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VERNU
di U. Lafortuna

Ogni anno di questi tempi, con l'arrivo del freddo e l'approssimarsi
delle feste di fine anno mi torna alla mente questa stupenda poesia
del grande Umberto Lafortuna, nostro compaesano, maestro elementare
assieme al figlio Nicola nella scuola elementare statale di Caccuri,
poeta sensibilissimo, profondo conoscitore dell'animo del fanciullo,
delle tradizioni e dell'Interiorità caccurese, eccellente cantore
della cultura della società contadina a contatto della quale visse,
operò e si formò come si percepisce dalla lettura di questa
meravigliosa opericciuola come amava definire Giuseppe Lombardo
Radice, il più grande pedagogista europeo del suo tempo, le liriche
dal grande maestro e poeta caccurese, un patrimonio da tutelare
amorevolmente e tramandare alla future generazioni affinché si
innamorino della cultura dei loro avi.
Ardu le ligna ‘ntra lu focularu
E
nue assettati a rollla ne scordamu
Da mal’annata e de lu vernu amaru:
Ridimu,
chjicchjiariamu, ne manciamu
Mo ‘na patata, mo ‘na castagnella
E jocamu a ‘nnuvina, nnuvinella.
Ma ‘u
tempu passa, ‘nzignamu a cimare
E fora
jazza’ e mina tramuntana.
Lassamu
‘u focu e ne jamu a curcare.
la
casa degli animali
di Peppino Marino

Mi è sempre piaciuto giocare con
le parole, addomesticarle, piegarle alle mie esigenze per ricavarne
freddure, paranomasie, nonsense, calembour, un gioco che praticavo
anche a scuola con i miei alunni, Qualche anno fa giocando appunto
con le parole ho cercato di dare una casa a tutti gli animali. Da
questo strampalato esercizio è ventuta fuori questa strampalata
accozzaglia di freddure
Il gallo vive nella galleria
e l’asino dimora all’Asinara;
mentre il cavallo va in cavalleria,
al pollo toccherà la polleria.
Il cane sta beato alle Canarie
praticamente tutto l’anno in ferie,
il tordo poi finisce nei tordelli
e il gatto va a caccia di altri uccelli.
Il gufo ora abita in un ufo
lo struzzo è alloggiato dentro un pozzo
la capra se la gode a la Capraia
la tartaruga vive sulla playa.
Insomma ogni animale trova casa
e quasi mai gli dànno lo sfratto
per questo alcuni stanno in un anfratto
senza che debban poi pagare un fitto.
VIVA LA CAMPAGNA

"Voglio andare a vivere in campagna", era il tormentone di
qualche anno fa quando la voce del grande Toto Cutugno prorompeva
dalla radio riproponendoci la canzone sanremese dl 1995 e a me
usciva spontaneo commentare in rima: "Basta che finisca questa
lagna." Comunque, a parte la mia spontanea, irrefrenabile,
scherzosa irrisione, il bravo e simpatico cantautore fosdinovese la
sapeva lunga e io da qualche anno vivo quotidianamente quello che
per lui era un desiderio così forte da ispirargli quella bellissima
canzone. Sono convinto che quello di vivere in campagna non sia solo
il desiderio del compianto Cutugno e mio, ma anche di tantissime
altre persone. Che c'è di più bello, infatti che vivere in
campagna, soprattutto in questi giorni di primavera nei quali la
terra, soprattutto le terre aride e marginali, sono ricoperte di
splendidi fiori?
Nelle ultime settimane abbiamo imparato che c'e gente
che scatena guerre feroci per impadronirsi delle terre rare
dalle quali i super miliardari sperano di ricavare altri miliardi
che poi si porteranno nella tomba; io, invece, sarei capace di
scatenare una guerra mondiale per difendere le nostre bellissime
dalle ruspe, dai piromani e dagli speculatori, soprattutto in questo
periodo dell'anno nel quale sii ricoprono di poveri, stupendi,
meravigliosi fior: da quelli profumatissimi della ginestra, ai fiori
dell'euforbia, del glasto, del calicotome spinosa (spina gialla), a
quelli del cisto, bianchi o lillà, al "fiore del
partigiano" o "del Piero", i papaveri rossi. Posare
gli occhi sui prati o sulle colline che circondano il paese,
inebriarsi del profumo e del colore di queste piante che crescono
sul terreno arido e pietroso, ammirare questi poveri fiori che non
hanno niente da invidiare ai kadupul, alle orchidee, ai tulipani, è
veramente qualcosa di impagabile che giustifica ampiamente il
desiderio del compianto Tito Cutugno, l'entusiasmo di Nino Ferrer
che urlava a squarciagola "VIva la campagna" e di
tanti amanti della campagna e della natura.
