Giochi della nostra infanzia caccurese


                                    




  
Nel secolo scorso, quando  non erano stati inventati tamagotchi e playstation, flipper e cellulari con decine di giochini che isolano il fanciullo dai suoi compagni avviandolo sulla strada dell'emarginazione e della solitudine, le attività ludiche di gruppo costituivano ancora un importante momento di socializzazione, oltre che un'attività vitale, un mezzo col quale il giovane si confrontava con i suoi simili, misurava la propria abilità, imparava a rispettare le regole del vivere comune, formava la propria personalità.
   Nella Caccuri dei primi decenni del '900 (ma anche fino agli anni '60) non c'era nemmeno un campetto di calcio e gli emuli di Rosetta, di Mazzola, di Piola e di Biavati tiravano i loro primi calci al pallone in uno spiazzo del "Campo" al cui centro, invece del cerchio di centro campo, s'ergeva una maestosa quercia,  o in località "Praci" dove i piedi, a volte fasciati da scarpe rotte, a furia di calpestare i cespugli della macchia mediterranea (a quei tempi non c'erano ancora i pini) avevano dato origine ad uno spiazzo brullo le cui dimensioni si avvicinavano a quelle di un vero campo da calcio, tanto che il luogo era considerato il vero e proprio "Meazza" di Caccuri.
   Ma il calcio, sebbene gioco amato da sempre e da tutte le generazioni, non era l'unico che si praticava a quei tempi e, probabilmente, nemmeno il più praticato; altri ve n'erano, forse più appassionanti e suggestivi. In questa pagina cercherò di ricostruirne alcuni.

 

'A sgammia (Gioco del cappello)

  Questo gioco era molto praticato nei primi decenni del XX° secolo, anzi si può affermare, senza tema di smentita, che fosse il più praticato, fino a quando, a seguito di un paio di incidenti di una certa gravità, fu dismesso completamente. Consisteva nel prendere a  calci il cappello, (che a quell'epoca, anche  tra i  fanciulli,  era un indumento diffusissimo) del malcapitato di turno, fino a quando il proprietario non riusciva a strapparlo dai piedi degli altri giocatori. Quando ci riusciva, toccava a chi aveva sferrato l'ultimo calcio, evidentemente non bene assestato,  mettere per terra il suo cappello e cercare, a sua volta, di recuperarlo più o meno intatto. Per stabilire a chi toccava "l'onore" di depositare a terra il primo cappello, si faceva la conta. Questo simpatico gioco, quando non ci scappava la frattura della tibia o del perone, procurava, evidentemente, molto lavoro ai cappellai, mestiere all'epoca molto praticato e ora scomparso, forse anche a causa della scomparsa della "sgammia".

'A sguìglia (La lippa)

   'A sguglia era una variante tutta caccurese del famoso gioco della lippa. Ne esistevano due versioni: "a una sola ruota" e "alle due ruote." Nella variante a una sola ruota si giocava in due o tre. Si tracciava in terra un cerchio del diametro di un paio di metri, si fissava un tetto di punti da totalizzare per vincere la partita e si faceva la conta. Chi vinceva la conta aveva diritto di battere per primo, allora si metteva nel cerchio, impugnava un bastone ('a sguìglia)  della lunghezza di una sessantina di centimetri e con essa colpiva " 'u sguiglìnu" (la lippa), un bastoncino di una ventina di centimetri  appuntito alle due estremità, spedendolo il più lontano possibile.  L'altro giocatore andava a raccoglierlo e, dal punto in cui era caduto, lo rimandava verso il battitore cercando di farlo cadere all'interno del cerchio. Se ci riusciva diventava a sua volta battitore invertendo i ruoli con l'avversario. Il battitore, quando si vedeva rimandato indietro " 'u sguiglìnu", cercava di colpirlo al volo mandandolo il più lontano possibile. A questo punto, aveva tre possibilità di incrementare ulteriormente il bottino di punti. Allora colpiva con la "sguiglia"  " 'u sguglinu" su una delle due punte. " 'U sguglinu" si sollevava di qualche centimetro e il battitore, al volo, lo colpiva e lo allontanava ulteriormente dal cerchio. Questo, come già detto, per tre volte, pronunciando, ogni volta queste parole: "pizzu" per il primo colpo, "pane" per il secondo e "sazizza" per il terzo. Allora valutava la distanza tra " 'u sguiglinu" e il cerchio e calcolava quante volte in questa distanza poteva essere contenuta la lunghezza della "sguiglia." Poi chiedeva all'avversario" "Me ne dai tot.?" intendendo, "secondo me ci sono  tot.  sguiglie, mi dai tot punteggio?" Se l'avversario si rendeva conto che la richiesta era congrua, accettava, altrimenti chiedeva la verifica. Se dalla verifica risultava che il numero dei punti richiesti superava la distanza, il battitore perdeva e doveva cedere la battuta. Vinceva, ovviamente, chi raggiungeva per primo il tetto di punti prefissato.
   La variante "alle due ruote" era una vera e propria partita di baseball casereccio. I giocatori dovevano essere quattro divisi in due squadre. Sul terreno si tracciavano due "ruote" (cerchi) lontane una ventina di metri l'una dall'altra e si concordava il tetto dei punti della partita. Fatta la conta, si stabiliva quale squadra dovesse battere per prima. A questo punto, i battitori si ponevano uno di fronte all'altro, ciascuno con al fianco un lanciatore della squadra avversaria. Uno dei due colpiva " 'u sguglino" e lo mandava lontano il più possibile. Il lanciatore lo raccoglieva e cercava di rilanciarlo all'interno del cerchio cercando di conquistare la battuta. Il battitore, invece, cercava di colpirlo e spedirlo il più lontano possibile. A questo punto, il lanciatore che si riteneva più vicino al punto di caduta, correva veloce a raccogliere " 'u sguglino" e a rilanciarlo in un punto qualsiasi compreso tra le due "ruote". Mentre faceva questo, i due battitori si scambiavano velocemente di posto contando ad alta voce,  prima che " 'u sguglino" toccasse terra, accumulando punti. Se nel preciso istante nel quale " 'u sguglinu" ricadeva tra le due "ruote" uno dei battitori si trovava fuori da uno dei due cerchi, la squadra che batteva perdeva la battuta e i ruoli si invertivano.

