di maggiore spicco.

Marino e nato il 15 giugno del 1950, ha studiato a Merano e a San Giovanni in Fiore e da 32 anni svolge la sua opera di docente con equanimità e consapevole senso pedagogico.

Ha pubblicato nel 1983 il volume "Caccuri e la sua storia" e nel 1994 una seconda opera,  "Caccuri  nella storia."  Attualmente  e corrispondente locale del giornale "Il Quotidiano".

Quest' ultimo suo lavoro colma senz'altro le lacune di Marco Monnier e di Vincenzo Padula e da triste riscontro alle note tesi di Tommaso Pedio che scorge nell'antinomia tra briganti e galantuomini un contrasto di classe e di ceti sfociante nel disperato ed incongruo spargimento di sangue e di conflitto con gli stessi appartenenti a fasce di contadini poveri spinti dal bisogno di un pane o di un pugno di sale. Appare inconsulto il giustificare a pieno violenze selvatiche con la insufficienza dei vantaggi apportati dall'Unita.

Sono più vicino  alla tesi di Giustino  Fortunato:  " il brigantaggio è espressione  e frutto  di una società rosa dalla miseria e moralmente fracida".

Niente aureole di un cosmetico. Valuterà il lettore se Marino come io intravedo ha percorso la stessa via interpretativa nella narrazione cronachistica di tante tristi vicende che hanno costretto in sanguinoso groviglio boscaioli e pastori, contadini e bracciali resi infelici da condizioni grame e a volte disperate, privi di ogni luce, "anime dannate" ( la definizione è del famigerato Pietro Corea), protagonisti e vittime di consorterie brutali.  

                                                                 Cesare Mulè

        

                               Premessa

 

“Te tagliu ‘a capu cumu Zirricu!”. La terribile minaccia, il più delle volte scherzosa, qualche volta anche seria e irosa, mi risuonava nelle orecchie fin da bambino. Zirricu: chi era costui? Mistero, mistero fitto, nessuno sapeva rispondere alla domanda; ci si limitava a dire che era stato un terribile brigante e che, dopo averne combinate di tutti i colori, era stato ucciso a Eydo da un suo compare che lo aveva tradito e che, dopo avergli tagliato la testa, aveva portato il “macabro trofeo” in trionfo per le strade del paese. Questo era tutto quello che era dato sapere su un fuorilegge che, secondo la tradizione, avrebbe terrorizzato Caccuri per molti anni.

L’alone di mistero che circondava l’identità e le imprese di questo misterioso personaggio e il desiderio di identificarlo mi hanno spinto ad avviare una ricerca sul brigantaggio e a scrivere questo libro.

Partito con queste intenzioni, mi sono imbattuto, fra l’altro, in una storia poco conosciuta, forse frettolosamente rimossa, una “storia proibita”, come ha scritto qualcuno. E’ la storia della tenace resistenza dei combattenti delle Due Sicilie contro l’annessione del regno borbonico all’Italia, la storia di centinaia di migliaia di uomini, briganti (ma anche gente perbene) che lottarono, per molti anni, contro quello che consideravano un esercito di occupazione e che mostrò il volto feroce della repressione, spesso perpetrando crimini non certo meno odiosi di quelli dei briganti. Ma mi sono imbattuto anche in decine di altri poveracci, di miserabili, alcuni dei quali caccuresi, posti volutamente ai margini della società dalle classi dominanti del tempo, sfruttati, privati di ogni diritto, laceri e affamati che, come è stato autorevolmente scritto dagli storici del tempo, vedevano nella vita del brigante e nella pratica della grassazione una grande attrattiva. Briganti per necessità, dunque, poveri cristi che si ingegnavano a sbarcare il lunario arrivando persino a spogliare i loro simili, lasciandosi avvolgere sempre più dalla spirale del crimine fino a morire ammazzati o a marcire in unpenitenziario.

Non v’è nulla di eroico nelle gesta di questi miserabili braccati dalla gendarmeria reale, dalla guardia urbana, dall’esercito, dai manutengoli dei vari possidenti, che venivano catturati e uccisi, nella maggior parte dei casi, con una facilità disarmante; tuttavia, spesso, riuscivano a suscitare, se non ammirazione, almeno un briciolo di comprensione e di umana pietà.

La ricostruzione di quasi settant’anni di vicende storiche locali che tenterò di operare attraverso la pubblicazione di questo libro, di una storia minore e locale di cui forse gli addetti ai lavori si sono, spesso colpevolmente, disinteressati, risulterà certamente lacunosa e carente sotto molti aspetti, ma ciò dipende essenzialmente dalla difficoltà di consultare fonti e di reperire materiale documentale. È davvero triste constatare come la narrazione e la documentazione di quasi un secolo di vicende storiche caccuresi – a parte ciò che è stato scritto e che si può recuperare nei pochi documenti ufficiali conservati negli archivi  di stato – siano state demandate, dagli “intellettuali” caccuresi del tempo, al farsaro Angelo Raffaele Secreto (Velociu) che, essendo, purtroppo, analfabeta, non poté tramandare compiutamente ai posteri la sua preziosa opera. Nessuno che si sia mai preso la briga di scrivere un diario, un promemoria, un appunto qualsiasi che consentisse di squarciare un velo, di accendere una fiammella nel buio dellaconoscenza.

Nel libro sono narrate le vicende di numerosi briganti caccuresi e non, le imprese criminali compiute sul territorio caccurese e nei dintorni del paese, le azioni brillanti e meno brillanti delle forze dell’ordine. Insomma, una serie di fatti che, mi auguro, possano interessare il lettore e soddisfarne 1'interesse e si apprenderà anche che la maggioranza dei Caccuresi ebbe comportamenti coerenti con la legge, nonostante le ristrettezze dei tempi e i gravi disagi.