Cenni
sull’emigrazione caccurese nei secoli
Sere fa si parlava dell’emigrazione dei caccuresi iniziata
già ai tempi dei Simonetta e ripresa poi massicciamente nel XVI
secolo quando molti nostri compaesani si trasferirono nella vicina
San Giovanni in Fiore, all’epoca quattro case nei pressi
dell’abazia florense, a seguito di un diploma con il quale
l’imperatore Carlo V concesse a Salvatore Rota, abate
commendatario del Monastero di San Giovanni in Fiore, il diploma di
“costruire ed edificare” un casale, con l’esenzione dalle
tasse per un periodo di dieci anni. Ai nostri antichi
compaesani, vessati dal malgoverno e dall’esosità dei tributi
imposti dai Cimino e dagli Spinelli, non parve vero di potersene
liberare e di poter fra l’altro esercitare anche alcuni usi civici
dei quali a Caccuri non potevano fruire.
Emigrare, da
allora, fu una costante nella storia del paese e dei suoi abitanti,
anche se, qualche secolo dopo, quando anche gli amici di San
Giovanni in Fiore persero i benefici e i favori degli Svevi, di
Gioacchino e dei suoi abati, e non ci fu più un Carlo V a concedere
diplomi presero anche loro in massa la via dell’emigrazione,
soprattutto dopo ‘Unità d’Italia e l’arrivo dei fratelli
padani che smantellarono quelle poche realtà produttive che,
comunque, facevano ella Calabria la regione più industrializzata
d’Italia.
Tornando ai primi
migranti dei quali abbiamo la documentazione storica, oltre ad
Angelo Simonetta e ai celebri nipoti, Cicco e Giovanni, lasciarono
Caccuri anche altri illustri, alcuni dei quali parenti degli stessi
Simonetta.
Angelo, figlio di
Gentile e fratello di Antonio, padre di Cicco e Giovanni, assunto da
Francesco Sforza, e trasferitosi a Milano, quando il nipote Cicco
divenne Cancelliere, segretario
e primo ministro, fu nominato ambasciatore del Ducato presso
la Repubblica di Venezia. Cicco, uomo di grandissima cultura
(conosceva il dottore latino, il greco, l'ebraico,
francese, tedesco e spagnolo), laureato in utroque iure (diritto civile e canonico) probabilmente a Napoli, fu
il fondatore delle Istituzioni del Ducato, della Cancelleria e della
rete di Ambasciate. E’
ritenuto anche uno dei fondatori della Crittografia , l’arte di
criptare i messaggi col suo saggio le Regule ad extrahendum litteras ziferatas - ad uso dei suoi emissari nella varie corti d'Europa
il cui titolo mi fa pensare a qualcosa di molto familiare come i
miei amati Zifarelli, anche se l’origine del toponimo pare
richiamarsi agli angeli che sei ribellarono al Padreterno o anche ai
peperoncini Zafaran, una cultivar del Potentino detti anche
diavoletti.
Le fortune di Cicco e
il suo spiccato nepotismo diedero luogo a un’antica marcia di
terroni che dalla Calabria e da Caccuri, si trasferirono a Milano e
in Lomellina.
Un altro caccurese
illustre emigrato in questo caso nelle Marche fu mons. Muzio De
Gaeta, rampollo di una nobile famiglia già imparentata con i
Simonetta che il 15 giugno del
1695 fu nominato Governatore di Loreto da papa Innocenzo XII carica
che ricoprì fino alla fine di maggio del 1698. Anche il
fratello Ottavio, cognato del duca don Antonio Cavalcante, fu un
altro emigrato illustre e, in epoche più recenti, il professore
Francesco Macrì che ricoprì la carica di direttore delle scuole
italiane in Uruguay, il maestro Annibale Cimino, direttore
d’orchestra e tanti altri oltre, ovviamente, a migliaia di
lavoratori la cui diaspora nei paesi del Sud e del Nord America (
Uruguay, Argentina, Brasile) ebbe inizio già negli ultimi due
decenni del XIX secolo e, negli anni 50 e 60. Continuò
massicciamente nei paesi europei (Francia, Belgio, Germania e
Svizzera) e in Australia.