'U cannatellu (il barattolo)

   " 'U cannatellu" era una intelligente variante della famosa "ammucciatella" (il nascondino), uno dei giochi più praticati dall'infanzia di tutti i continenti, apportata  dalla geniale inventiva di un ragazzo caccurese che abitava al rione Parte, nei primissimi anni '60. Ignoro, purtroppo, il  nome di questo intelligentissimo ragazzo che ora dovrebbe essere un tranquillo sessantenne e che dovrebbe abitare nel Nord dell'Italia. Se qualche lettore, o lo stesso interessato potesse fornirmi qualche notizia in merito inviandomi una e mail, gliene sarei davvero grato.
  Come nell' "ammuciatella",  si faceva inizialmente la conta per stabilire chi dovesse per primo "bendarsi" e dare il tempo agli altri di trovare un nascondino e per poi cercare di stanarli. Fatta la conta si tracciava un cerchio per terra del diametro di un ventina di centimetri e vi si collocava un barattolo di latta, di quello usato per il concentrato di pomodoro, pieno di sassolini e chiuso all'estremità superiore ammaccandolo con una pietra. Il "cacciatore", allora, sempre tenendo d'occhio "u cannatellu", si metteva alla ricerca dei ragazzi nascosti cercando , senza consentire loro di raggiungere e afferrare il barattolo, di stanarli. Una volta stanati, correva, afferrava " 'u cannatellu" e lo batteva tre volte per terra, mentre i sassolini producevano un rumore assordante, pronunciando ad alta voce il nome del fanciullo "stanato". Se uno dei ragazzi riusciva, senza essere visto, ad afferrare " 'u cannatellu", batterlo tre volte e gridare "liberi tutti", il gioco riprendeva sempre con lo stesso cacciatore;  se, viceversa, il cacciatore riusciva a "stanarli" tutti, toccava diventare cacciatore al primo che si era fatto "stanare"

I buttuni (I bottoni)

    Anche del gioco dei bottoni esistevano due varianti: "allu vulu" e "allu battu", ossia al volo o alla battuta. Quando si giocava "allu vulu" tra due giocatori, ciascuno di loro metteva in palio un certo numero di bottoni. Si stabiliva, per conta,  chi dovesse assumere per primo  il ruolo di scommettitore, mentre l'altro si metteva tra le mani chiuse a coppa i bottoni, li agitava a mo' di bussolotti, e li lanciava per aria, mentre lo scommettitore doveva pronunciare una parola del tipo "testa o croce". Quando i bottoni toccavano terra, si controllava il verso. Quelli del verso indovinati andavano allo scommettitore, quelli del verso opposto toccavano al lanciatore, dopo di che i ruoli si invertivano. A volte capitava che uno dei bottoni cadesse un po' inclinato " 'mpernu" per cui risultava assai difficile stabilire il verso e allora si producevano interminabili discussioni che richiedevano anche autorevoli arbitrati.
  Quando si giocava " 'allu battu" si sceglieva la parete liscia di una casa e i giocatori vi lanciavano il bottone contro facendolo ricadere lontano. Il secondo giocatore faceva la stessa cosa cercando di far cadere il suo bottone il più vicino possibile a quello dell'avversario. Se la distanza di ricaduta era inferiore ad un palmo, conquistava il bottone dell'avversario e ne diveniva il nuovo proprietario. Allu battu si giocava anche in tre o in quattro per volta.
   Le stesse regole valevano se, invece che a bottoni, si giocava " a sordi", ma questo potevano permetterselo i più danarosi o gli amanti dell'azzardo.
   Per giocare a bottoni, siccome le dimensioni degli stessi variavano continuamente, si era stabilito una sorta di "mercato dei cambi". Un bottone più grande " 'a chiaffa",  poteva valere 2, 3 o 4 di quelli più piccoli. La contrattazione, ovviamente, era affidata al libero mercato.