 

       

Capitolo8

 

                                                  La fine della guerra civile – Il brigantaggio criminale negli anni 1866 –1875

 

Nel 1867 il brigantaggio politico inteso come rivolta contro i nuovi regnanti e come reazione alla forzosa annessione all’Italia era stato, almeno nella nostra zona, praticamente debellato e il Ministro dell’interno, l’anno successivo, si premurava di ringraziare diverse amministrazioni del comprensorio (compresa, ovviamente quella di Caccuri) riconoscendone i meriti acquisiti nella repressione del fenomeno. Un riconoscimento certamente gradito dalla classe dirigente caccurese del tempo, che non stava nella pelle ogni volta che poteva conservare potere e privilegi, saltando al momento giusto sul carro del vincitore, perpetrando il controllo sul popolino che continuava, sotto qualsiasi dinastia e sotto qualunque governo, a essere oppresso dagli stessi padroni. Purtroppo questo malcostume era destinato a perpetuarsi nei decenni e nel secolo successivo con spettacolari salti della quaglia dal legittimismo borbonico alla causa sabauda, dal partito liberale al partito nazionale fascista alla Democrazia cristiana e ai suoi eredi politici. Negli anni ’40 e ’50 dello scorso secolo assisteremo, addirittura, alla beffa di vedere i pronipoti degli antichi dipendenti dei baroni e degli agrari investiti dell’autorità di decidere a chi assegnare le quote di terra strappate dai contadini ai latifondisti con la riforma agraria, loro che erano stati i più fedeli amici dei baroni che questa riforma ostacolarono con ogni mezzo.

La repressione del brigantaggio insurrezionale si chiuse con un bilancio di morti spaventoso. Secondo alcuni storici caddero in combattimento o furono fucilati 154.850 briganti e oppositori mentre l’esercito perse 21.120 soldati e altri 1.073 morirono per ferite o malattie contratte durante la campagna contro i briganti. Per avere un’idea un po’ più precisa della situazione basti pensare che tali perdite sono superiori a quelle di tutte le guerre di indipendenza messe insieme. Comunque, verso la metà del 1866 il brigantaggio politico, almeno nella nostra zona, era oramai sconfitto, ma le condizioni socio-economiche erano rimaste pressoché immutate, anzi, per certi aspetti erano perfino peggiorate.

Forse anche per questo rimaneva molto attivo un brigantaggio criminale che avrebbe infestato il territorio circostante ancora per qualche anno provocando lutti e sofferenze per la povera gente, ma anche apprensione e fastidi per i ricchi proprietari,spesso bersaglio preferito delle azioni brigantesche. Nel 1866 erano apparse nuove e più agguerrite bande di ladri, estorsori e grassatori che scorrazzavano più o meno indisturbati, nonostante lo zelo della guardia nazionale e dei carabinieri.

Il 15 aprile del 1866 il brigante Pietro Ronco, originario di Lago d’Aiello e altri ignoti, tutti armati di fucile, vestiti con mantelli di lana e cappelli all’italiana, si presentarono nella bottega di Luigi Angotti a Cerenzia per comprare pane, salame e vino. Nel negozietto era presente il fratello del sindaco (all’epoca Candido Caligiuri), che riconobbe il Ronco e corse a informare della cosa il capitano della guardia nazionale. Gli sconosciuti, dopo avere acquistato gli alimenti, si dileguarono nella boscaglia dirigendosi verso il fiume Lepre in territorio di Caccuri. Le guardie si lanciarono all’inseguimento, ma non riuscirono a intercettarli. Pietro Ronco era già noto alle forze dell’ordine perché in passato si era reso complice di altri fuorilegge in azioni criminose nel territorio diMelissa76.

Il mese dopo, a poche centinaia di metri di distanza, in contrada Bordò in agro di Caccuri, fece una delle sue prime apparizioni il famigerato Giovanni Cosco, alias Zirricu, un brigante che per oltre due anni avrebbe dato del filo da torcere a carabinieri e guardia nazionale prima di chiudere la sua triste esistenza proprio nel territorio caccurese.

Zirricu era nato a San Giovanni in Fiore nel 1830 da Pasquale Cosco, un onesto contadino, ma si era poi trasferito a Cerenzia avendo sposato la cerentinese Isabella Grande. Datosialla macchia, entrò a far parte della banda di Antonio Gallo, alias Serra della quale facevano parte altri scelleratisangiovannesi.

La sera del 24 maggio del 1866 Zirricu e Giuseppe Gallo, alias Chillino, aggredirono a mano armata, tra Bordò e Laconi, quattro mulattieri di Aprigliano, Bruno Miglio, Carmine Ciacco, Pasquale Lepera e Stefano Crivaro. I quattro, con un carico di formaggio, ricotte e lana, provenivano da Papanice ed erano diretti nel loro paese d’origine. I due masnadieri li spogliarono di ogni cosa. Il bottino consistette in 43 forme di formaggio e 20 ricotte, per un valore complessivo di 320 lire e di un carico di lana del valore di

200 lire. Uno dei malfattori dell’apparente età di 35 anni (presumibilmente il Cosco) vestiva calzoni corti e giacca, lunghi calzettoni di lana bianca, cappello e scarpe all’italiana77.

Meno di un mese dopo, il nove giugno, nel bosco di Casalinuovo a poche centinaia di metri da Santa Rania, tre ignoti grassatori sorpresero il mulattiere Tommaso Acciardo, alias Capasa, nativo di Aprigliano, ma residente a Cotronei. L’Acciardo trasportava vino, ma, in questo caso, i malfattori si limitano a rubargli sette piastre e una bilancia78.

Trascorse ancora un mese e ricomparvero Zirricu e i suoi scellerati compagni. La notte del 22 luglio a San Lorenzo, contrada dell’agro di Caccuri territorio a nord - ovest della cittadina, un ignoto malfattore armato di pistola affrontò il giovane possidente Ignazio Brisinda di Casino. Il Brisinda, che proveniva da Pallagorio e stava facendo ritorno al suo paese, ebbe probabilmente un gesto di reazione che innervosì il malvivente il quale gli esplose contro un colpo di pistola fortunatamente senza colpirlo. A questo punto sbucarono dal bosco i complici che sequestrarono il possidente, lo legarono e lo condussero nel casolare di campagna di un certo Francesco De Simone, in territorio di San Giovanni in Fiore79. Nella stessa notte lo trasferirono in un casolare vicino, di proprietà di Biagio Fergiano e Domenico Ferrise e lo legarono, poi decisero di portarlo in Sila, ma giunti in località Colla, approfittando della distrazione dei suoi maldestri sequestratori, l’ostaggio riuscì a fuggire. I briganti, rabbiosi, gli esplosero contro numerose fucilate, manon

riuscirono a colpirlo. La mattina del 23 la Guardia nazionale di Casino effettuò una perquisizione, nella zona dove il Brisinda riferì di essere stato condotto e, in uno dei casolari, fu rinvenuta unacarabina.