UNA
PAGINA DI LETTERATURA POPOLARE CACCURESE
Caccuri, come molti altri
paesi della nostra regione e del Mezzogiorno, ha una ricca
letteratura popolare; pagine bellissime di fatti reali romanzati,
racconti arguti, leggende e novelle, racconti didascalici e
moraleggianti (i più noiosi).
Ovviamente io preferisco quelli nei quali trionfa
l'arguzia, l'ìntelligenza, la bonomia e la genialità dei nostri
antenati, come gli sfottò tra caccuresi e cerentinesi che mettono
in evidenza la le capacità letterarie davvero straordinarie
straordinarie, l'autoironia, la calma, serena, amabile grandezza,
l'arguzia e la genialità delle due popolazioni e che, per
secoli hanno costituito materia di scherno per centinaia di
ignoranti incapaci di cogliere il valore letterario di quei
capolavori degni della penna di un Giambattista Basile, di un Giulio
Cesare Croce o di un Giovannino Guareschi.
Oggi voglio proporvi un raccontino probabilmente romanzato,
frutto della genialità di qualche caccurese dei secoli scorsi che
ci insegna, senza intenti moraleggianti, il valore della modestia,
una virtù scarsamente praticata, specie di questi tempi di schiappe
che ricoprono spudoratamente cariche e ruoli di grande
responsabilità senza possedere i requisiti minimi finendo, nella
migliore delle ipotesi, di coprirsi e di coprirci di ridicolo. Oggi
voglio proporvi, appunto, un racconto probabilmente romanzato,
frutto dell'arguzia caccurese. che quasi tutti i miei compaesani
conoscono e che non dvee assolutamente cadere nell'oblio .
'U
SCUPULU
“Te via jire cumu ‘u scupulu e la paletta!” tranquilli, non è
una frase tratta da un discorso del nuovo ministro della cultura, ma
un antico anatema caccurese che augura a chi ne viene colpito, di
non trovare un attimo si riposo. DiffiCile spiegarlo alle giovani
caccuresi che ormai non sanno cos’è e non hanno mai visto uno
scupulu. Ma cos’era quest’oggetto misterioso? Era Soltanto una
rudimentale scopa fatta in casa con materiali autarchici con la
quale le nostre nonne spazzavano i poveri vasci e catoji adibiti a
cantine e abitazioni.
A quei tempi la scopa non si comprava al supermercato o dai
cinesi: le nostre nonne, quando non avevano sottomano saggina o
erica, tagliavano qualche ramo di scupulu (Arthemisia scoparia), lo
legavano con un po’ di spago a una canna o a un ramo di nocciolo o
più semplicemente di ailanto e avevano la loro bella scopa. Anche
per la paletta ci si arrangiava: nella migliore delle ipotesi con
una paletta furgiarisca, fabbricata, cioè, da qualche fabbro
locale, ma più spesso, con un pezzo di latta ricavato da qualche
scatola di sarde salate o di pomodoro inchiodato a un pezzo i legno
e con questi semplici, rudimentali strumenti, che adoperavano
freneticamente, riuscivano a mantenere puliti e accoglienti quei
poveri tuguri nei quali le nostre famiglie erano costrette a vivere
a volte anche a convivere con qualche animale domestico come
l’asino, ‘u ciucciu, l’amato somarello, a volte più della
stessa moglie, dai nostri contadini per il generoso grande
contributo che l’animale dava all’economia della famiglia.
MASTRO
AGOSTINO E L’AMICO TUTTOFARE

Mastro Agostino era un mastro muratore
“filosofo”, come ce n’erano tanti agli inizi del secolo
scorso, bravi artigiani, ma anche teste pensanti, nonostante il
detto popolare attribuisse il cervello fino al contadino.
Una volta, spinto dal bisogno dato che in quei tempi
cera molta disoccupazione, il bravo muratore,assieme a un
amico, decise di emigrare in America. Giunto negli USA si
presentarono al boss di un cantiere per
chiedere lavoro, anche eventualmente con una
mansione diversa da quella di muratore. L’impresario, che aveva
bisogno di manodopera, ma che non voleva, come suol dirsi,
“comprare la gatta nel sacco”, si premurò di accertarsi delle
loro competenze e chiese ai due, cominciando dall’amico, cosa
sapevano fare.”