 

' U rrummulu (La trottola)

     Prima di parlare del gioco bisogna premettere che, per il 90%,  i "rrummuli" dei fanciulli caccuresi, erano fabbricati dagli stessi, spesso mettendo a repentaglio le mani esposte, pericolosamente, alle asce o alle raspe. Ma si trattava, quasi sempre, di veri e propri gioielli. I migliori erano quelli di "ilice" (elce, leccio), un legno molto duro che preservava " ' u rumulu" dai danni di cui parleremo in seguito. Le trottole che si compravano nei negozi, colorate e con la parte inferiore rigata, venivano disprezzate dai ragazzi che le chiamano spregiativamente "tavulonzi" (tavoloni, pezzi di legno molliccio).  Il gioco consisteva nel lanciare la trottola, attorno alla quale si attorcigliava un lungo spago,  cercando di colpire con la punta, quella del malcapitato di turno che era costretto a "parare", cioè a lasciare la propria trottola per terra alla mercè degli spietati compagni. Ovviamente le punte delle altre trottole lasciavano il segno, soprattutto se quella "parata" era un "tavulonzo". Se non la si colpiva direttamente, il lanciatore aveva la possibilità di prendere sul palmo della mano la propria trottola mentre ancora girava, accostarsi a quella "parata" e colpirla con la propria ancora in movimento. Se il lanciatore non riusciva a colpire la trottola direttamente o nemmeno  con la sua prendendola sul palmo della mano mentre ancora girava o, addirittura, non riusciva a fare girare la propria, doveva rassegnarsi a "parare" a sua volta "il suo rrummulu"  e assistere ai generosi tentativi di disintegrarglielo.
   Per stabilire a chi "toccava l'onore" di "parare" per primo, si tracciavano per terra dei cerchi concentrici (bersaglio) e si lanciavano le trottole. Chi colpiva più lontano dal centro o non riusciva a far girare la trottola, doveva rassegnarsi a fare da prima vittima.
   Anche di questo gioco esisteva una variante detta della "fossarella" (la buca). Tracciato il bersaglio, si scavava una piccola buca nel terreno alla distanza di una decina di metri. Stabilito col sistema del bersaglio  chi doveva "parare" la prima trottola, si stabiliva anche il numero delle "pernate", cioè dei colpi che ogni singolo giocatore   poteva infliggere alla trottola che finiva nella buca,  col perno metallico del suo "rrumulu". Allora il malcapitato di turno posava la sua trottola al centro del bersaglio e gli altri lanciavano il loro "rrummulu" cercando di colpire quello dell'avversario e infliggergli il primo danno. Poi prendeva la sua trottola sul palmo della mano mentre ancora girava, si avvicinava a quella posta a terra e gliela lanciava contro cercando di spingerla verso la buca. Questa operazione poteva essere ripetuta, dallo stesso giocatore, fin quando la sua trottola girava. Se sbagliava doveva depositare, a sua volta, la sua, nello stesso identico punto nel quale si trovava quella non colpita. Alla fine una delle trottole finiva nella buca e tutti i giocatori, a turno, le assestavano il numero delle "pernate" prestabilito tra le lacrime del povero proprietario. A volte, per evitare l'onta e i terribili danni al proprio "rrummulu", il poveraccio, lo afferrava di colpo e se la dava a gambe e allora erano botte da orbi.
 
Per dovere di cronaca va detto che il più grande giocatore di "rrumulu" che io abbia mai conosciuto era il mio carissimo amico e coetaneo Antonio Mercuri che saluto con affetto.

 

'U latru e la pecurella (Il ladro e la pecorella)

  Questo gioco era la disperazione dei nostri genitori, dal momento che si praticava, generalmente, di notte, dopo le otto di sera, nelle buie periferie, se non addirittura  nelle campagne attorno al rione Croci,  da gruppi di ragazzi divisi in due squadre: i ladri e i carabinieri. I ladri "catturavano" una pecorella, di solito uno dei ragazzi più giovani, e se la portavano via, mentre i carabinieri si davano alla caccia nel tentativo di catturarli e liberare l'ostaggio. Ovviamente, all'inizio, i carabinieri dovevano dare qualche minuto di tempo ai ladri per permettere loro di involarsi; poi cominciavano le ricerche che, spesso, si protraevano per delle ore, portando lo scompiglio tra le famiglie che non vedevano rientrare a casa i figli ad un'ora decente. Non era raro il caso in cui i ladri e la pecorella, vigliaccamente, vinti dal sonno o dalla noia, se ne tornavano di soppiatto a casa e se ne andavano a letto, senza "costituirsi" ai poveri carabinieri che continuavano a cercarli inutilmente per ore e che, per sovrapprezzo, al ritorno a casa, si buscavano gli scappellotti dei padri inferociti.

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