Qualche tempo dopo l’intera banda Gallo, identificata forse proprio attraverso la testimonianza del Brisinda, venne catturata e l’undici febbraio del 1867 il giudice istruttore interrogò tutti gli imputati i quali, com’era facilmente prevedibile, negarono ogni addebito. Il venti febbraio lo stesso giudice formalizzò i capi di imputazione nei confronti di tutti gli indagati accusandoli anche di grassazione in danno di Giuseppe Mauro e Giuseppe Fabiano, cittadini di Casino, consumata il 17 agosto del 186680. Oramai aggressioni e grassazioni si ripetevano a intervalli regolari di un mese.

Il due agosto un gruppo di mulattieri di Petilia Policastro, Antonio e Domenico Miletto, Bruno Lombardiasi, Francesco Covelli, Francesco Pace e Paolo Angotti stavano facendo ritorno al loro paese da San Giovanni in Fiore dove erano andati a vendere pomodori. Avevano raggranellato una discreta sommetta frutto del loro povero lavoro ed erano felici di tornare a casa. Giunti in località Serra del bosco, in agro di Caccuri, ebbero la sgradita sorpresa di essere aggrediti, verso le quattro del pomeriggio, da due ignoti malfattori armati che li fecero sdraiare per terra e li rapinarono di tutto il danaro che avevano addosso gettandoli nella disperazione. I briganti erano armati fucili e pistole e avevano il viso coperto da fazzoletti bianchi. Uno di loro era vestito di panno con pantaloni lunghi, calzettoni gialli e scarpe, l’altro aveva calzoni corti e calandrette, senza giacca né gilet. I mulattieri non furono in grado di individuare il paese d’origine dei grassatori e fecero confusione sul dialetto che, secondo loro, poteva essere quello di Casino o di Savelli, ma anche di Cotronei. Il dodici settembre il giudice interrogò i contadini Giovanni Oliveti, alias Ceglino e Giovanbattista  Minardi che abitavano a Patia, ma i due non furono in grado di fornire elementi utili all’indagine. Gli autori del misfatto rimasero ignoti e il procuratore del re dichiarò il non luogo aprocedere81.

Dopo qualche mese di relativa calma si registrò un altro episodio di brigantaggio, come al solito enfatizzato dalla guardia nazionale e ridimensionato dai carabinieri che, molto più dei gendarmi locali – troppo spesso accecati dalle passioni e dall’odio

contro la povera gente e desiderosi di acquisire meriti agli occhi delle autorità e dei loro amici agrari – sapevano capire le ragioni e la disperazione dei contadini e dei vaticali costretti a darsi alla macchia per sbarcare il lunario.

La notte dell’otto aprile del 1867 un gruppo di individui, coperti da mantelli che li rendevano irriconoscibili, in località Passo di cavallo, provenendo dal territorio di Caccuri, sconfinarono in quello di Cerenzia. Sul posto si trovava per caso il trentasettenne caccurese, capitano della guardia nazionale di Cerenzia Giuseppe Quintieri che, oltre a essere il capo dei gendarmi svolgeva anche le mansioni di segretario comunale nel paesino presilano. Assieme al capitano c’era anche la guardia Tommaso Aragona. I due ritennero loro dovere identificare gli sconosciuti per cui intimarono loro di fermarsi e di farsi riconoscere. Gli sconosciuti interrogati risposero di essere amici, ma rifiutarono di farsi identificare. A questo punto il capitano chiese l’aiuto di alcuni contadini presenti sul luogo, ma gli uomini dai mantelli scuri, approfittando di un attimo di distrazione dell’ufficiale, si diedero alla fuga. Le due guardie spararono diversi colpi di fucile nella direzione nella quale il gruppo si era dileguato, ma, con il favore dell’oscurità, gli sconosciuti la fecero franca.

La mattina dopo un vetturino si presentò al sindaco di Cerenzia denunciando di essere stato aggredito nel corso della notte, da tre individui armati di fucili militari e col volto coperto da fazzoletti. I malfattori gli avevano sottratto 130 ricotte che trasportava in due ceste e vari altri oggetti. Interrogato dal parroco don Muzio Quintieri, il malcapitato dichiarò di essere un certo Francesco Falconi originario di Celico e al servizio del signor Morelli.

Delle due vicende vennero investiti i Reali carabinieri di Savelli che il tredici aprile, dopo un sopralluogo, stesero il rapporto n. 135 con il quale informavano della vicenda l’autorità giudiziaria. Secondo questo documento i malfattori con i quali si era scontrato il capitano e segretario comunale Quintieri “non erano veri e propri briganti, ma villici dei paesi circonvicini spinti a tanto dalla miseria”82.

La notte del dodici gennaio del 1868 Tommaso Lopez, figlio di Giuseppe, proprietario terriero di San Giovanni in Fiore, si trovava a Giacchetta, una contrada dell’agro di Caccuri, nella sua casa di campagna. Poco distante c’era l’ovile di proprietàdel

padre che era custodito dal pastore Saverio Ferrarelli. All’improvviso, dall’oscurità balzarono due ignoti malfattori armati di fucile, che si presentarono al pastore e lo obbligarono a scannare una pecora e a portarla nella cappella diroccata che si trovava nelle vicinanze dell’ovile. Sull’uscio trovò altri due fuorilegge e, all’interno della vecchia chiesetta dell’ex monastero di San Bernardo, altri otto masnadieri aspettavano, evidentemente, la cena. I briganti gli chiesero se il suo padrone, Giuseppe Lopez, fosse lì a Giacchetta, nella sua casa di campagna ma il pastore rispose loro che il padrone era tornato a San Giovanni da qualche giorno, poi chiese ai fuorilegge se poteva denunciare il fatto alle autorità perché certamente ne sarebbero venuti a conoscenza e lui avrebbe potuto essere accusato di connivenza. I briganti gli risposero che poteva farlo e, consumata la cena, sparirono nell’oscurità. La mattina del tredici il pastore raccontò l’episodio a Tommaso Lopez che era in compagnia di Giuseppe Iaquinta, un pastore che custodiva un gregge del signor Benincasa, nel territorio di Cerenzia, a poca distanza da Giachetta. Il Ferrarelli non seppe identificare nessuno dei fuorilegge, ma riferì che dal dialetto gli era sembrato che fossero originari di uno dei casali di Cosenza.