L’amico di mastro Agostino, che sapeva appena
fare il manovale, cominciò ad elencare le sue straordinarie capacità.
“So fare il manovale, rispose, il carpentiere, il ferraiolo, lo
scalpellino, l’acquaiolo., il maniscalco, il mulattiere, il
carrettiere, il carcararo, il fuochino, l’arrotino …...” e
avrebbe continuato chissà per quanto se l’impresario non lo
avesse interrotto.
Bene, disse il padrone, quindi si rivolse a
mastro Agostino: “E tu che sai fare?”, gli chiese. “Io, si
schernì il mastro filosofo, io non so fare niente, sa fare tutto
lui.” Folgorato e divertito dall’arguta risposta, il boss
assunse immediatamente mastro Agostino e rimando a casa l’amico
che ancora oggi si chiede il perché di una decisione così assurda.
CAPOLAVORI
CACCURESI
di Peppino Marino

Passeggiando
per il centro storico di Caccuri capita, fortunatamente, di
imbattersi ancor in piccoli capolavori come quelli che si possono
ammirare in queste foto molti dei quali risalgono al
"Rinascimento caccurese", un fortunato periodo storico -
culturale del quale parlerò diffusamente in un mio articolo
nelle prossime settimane, miracolosamente sfuggiti alla "furia
iconoclasta" della "modernità, anche grazie alla
desertificazione demografica del paese. Si tratta di artistici
portali, finestre, ballatoi e davanzali lapidei, capitelli che
li sorreggono, e arredi vari di pregevole fattura. opere della
scuola dell'arte della pietra locale che abbondava nei dintorni del
paese. L'augurio è che a nessuno venga in mente, come purtroppo è
successo spesso in questo martoriato paese, in caso di
improcastinabili interventi di manutenzone straordinaria, di
sostituirli con chincaglieria e arredi realizzati col pantografo
acquistati dal marmista o di deturparli e di rivestire le case che
li ospitano di croste e vernici variopinte tipo bancone da
gelateria. Si tratta di gioielli sui quali si può e di deve
costruire il futuro turistico - culturale ed economico del paese, un
paese del quale i giovani possono e debbono essere orgogliosi Per
ciò che ha rappresentato nel corso di oltre 6 secoli e per ciò che
ha dato alla storia della Calabria, d'Italia e d'Europa. Un paese
che può ancora dare molto a condizione che non spuntino nuovi
barbari a devastare ciò che è, fortunatamente scampato alle orde
barbariche e che le nuove generazioni riescano a innamorarsi ancora
del paese natale e a preservarlo da ogni vandalismo, anche
d"istituzionale."
SCHERZUCCIO
di Peppino Marino

Un
populu
diventa poviru e servu
quannu
ci arrubbanu 'a lingua
addutata
di patri:
è
persu pi sempri.
(Ignazio Buttitta)
Ho sempre amato questa bellissima poesia
dell'immenso Ignazio Buttitta, il poeta di Bagheria che ha tradotto
in versi dialettali un secolo di vita sociale, politica, culturale
della Sicilia, il disagio sociale, economico, di lotta ,
l'emarginazione, la lotta delle classil riscatto economico e
sociale, partigiano socialista, amico di Quasimodo e di Vittorini,
autore tra l'altro, della raccolta Lu trenu di lu suli,
e del celebre Lamentu pi la morti di Turiddu Carnivali la
stupenda ballata che racconta l'uccisione da parte della mafia di un
giovane sindacalista socialista, magistralmente interpretata dal
cantastorie Ciccio Busacca e ripersa anche dal maestro Profazio e di
altre racclote, come La peddi nova (1963), La
paglia bruciata (1968), Io faccio il poeta (1972), nonché
del poemetto La vera storia di Salvatore Giuliano.
PROPRIO PERCHé
NON VOGLIO CHE IL MIO POPOLO DIVENTI POVERO E SERVO, CERCO, NEL MIO
PICCOLO, DI CUSTODIRE E TRAMANDARE LA LINGUA DEI PADRI, IL NOSTRO
BELLISSIMO DIALETTO ARCAICO, UN PATRIMONIO INESTIMABILE CHE RISCHIA
DI ANDARE PERDUTO, ANCHE ATTARVERSO POVERI VERSI COME QUELLI DI
QUESTO MIO SCHERZUCCIO. VI PREGO DI NOTARE LA BELLEZZA, LA
POTENZA EVOCATIVA, E DESCRITTIVA DI ALCUNI SOSTANTIVI E AGGETTIVI
COME JIPPARELLU, ACCIPPATELLU, BABBARELLU, GRATTAPUNE, CHE
ORMAI SOLO POCHI VECCHI COME ME RICORDANO ANCORA.
C’era ‘nu quatrarellu
‘nu pocu accippatellu
supra ‘nu timparellu
c’avia nu jipparellu
paria ‘nu babbarellu.
Avia ‘nu copparellu,
‘na palettella rutta,
‘ncoppava la terra asciutta
e la mintia’ ‘ntru coppu.
Passa ‘nu cristarellu
vulannu ‘ntra lu celu,
vira lu guagliunellu
e si ce fruga ‘ncollu.
Però ‘nu canicellu
zumpa re lu munzellu
‘e terra llà vicinu,
se lanza cu ‘nu lefantu
contra lu malua ggellu
e cu’ ‘nu muzzicune
‘u jetta ‘ntru
grattapune.
E’ sarbu ‘u piccirillu
cuntentu ‘u canicellu
se serari a cullura
e jocari la cura.
UN
Pò DI STORIA DELLE
PIAZZE CACCURESI

Ecco
una bella immagine di piazza Umberto I, l'unica vera piazza
caccurese, almeno la sola definita anche ufficialmente piazza, fino alla
metà degli anni 20 e 70 del secolo scorso quando sorsero l'ex
piazza Annunziata (nni 70) e l'ex piazza Vittorio Veneto
(anni 20) quest'ultima
"morta ancora prima di nascere". Quella che, infatti,
chiamiamo comunemente piazza, storicamente, infatti, non fu mai
una piazza, ma una strada di transito per entrare in paese. Il
sito, infatti, che non ha mai avuto una intitolazione ufficiale
per cui chiamarlo piazza Umberto è un'abitudine, un vezzo di
alcuni nostri concittadini che non ha alcun fondamento storico -
amministrativo. Il luogo comunemente definito "piazza",
in questi mesi oggetto di lavori di sistemazione, era individuato,
infatti, col toponimo di Porta Grande perché vi si apriva la
porta più grande e importante di accesso al paese attraverso la
cinta muraria che ne faceva un castrum (da non confondere con
castello), cioè una cittadina cinta di mura e fortificata.
Attraverso la porta grande che si apriva più o meno tra la casa
di Peppino Falbo (Iaconis) e la rampa di accesso ai Mergoli,
entravano in paese le merci ingombranti quali i materiali di
costruzione (pietra, calce, travi in legno a altri ingombranti).
nei pressi della porta, all'interno delle mura, fino all'Unità
d'Italia, sorgeva la caserma della guardia urbana, l'antica
polizia locale borbonica. Quindi non piazza, ma strada i accesso.
D'altra parte, anche a lume di logica si comprende che i nostri
antenati non avrebbero mai costruito una piazza al di fuori delle
cinta muraria. L'unica piazza, dunque, era la piazza Umberto I, la
cui intitolazione, ovviamente, risale agli anni dopo il 1878,
quando il figlio di Vittorio Emanuele II salì al trono del Regno
d'Italia". Per il resto all'interno del paese c'erano alcuni
slarghi come quello del pizzetto, quello davanti il palazzo De
Franco (attuale largo Vincenzo Ambrosio) nell' antica via Principe
di Napoli, poi via Buonasera, il largo Misericordia, il Vincolato
e la salita castello, ma nessuno di questi luoghi fu mai definito
ufficialmente piazza. Poi, negli anni 20 del Novecento i reduci
combattenti della Grande Guerra costituitisi nella Lega
combattenti reduci che aveva tra i dirigenti i popolari Giuseppe
Sabatino Pitaro, ex sacerdote sturziano, il fabbro Peppino
Gigliotti, Vincenzo Militerno, Pietro De Mare e Enrico Pasculli
(padre) e Vincenzo Lacaria (Dermonno) , promossero la nascita del
rione Croci secondo il piano regolatore redatto dl geometra cav.