Il 28 febbraio del 1868, quando sembrava davvero che il brigantaggio fosse oramai sconfitto e che le nostre popolazioni non avrebbero più sentito parlare di estorsioni, grassazioni, minacce e ricatti, Giovanni Cosco, detto Zirricu e Antonio Gallo, alias Serra, evasero dalla Camera di sicurezza di Soveria Mannelli dove erano detenuti a seguito del sequestro Brisinda e di altri reati consumarti nei due anni precedenti.

Questa notizia provocò sconcerto e apprensione nelle popolazioni di Cerenzia e soprattutto di Caccuri, che già in passato era stata teatro delle gesta criminali del Cosco. Il brigante infatti, avrebbe ancora seminato il terrore per altri otto mesi. Ma il 21 aprile, la guardia nazionale di San Giovanni in Fiore diede il primo duro colpo alla banda, riuscendo a intercettare e arrestare Serra nelle campagne limitrofe alla città di Gioachino. Mentre lo trasferiva in catene in paese, il brigante mise in atto un ultimo, disperato quanto impossibile tentativo di fuga, che gli procurò una scarica di piombo nella schiena che mise fine alla suaesistenza83.

La pericolosità del Serra e della sua banda si evince dalla caccia spietata che le autorità diedero, non solo agli stessi briganti,

ma anche a coloro i quali ritenevano fossero loro manutengoli. Le persone ricercate, infatti, furono in tutto 33 e, nei mesi di aprile e maggio del 1868 furono arrestate otto persone, tre delle quali donne84.

Zirricu, separatosi dal suo capo, si dileguò per ricomparire, qualche giorno dopo, nella zona di Caccuri. Qui pare sia riuscito a raccogliere alcuni malviventi di San Giovanni in Fiore e di Caccuri e a ricostituire una banda con la quale commise ripetuti misfatti. Le notizie, a questo punto, diventano confuse e appaiono più frutto di leggende che relative a fatti realmente accaduti. La stessa fine è avvolta da un alone di mistero. Secondo i carabinieri fu ucciso il dieci ottobre del 1868 in un conflitto a fuoco dalle forze dipendenti dalla zona militare in territorio di San Giovanni in Fiore85. La tradizione popolare racconta invece, della morte di Zirricu a Eydo, territorio di Caccuri. A ucciderlo sarebbe stato il macellaio caccurese Tommaso Secreto, alias Pintisciolle che, dopo averlo freddato, gli recise il capo, lo infilzò a una pertica e lo portò in paese. Pare poi che abbia organizzato una sorta di “trionfo” per le strade di Caccuri portando in processione il macabro trofeo al suono di tamburi tra urli di scherno e schiamazzi delle guardie nazionali. In realtà Zirricu fu effettivamente ucciso a Eydo alle ore 21 del dieci ottobre del 1868 per come risulta dal suo atto di morte86. A portare la notizia in comune furono il calzolaio Pasquale Fazio e il figlio Domenico. Non siamo in grado però di precisare, sulla base di documenti inoppugnabili, quello che fu il ruolo effettivo di Pintisciolle. Probabilmente faceva parte della guardia nazionale e potrebbe essere effettivamente l’uccisore del brigante. Certamente l’insperato colpo di fortuna lo portò a enfatizzare la sua partecipazione all’azione e ad arricchire l’episodio di particolari completamente inventati che contribuirono ad alimentare la “leggenda” di Zirricu.

Con la scomparsa di quest’ultimo brigante, il cui vero nome fu rimosso dai Caccuresi, tanto era l’orrore che suscitava, scomparve anche il fenomeno del brigantaggio a Caccuri e dintorni, anche se rimase ancora qualche strascico. Ma si trattò di episodi scarsamente rilevanti e fisiologici. L’unico fatto di rilievo infatti si ebbe nel marzo del 1876 con un tentativo di estorsione ad opera di due govani di Petilia Policastro, Salvatore Nicotera e Carmine Bianco ai danni del possidente Salvatore De Luca. Poi, finalmente, almeno a Caccuri, di briganti,. grassazioni, minacce ed estorsioni non si sentì più parlare e gli unici reati   dei quali continuarono a macchiarsi i caccuresi,  almeno per qualche anno, anno furono le denunce per tentato contrabbando di sale, in pratica tentativi di sottrarre furtivamente  qualche chilo di sale dalle vecchie saline per usi domestici. 

 

  76 Archivio di Stato di Catanzaro, Processi politici e brigantaggio, busta 68, fasc. 603

77 Archivio di Stato di Catanzaro, Miscellanea di processi politici, busta 9, fasc. 132

  78 Archivio di Stato di Catanzaro, Miscellanea di processi politici, busta 7, fasc. 81.

  79 Archivio d Stato di Catanzaro, Processi penali e brigantaggio, busta 7, fasc.

 

80 Archivio di Stato di Catanzaro Miscellanea di processi penali, busta 8, fasc. 115

81 Archivio di Stato di Catanzaro Miscellanea di processi penali, busta 7, fasc. 84.

 

82 Archivio di Stato di Catanzaro, Processi penali e brigantaggio, busta 130, fasc. 1302.

 

  83 Archivio di Stato di Catanzaro, Miscellanea di processi penali, busta 8, fasc. 115, lettera dei Reali carabinieri di Catanzaro, 

  Compagnia di Catanzaro, al Giudice istruttore del tribunale di Catanzaro del 28-1-1869, prot. 586, divisione 3.