Raffaele Ambrosio che prevedeva strade di 8 metri e traverse
ortogonali di 6 m., destinarono uno spazio adeguato tra le vie
Sabotino e Vittorio Veneto dove doveva sorgere la seconda piazza
caccurese per erigervi anche il monumento ai caduti. Purtroppo,
nei primi anni 50 del secolo scorso, nel centro di quella che
doveva essere la piazza un cittadino costruì incredibilmente
un'abitazione privata e ci giocammo la seconda piazza.
Piazza
Umberto risveglia in me tantissimi ricordi tra i quali il mio
primo comizio di una decina di minuti agli inizi in un sera di
maggio del 1972 quando il compagno farmacista Emilio Sperlì, mi
obbligò a salire all'improvviso vigano che si vede nella foto e
che dava accesso al vecchio negozio del compaesano il compaesano
Salvatore Gigliotti per presentare l'onorevole compagno Giovanni
Lamanna che si presentava per la seconda volta al Parlamento.
Ricordo l'emozione di quella sera, il disperato tentativo di
sottrarmi all'obbligo e l'inflessibilità di Emilio Sperlì,
Cercai di preparami mentalmente un piccolo intervento. Erano gli
ultimi anni dell'odiosa guerra del Vietnam e alla mente affluivano
le canzoni di Bob Dylan. di Joan Baetz, la stupenda C'era un
ragazzo di Franco Migliacci cantata da Gianni Morandi e a quei
tempi si leggeva quotidianamente l'Unità e si seguivano radio e
telegiornali che davano notizie della guerra e delle proteste dei
giovani di tutto il mondo per cui fu facile imbastire un
comizietto di politica estera. L'emozione, comunque mi bloccava
per cui corsi al bar dove il compianto Genio mi servì un wisky
che risolse il problema facendomi fare la mia bella figura e
iniziare una nuova carriera di comiziante. Tempi belli, se non
altro per i miei 22 anni.
ORTO
BOTANICO DI ZIFARELLI

Primavera d'intorno brilla nell'aria
e per li campi esulta.
Dall'orto botanico de L'Isola Amena
di Zifarelli per il momento è tutto. Buona Pasquetta agli amici
visitatori.
TRENE,
ZIRRI E TIRITOCTE

Nella Caccuri si sessanta -
settanta anni fa in questo ultimi tre giorni della Settimana Santa
si adoperavano molto spesso due verbi riferiti ai riti della
passione: ammutare e sparare. Ammutare, in italiano ammutolire, era
riferito alle campane delle chiese che la notte del Venerdì Santo
cessavano di suonare in segno di lutto per la morte di Cristo;
altrettanto sparare che indicava l'allegro scampanellio alla
mezzanotte del sabato per annunciare al mondo la resurrezione del
figlio di Dio. Il rispetto per questa tradizioni era
cos' sentito che per evitare che qualcuno inciampasse nella corda
della campana e farla suonare accidentalmente, il sagrestano
fasciava con uno straccio il battaglio.
Quando le campane ammutavano era la volta di "trene",
"zirri e "tiritocte" a scandire i riti della
Passione. A dire il vero ragazzi e fanciulli si scatenavano già
qualche giorno prima e le vie del paese, soprattutto quelle del
rione Croci, a quei tempi costituito da una trentina di case,
rimbombavano per il frastuono di questi strumenti di legno
fabbricati dagli antichi falegnami caccuresi.
'A trena era una cassetta di legno sulla quale veniva
montata una manovella che azionava tre o più martelletti di legno
che battevano alternativamente sul coperchio della cassetta
producendo un suono cupo e continuo che si sentiva anche da molto
lontano. I ragazzi la poggiavano per terra appoggiandovi sopra il
ginocchio e azionavano la manovella godendosi quel gioso frastuono.
U zirru era un piccolo parallelepipedo di legno vuoto all'intermo
nel quale una piccola manovella sulla quale era montata una ruota
dentata che faceva vibrare una lingua del parallelepipedo che
produceva un suono stridulo continuo, La tiritocta infine era una
specie di spatola di legno sulla quale veniva montata una tavoletta
della stessa dimensione della spatola con due pezzi di spago a mo di
cerniere. Agitandola la tavoletta si apriva e chiudeva battendo
sulla spatola e producendo un suono simile a una raffica di
mitragliatrice. Questi strumenti rudimentali accompagnavano la
processione del Venerdì salto (fino al 1962 il Giovedì Santo)
spesso coprendo i bellissimi canti della Passione, ma nessuno aveva
niente da ridire, anzi i fedeli ne erano contenti.
Nei giorni che precedevano la processione i
ragazzi entravano in competizione tra loro con i loro strumenti per
stabilire chi riusciva a fare più baccano e chi riusciva ad "ammutare",
cioè e coprire fino a non farlo sentire il suono della trena o
dello zirru dell'avversario. Ovviamente la gara era tra trena e
trena o tra zurru e zirru, ma qualche presuntuoso dotato di uno
zirru di discrete dimensioni osava sfidare anche qualche trena
risultando, ovviamente, perdente, a meno che non si trattasse 'e ru
zirru e Carminuzzu, il mio carissimo amico professore universitario
Carmine Chiodo che ne aveva uno di una quarantina di centimetri che
gli aveva fabbricato lo zio Rocco Pasculli, uno dei più bravi
falegnami di Caccuri. Quannu sonava lu zirru 'e Carminuzzu 'un ci
n'era pe' nessunu.
CUZZETTU E FAVE

Si vo' fave 'a stu cummentu ..............
Veramente sarebbe "Si vo' pane 'a stu commentu..................",
ma a me stamattina, seminando le fave per il nuovo anno,
quest'antico proverbio mi è uscito con qualche lieve modifica
ripensando a un'antica maldicenza dei vecchi caccuresi che
prendevano in giro i frati francescani riformati subentrati ai padri
domenicani del Convento di Caccuri fatti poi fuori da Murat
che li spogliò di quelle poche tomolate di terra intorno al povero
cenobio caccurese per rivenderle al notaio Ambrosio.
I nostri avi accusavano i monaci di
allevare 13 porci per 12 monaci e di mangiare per tutto l'anno
"cuzzettu e fave" ovvero fave e guanciale. In realtà il
nostro convento non ospitò mai 13 frati perché il numero massimo
dei religiosi che lo abitarono fu di 8, ma sulla scia di Boccaccio e
di altri scrittori del suo tempo prendere in giro i monaci e
metterne in dubbio la santità era evidentemente uno sport diffuso
in tutta l'Italia. Comunque, se avrò un buon raccolto vedrò di
procurarmi anch'io per primavera qualche "scilla 'e cuzzettu"
.
'A PAISANELLA
DEI NOSTRI AVI

La Calabria non è solo la terra della 'ndujia, della
sardella, delle pitte ìmpigliate, delle patate 'mpacchiuse,
dell'"oglio purissmo et pretioso", del bergamotto e
delle eccellenti, salutari bibite che se ne ricavano, la leader
mondiale degli amari, ma è anche la patria della Paisanella, la
grappa dei nostri nonni, il "su filu di ferru" della
Presila ottenuta dalla distillazione delle pregiate vinacce di
vitigni Gaglioppo, Magliocco, Greco e altre uve locali, ma
rigorosamente calabresi. Quannu jazza e mina ventu, vicinu 'u
focularu due 'u focu carcaria' 'un c'è nente ìe megliu 'e nu
bicchericchiu 'e paisanellache te quaria' lu stomacu 'e lu core.
IL
TRASPORTO DELLE SALME NEL NOVECENTO

Il trasporto dei
defunti caccuresi, fin oltre la metà del secolo scorso, è stato
sempre problematico, soprattutto se il morto era povero o non aveva
parenti. Trasportare a spalle una salma dalla chiesa al cimitero di
Manco del Rosario distante quasi un chilometro dall'abitato non era
affatto semplice e agevole. Per questo motivo il 2 febbraio del 1909
l'Amministrazione comunale e il sindaco Ercole Lucente cercarono di
risolvere il problema retribuendo con una lira a testa i portantini
che venivano scelti a rotazione dall'assessore anziano. Non sappiamo
per quanto tempo la delibera rimase in vigore, ma anche negli anni
60 si riproposero gli stessi problemi per cui l'amministrazione del
tempo e il vice sindaco facente funzioni Salvatore Giuseppe Falbo
decisero di acquistare un carro funebre e istituire il servizio
gratuito di trasporto dei defunti che rimase in vigore fino ai
primissimi anni 90. Nei primi decenni del secolo la situazione era
più grave se il defunto abitava nella frazione di Santa Rania non
ancora collegata al capoluogo dalla provinciale 32 la cui
costruzione iniziò nel 1953. Fino ad allora le salme venivano
trasportate a dorso di mulo.