 

84 Archivio di Stato di Cosenza(Via Miceli), Prefettura, brigantaggio, busta 8, fasc. 312

85 Archivio Storico di Catanzaro, Miscellanea di processi penali, busta 8, fasc. 115, lettera dei Reali carabinieri di Catanzaro, Compagnia di Catanzaro, al Giudice istruttore del tribunale di Catanzaro del 28-1-1869, prot. 586, divisione 3.

 

86 Comune di Caccuri, Registro degli atti di morte del 1866, atto n. 62.

Capitolo 7

                                                                                                         La rivolta del sale - Il processo Secreto  

Ho più volte accennato al sale e alla importanza che aveva per il popolo questo prezioso quanto, ai tempi, costoso minerale. Lo Stato ne aveva da sempre il monopolio e reprimeva ferocemente ogni tentativo di sottrarne anche quantità irrisorie alle numerose saline della zona. Questo comportamento adottato dai borboni, fu ripreso dallo Stato unitario che ne detenne il monopolio fino a qualche decennio fa. Nella nostra zona, fino al 1826, esistevano numerose saline dalle quali veniva estratto regolarmente il minerale. Con un decreto del 13 aprile di quello stesso anno, le cave di Basalicò e Manca del Vescovo in territorio di Caccuri, Nuovo Scavo e Salina Nuova, nei pressi del fiume Neto e Smirne in territorio di Cotronei – aperta solo da qualche anno – furono chiuse perché quelle di Altomonte, Barletta e Trapani erano già sufficienti a coprire il fabbisogno di sale in tutto il regno. Lo stato borbonico, come anche quello italiano, ne conservò il monopolio, sorvegliando le cave inattive e impedendovi categoricamente l’accesso.

L’esistenza di quelle “miniere” abbandonate costituì sempre una irresistibile tentazione per la povera gente, ma anche per i contrabbandieri, per cui fu necessario prevederne il controllo anche attraverso l’istituzione, nei primi anni del XX° secolo, di una caserma della finanza che avesse sede nell’ex convento dominicano di Caccuri.

Nel 1864 la popolazione caccurese era più che mai esasperata dalla miseria e dalla guerra contro il brigantaggio. La presenza dell’esercito e dei briganti che scorrazzavano per le campagne, le ruberie, le grassazioni, molte delle quali nemmeno denunciate, rendevano la vita molto difficile.

La mattina del 22 aprile una folla di uomini e di donne si presentò alla salina di Basalicò per sottrarre sale. Erano presenti alcune guardie doganali in numero assolutamente insufficiente a sedare la rivolta. Comunque, avendo evidentemente conosciuto in anticipo le intenzioni della popolazione, avvisarono la guardia nazionale di Caccuri che raggiunse tempestivamente il luogo nel quale si svolgevano i fatti, a oltre cinque miglia dall’abitato e riuscì a disperdere i malintenzionati. Ritenendo così risolto il problema, il comandate e i suoi uomini fecero rientro in paese lasciando sul posto le sole guardie doganali.

Il giorno dopo i rivoltosi si ripresentarono alla salina. Erano circa duecento tra caccuresi – che erano la stragrande maggioranza – cerentinesi e verzinesi. Alcuni erano armati di fucile, scuri, bastoni, picconi, vanghe, altri semplicemente di bisacce. Le poche guardie presenti intimarono l’alt, ma questa volta non riuscirono a farsi obbedire e i rivoltosi cominciarono a saccheggiare la cava e a riempire sacchi e bisacce di sale. All’improvviso giunse sul posto un drappello di guardie doganali coadiuvato dalla guardia nazionale. I gendarmi intimarono ai facinorosi di desistere dai loro propositi e di svuotare le bisacce, ottenendo la reazione rabbiosa degli insorti che, minacciandoli con le scuri, si avvicinarono alle guardie. Alcuni aggredirono anche il sottobrigadiere Ferrini. A questo punto il comandante delle guardie ordinò di aprire il fuoco. Dopo la scarica caddero a terra il mugnaio caccurese Gennaro Pisano di Vincenzo, appena trentenne e Salvatore Secreto, anch’egli caccurese. Il Pisano, colpito da diverse fucilate, apparve subito il più grave fra i due.  La reazione delle guardie convinse gli insorti a desistere e ad abbandonare il sale che avevano già raccolto. I due, feriti molto gravemente, furono trasportati a Caccuri. Il Secreto sopravvisse, ma il Pisano esalò l’ultimo respiro giunto in contrada Acquacalda72.

Fra i rivoltosi vennero denunciati i più facinorosi e coloro i quali erano risultati armati. Si trattava dei caccuresi Gennaro Pisano, poi deceduto, Rocco Scigliano fu Pietro, Nicola, Giovanni e Michele Pasculli fu Savino, Francesco Antonio Falbo di Agostino, Salvatore Silletta, Francesco Falbo di Gregorio, Giuseppe Gigliotti fu Luigi, Raffaele Secreto fu Rocco, Maria Lucente fu Giacomo, Scolastica Rao, Stefano Pirito fu Vincenzo, Salvatore Secreto fu Giuseppe, Angela Maria Falbo, Rocco Perri fu Carmine, Saverio e Domenico Guzzo fu Lorenzo, Raffaele Falbo di Agostino, Giuseppe Oliverio fu Benedetto e Gaetano Caputo.

Il giudice istruttore affrontò la vicenda con scrupolo ed equilibrio riconoscendo, per quanto era possibile, le ragioni dei rivoltosi, evidentemente ai limiti della sopravvivenza. Riconobbe che molti di loro non avevano opposto resistenza alla forza pubblica, né si erano resi responsabili di violenza, ma intenti solo a prelevare del sale, genere di prima necessità e quasi impossibile da permettersi viste le condizioni di miseria in cui erano costretti a vivere. Derubricò poi il reato da grassazione a semplice contravvenzioni alle leggi doganali poiché la stragrande maggioranza dei rivoltosi aveva tentato di sottrarre quantità di sale inferiore a 20 chilogrammi che, fra l’altro, abbandonò all’arrivo delle guardie. Per questi motivi dichiarò il non luogo a procedere per la stragrande maggioranza degli imputati, chiedendo il rinvio a giudizio solo per 26 individui o perché furono visti armati o perché erano fra quelli che incitavano alla resistenza. In particolare accusò Giuseppe Gigliotti e Raffaele Secreto di essere stati visti armati di fucile, così come anche il Secreto che fu ferito e il Pisano che morì dopo lo scontro, Rocco Perri, perché armato di accetta e Raffaele Falbo, Gaetano Caputo, Giuseppe Oliverio, Salvatore Mangone e Leonardo Aragona di Cerenzia per incitamento alla rivolta, mentre Scolastica Rao e Maria Lucente subirono una contravvenzione. Tutti gli altri vennero prosciolti.

Per Giuseppe Gigliotti, Raffaele e Salvatore Secreto, Rocco Perri, Raffaele Falbo, Gaetano Caputo, Giusepe Oliverio, Salvatore Mangone e Leonardo Aragona spiccò, invece, il mandato dicattura73.

La brutale repressione piemontese non si esercitò soltanto con i battaglioni dell’esercito, con i carabinieri (che furono, frale forze utilizzate nella repressione, i più aperti e comprensivi nei confronti dei poveracci), con i gendarmi locali, quasi sempre longa manus della borghesia agraria, ma anche attraverso l’istruzione di processi farseschi frutto della delazione e dello zelo odioso di lazzaroni di paese desiderosi di ingraziarsi le nuove autorità e i signorotti del luogo. Molti furono i poveri cristi arrestati e processati a seguito di odiose spiate e con accuse al limite del ridicolo. Vale la pena citarne qualcuno: Nicola Garruba e Paolo Minardi di Cotronei, processati nel novembre del 1860 perché accusati di “discorsi pubblici e cartelli ad oggetto di cambiare e distruggere il Governo”; Vincenzo Lamanna, caccurese, Residente in Casino, figlio di Bruno, il capo degli urbani di Caccuri,che abitava a Casino, accusato di aver “fomentato malcontento contro il governo nel territorio di San Giovanni in Fiore”; Domenico Cerminara di Pallagorio, processato nel febbraio del 1863 per “discorso tendente ad eccitare lo sprezzo e il malcontento contro la sacra persona del Re”. Ma se ne potrebbero citare molti altri. Anche Caccuri ebbe il suo “pericoloso sovversivo”: Angelo RaffaeleSecreto.

Il Secreto, di professione mulattiere, nacque a Caccuri il tre luglio del 1813. Nel clima irrespirabile che si era creato in quei tempi, qualsiasi malcontento e mugugno contro il nuovo Stato unitario era considerato un atto sovversivo intollerabile. Il poveraccio fu imputato nientemeno che “di pubblico discorso col reo fine di eccitare lo sprezzo ed il malcontento contro il governo”, reato consumato a Caccuri il sei settembre del 1865. Cosa aveva combinato di così grave questo pericoloso agitatore? Ecco ifatti.

Il Segreto, soprannominato Panecauro, chiacchierando del più e del meno nella bottega di barbiere e calzolaio di Luigi Scigliano di Tommaso, sostenne di aver saputo, a Cotronei, che il re Vittorio si apprestava a coniare nuove monete di rame e per far ciò  avrebbe fatto requisire e confiscare tutti gli oggetti di rame che le guardie avessero trovato nelle case. Forse aggiunse anche qualche considerazione poco rispettosa nei riguardi del re, ma, più probabilmente, si limitò a riferire una fandonia che aveva effettivamente sentito raccontare e che, in tempi normali, sarebbe stata considerata né più, né meno che una barzelletta, invece non fu così. Qualche spia da strapazzo che se ne stava a bighellonare nella bottega si precipitò alla caserma della guardia nazionale a raccontare l’accaduto. La cosa fu denunciata al giudice del mandamento di Savelli che chiese immediatamente ragguagli al delegato di Pubblica sicurezza di San Giovani in Fiore. Lo zelante funzionario di polizia gli rispose con nota del 14 settembre che “il Segreto era uno spargitore di voci allarmanti contro il Re e il governo del Regno d’Italia provocando in tal guisa disprezzo e malcontento”.

Preoccupato dai frutti nefasti che la propaganda di un così pericoloso agitatore politico avrebbe potuto produrre, il giudice lo fece tradurre in carcere. In data otto settembre raccolse la testimonianza di Saverio Lamanna, fabbro ferraio, figlio di Bruno Lamanna, la guardia urbana che abbiamo già incontrato in alcuni episodi di repressione del brigantaggio. L’artigiano, con uno zelo degno di miglior causa, dichiarò che nella mattinata del sei settembre, nella bottega di Luigi Scigliano, il Segreto “teneva argomenti atti a far nascere nella popolazione sospetti sulle intenzioni del governo e, fra le altre cose, asseriva di aver saputo in Cotronei che Vittorio era venuto nella determinazione di fare moneta portando via ad ogni casa gli oggetti di rame che si sarebberotrovati”.

Anche lo Scigliano, sentito dal giudice, si mostrò zelante oltremisura e confermò, sostanzialmente, le parole del Lamanna. L’unico che mostrò un briciolo di buon senso e non si fece condizionare dalla fregola delatoria, fu il macellaio Tommaso Secreto (Pintisciolle), futuro giustiziere del brigante Zirricu il quale sostenne che nelle parole del Segreto non c’era il fine di eccitare la popolazione contro il governo e che l’imputato aveva costantemente tenuto una condotta morale e politica regolare.  

L’imputato fu ascoltato dal giudice il 19 settembre e si discolpò sostenendo di avere riportato una notizia che aveva sentito da altri e che non aveva alcuna intenzione di eccitare la popolazione. Così, dopo ulteriori atti istruttori, il giudice lo assolse e il sottoprefetto di Catanzaro lo rimise in libertà la mattina del 13 ottobre 186574. Il mulattiere che con le sue chiacchiere da salone aveva messo in pericolo l’unità dell’Italia e la corona savoiarda morì a Caccuri il 14 aprile del187975.

                          

72 Comune di Caccuri, Registro degli atti di morte del 1864, atto n. 16

 

73 Archivio di Stato di Catanzaro , Processi politici e brigantaggio, Busta 71, fascicolo 634

                              74 Archivio di Stato di Catanzaro – Processi penali – Fascicolo 652.

              75 Comune di Caccuri – registro degli atti di morte del 1879, n. 19

 

 

 

                                                                                                                        Capitolo 6

 

La guerra si intensifica – La Commissione parlamentare Massari e la legge Pica. – La banda Monaco e altri episodi

 

Nel secondo anno di quella che era oramai diventata una guerra civile, ci fu una intensificazione degli scontri con molti caduti da una parte e dall’altra. Dati ufficiali di parte piemontese parlarono di 37 paesi rasi al suolo, di 15.665 fucilati e di 20.000 caduti in combattimento nel solo 1862. La guerra assunse proporzioni tali che lo stesso re, seppur per un tempo brevissimo, prese in considerazione l’ipotesi di abbandonare le terre conquistate tre anni  prima.

Briganti ed esercito regio si scontrarono e si combatterono con una ferocia pari, se non maggiore, di quella che contraddistinse la guerra d’inizio secolo contro l’occupazione francese. L’esercito, che presidiava gran parte dei paesi della nostra zona e di tutto il Mezzogiorno, si rese colpevole, quanto i briganti, di devastazioni, esecuzioni sommarie e altri efferati episodi, tanto da suscitare perfino la reazione sdegnata di intellettuali non certo reazionari come Massimo D’Azeglio. Perfino Bixio, protagonista dell’eccidio di Bronte, in un famoso intervento al Parlamento, nel 1863, ebbe a denunciare: “Un sistema di sangue è stato stabilito nel Mezzogiorno. C’è l’Italia là, signori, e se volete che l’Italia si compia bisogna farla con la giustizia e non con l’effusione di sangue”. I briganti meridionali riscuotevano, a volte, simpatie davvero insperate, perfino tra deputati liberali, eredi politici del Cavour. Il deputato Ferrari, nel novembre del 1862, nell’aula della Camera, rivolto ai banchi del governo disse: “Potete chiamarli briganti, ma combattono sotto la loro bandiera nazionale; potete chiamarli briganti, ma i padri di questi briganti hanno riportato due volte i Borboni sul trono di Napoli. È possibile, come il governo vuol far credere, che 1500 uomini comandati da due o tre vagabondi tengano testa a un esercito regolare di 120 mila uomini? Ho visto una città di 5 mila abitanti completamente distrutta e non dai briganti” (il riferimento è a Pontelandolfo in provincia di Benevento). E in un’altra occasione: “Non potete negare che intere famiglie vengono arrestate senza il minimo pretesto; che vi sono, in quelle province, degli uomini assolti dai giudici e che sono ancora in carcere. Si è introdotta una nuova legge in base alla quale ogni uomo preso con le armi in pugno viene fucilato. Questa si chiama guerra barbarica, guerra senza quartiere. Se la vostra coscienza non vi dice che state sguazzando nel sangue, non so più come esprimermi”.

Con il passare dei mesi il bilancio della guerra divenne sempre più drammatico. I morti, soprattutto tra i briganti, si contavano oramai a decine di migliaia e la Camera fu costretta a istituire, in data 16 dicembre 1862, una commissione di inchiesta sul brigantaggio.

La commissione, coordinata da Giuseppe Massari e di cui faceva parte anche Nino Bixio, entrò in carica nei primi giorni di gennaio del 1863 e, dopo un viaggio nel Sud dei nove deputati che la componevano, portò a termine la sua inchiesta sui mali del Mezzogiorno. Questo documento servì poi per varare la legge Pica, dal nome del deputato abruzzese che la predispose. Fu una legge odiosa, che istituiva i tribunali militari per i componenti di banda armata, composta da almeno tre persone, stabiliva la fucilazione per resistenza armata contro la forza pubblica e il domicilio coatto per un periodo di tempo non superiore a un anno per vagabondi, oziosi e persone sospette e favoriva e incentivava la delazione e il tradimento. È stato calcolato che questi provvedimenti provocarono la morte di almeno 5.000persone.

La relazione Massari faceva, comunque, uno sforzo per individuare le ragioni sociali del brigantaggio, anche se, durante la discussione in Parlamento, si ebbe uno scontro tra il relatore che imputava il fenomeno soprattutto all’attività cospirativa degli agenti borbonici e clericali e Aurelio Saffi che sottolineava come  a determinare la rivolta della povera gente era la miseria e l’arretratezza nelle quali era costretta a vivere. In un passo del documento che descrive la situazione nella provincia di Foggia si legge: “I terrazzani e i cafoni hanno pane di tal qualità che non ne mangerebbero i cani. Tanta miseria e tanto squallore sono naturale apparecchio al brigantaggio. La vita del brigante abbonda di attrattive per il povero contadino il quale, ponendola a confronto con la vita misera che egli è condannato a menare, non inferisce di certo, dal paragone, conseguenze propizie all’ordine sociale. Il contrasto è terribile e non è a meravigliare se, nel maggior numero di casi, il fascino della tentazione al male oprare sia irresistibile”. Un’analisi, come si vede, abbastanza precisa dei mali del Sud, anche se una certa storiografia revisionista, cadendo nell’eccesso opposto, tenta di nascondere le miserabili condizioni in cui, anche i borboni, tenevano la povera gente presentando il brigantaggio esclusivamente come una risposta insurrezionale di massa all’occupazione piemontese che depauperò il Sud delle sue ricchezze.Evidentemente,comesempre,laverità sta nel  mezzo e forse sarebbe più corretto parlare di un brigantaggio post unitario alimentato, come sempre, dalla miseria e  dall’emarginazione delle masse popolari, ma rinfocolato e risvegliato dalla brutale annessione piemontese che aveva conservato intatte, anzi aveva aggravato le ingiustizie secolari di cui i poveri erano stati sempre vittime.

Riportiamo per curiosità la parte di relazione che ci riguarda da vicino in quanto fa riferimento alle province di Catanzaro, Cosenza e Reggio e che recita: “Nella provincia di Reggio difatti, dove la condizione del contadino è migliore, non vi sono briganti. Nelle altre due Calabrie, la provincia di Catanzaro e quella di Cosenza, le relazioni tra contadini e proprietari sono cordiali e, quindi, allorché questi invocano l’aiuto di quelli per difendere la proprietà e la sicurezza, sono sicuri di conseguirlo”. Sorprendente! Dai racconti dei nostri nonni, dai canti popolari, da tutto quello che avevamo sin qui sentito raccontare non avremmo mai sospettato rapporti così idilliaci tra i nostri contadini e i nostri baroni, si vede che i nostri poveri cafoni non avevano mai letto la relazione Massari. La verità è, invece, che anche dopo l’unità d’Italia, l’odio dei contadini divenuti briganti per necessità, era sempre ferocemente rivolto contro i ricchi, i baroni, gli usurpatori delle terre demaniali che erano i loro affamatori e, di  conseguenza, anche contro lo Stato che li difendeva e li tutelava. I proprietari lo sapevano e armavano e istigavano contro i briganti i loro guardiani, i loro manutengoli che si affiancavano alla guardia urbana nella repressione. Questi individui erano anche feroci e spietati e spesso il loro zelo appariva perfino eccessivo. Fu per questi motivi che il generale Nunziante sentì il bisogno, già nel 1850, di ordinare il disarmo dei guardiani che erano al servizio dei proprietari, anche se il provvedimento non venne mai attuato proprio per le resistenze deisignori.

La legge Pica che avrebbe dovuto rimanere in vigore fino al dicembre del 1863, ma che fu prorogata fino alla fine del 1865, e altri provvedimenti e arbitrii come l’ordine dato da Lamarmora ai procuratori, di non “porre in libertà nessuno dei detenuti senza l’assenso dell’esercito”, oltre a mostrare il volto feroce e brutale della dominazione piemontese, suscitarono sgomento e critiche in tutta l’Europa.

Di fronte all’efferatezza dell’esercito e ai provvedimenti repressivi del governo i briganti non stavano certo a guardare e si vendicavano ogni qualvolta gli si presentava l’occasione. Alcuni di loro che avevano addirittura disertato dall’esercito borbonico per seguire Garibaldi nell’illusionechele cose cambiassero 

davvero e che si videro poi smobilitati, emarginati, rispediti a casa disoccupati e più disperati di prima, covavano un odio mortale per il nuovo Stato unitario, per i suoi funzionari, per i suoi fiancheggiatori e per i suoi soldati. Uno dei più determinati in questo senso fu Pietro Monaco, celebre brigante della Sila che per tre anni scorrazzò in lungo e in largo, sfuggendo all’esercito e alla guardia nazionale, prima di cadere per mano di compagni traditori comprati col danaro dalle forze della repressione.

Il Monaco era un sottufficiale borbonico. Quando Garibaldi giunse in Calabria, abbracciò la causa rivoluzionaria e disertò dall’esercito borbonico per indossare la camicia rossa. Da volontario seppe battersi così bene da guadagnarsi il gradodi sottotenente. Conclusasi l’avventura garibaldina, l’ex sergente dell’esercito borbonico fu smobilitato come tanti altri volontari per cui si ritrovò disoccupato, emarginato e privo di prospettive per il futuro. Poco tempo dopo uccise un possidente di Serra Pedace e si diede alla macchia a capo di una feroce banda di fuorilegge.

Il 9 febbraio del 1864 la banda Monaco uccise, nel bosco di Casalinuovo, in agro di Caccuri Michele Corvino, cinquantaseienne di Lappano, guardiano del barone Barracco. Fu questa l’ultima scellerata impresa dei resti di questa terribile banda, In questa occasione, infatti, fu catturata anche Ciccilla, la moglie del Monaco che era subentrata nel comando della banda dopo la morte del marito. 67). Qualche mese dopo ai parenti della vittima, che era celibe, venne elargita, dal Sotto prefetto di Crotone, la somma di 100 lire disposta dalla Commissione sul brigantaggio “onde alleviare la famiglia”68.

Pietro Monaco aveva sposato una donna molto passionale, Marianna Oliverio, alias Ciccilla, destinata a diventare la più famosa brigantessa del meridione. Marianna era la sorella di Concetta, in passato amante del brigante. Una volta che Pietro tornò di nascosto a casa, Ciccilla si accorse che il marito dedicava ancora particolari attenzioni alla cognata. Allora, qualche tempo dopo, la invitò a casa sua e la uccise a colpi di scure per cui dovette seguire il marito alla macchia.

Dopo l’assassinio del marito, nonostante fosse stata ferita dagli stessi compagni traditori all’avambraccio, per 47 giorni fu lei il capo della banda fino a quando, catturata dai reparti del capitano Dorna, nel territorio, di Caccuri fu processata e condannata a morte. La pena le fu poi commutata nei lavori forzati a vita e poi ulteriormente ridotta a quindici anni.

 

67 Comune di Caccuri, Registro degli atti di morte anno 1864, atto n. 5

68 Archivio di Stato di Catanzaro, Prefettura, Regia Sottoprefettura di Crotone, nota del 13 marzo 1864  

 

      69 Archivio di Stato di Catanzaro,Governatorato, busta 132, fasc. 2

      70 Chiara Camposampiero Barberio, op. cit., pag. 320

      71 Comune di Caccuri, Registro degli atti di morte anno 1882, atto n. 46

72 Comune di Caccuri, Registro degli atti di morte del 1864, atto n. 16

                                         

73 Archivio di Stato di Catanzaro , Processi politici e brigantaggio, Busta 71, fascicolo 634

                                       

74 Archivio di Stato di Catanzaro – Processi penali – Fascicolo 652.

75 Comune di Caccuri – registro degli atti di morte del 1879, n. 19