IL PAPA HA 280
MILIONI DI ANNI, BEATO LUI
Ed ecco Sua Santità il papa in tutta la sua maestosità visto da
Canalaci e dall'alto della Serra Grande. Negli ultimi anni ci è
apparso un po' malandato, ma, tutto sommato, i suoi 280 milioni
di anni se li porta bene, considerato anche che per qualche
milione di anni è stato pure ammollo nell'acqua salata. L'intera
collina, infatti, si trovava sotto il pelo delle acque del mare a
una profondità non superiore ai 200 metri come apprendemmo anni
fa nel corso di una lezione all'aperto tenuta da due docenti del Dipartimento
di scienze della Terra dell’Università della Calabria . Da qui
la presenza di numerosi fossili nei quali fino a qualche decennio
ci si imbatteva camminando sul costone roccioso.
BARBARA.
NICOLA, MARIA, LUCIA e lu messia
La
mente umana a volte è contorta (almeno la mia) e ragiona secondo
misteriosi schemi che sfuggono alla ragione. Per esempio, il 21
giugno si entra nell'estate, ma la mia mente è convinta che si
entra nell'autunno perché le
ore di luce cominciano a diminuire tanto che quattro mesi dopo
alle 16,30 è già buio. Questa cosa mi intristisce e non poco,
ma, probabilmente, intristiva anche i popoli primitivi, ma anche
quelli più vicini a noi che non conobbero mai la luce elettrica o l'acetilene. Proviamo a
immedesimarci in quella povera gente che alle cinque del
pomeriggio del mese di novembre o dicembre veniva avvolta dalle
più profonde tenebre fino alle 7 del mattino e immaginiamo con quale ansia
aspettasse il sorgere del sole. Capite ora perché attendeva
con trepidazione il 21 dicembre e perché decine di semidei (Sol
invictus) nascono il 25 dicembre, muoiono, scendono agli inferi, sconfiggono
le tenebre e ridonano all'uomo la luce? Invece il 21 dicembre mi
sento già in estate perché finalmente i giorni tornano ad
allungarsi e la luce riporta il buon umore e la gioia di vivere.
La filosofia di Leopardi, tutto sommato: della festa il più
bello è la sua attesa. Forse per questo, per questi motivi gli antichi contavano
gioiodamente i
giorni che ci separavano dal Natale della luce scandendo il tempo
con una serie di feste che precedevano la nascita del loro Dio.
Le nostre trisavole inventarono anche una specie di filastrocca
per ricordarsele:
Sant'Aloe
(Eligio 1° dicembre) porta la nova: 'u
quattru è de Barbara, 'u sie 'e de Nicola, l'ottu 'e Maria, lu
tririci 'e Lucia e lu vinticinque è du Messia."
Ecco, fra 8 giorni è Santa Barbara, patrona dei minatori
e dei fuochini, due giorni dopo è la volta di San Nicola quando
(almeno una volta, visto che ci siamo dimenticati cos'è la
pioggia), "Ogne vallune sona e ogni màntra fa la
prova", due giorni ancora ed è l'Immacolata ed è già ora di
preparare albero e presepe. A quel punto, inizia la trionfale
discesa verso Natale
'NU QUARTU E 'NA GAZZOSA

'Nu quartu e 'na gazzosa (gassosa
in italiano) era quello che ordinavano i nostri nonni quando
entravano in un'osteria (anzi i vostri, perché il mio e i suoi
amici andavano a litri e senza gassose), oppure la posta in palio in
una partita a carte. La gassosa rendeva il vino frizzante e lo
annacquava un po', anche se di annacquare spesso non ce n'era
bisogno visto che molti osti, già secoli prima di Cristo, avevano
ripetuto milioni di volte il miracolo di Cana, pur senza vantarsene
e non certo per modestia.
La gassosa che si beveva a Caccuri e nei paesi del
Crotonese era detta anche "acqua 'e ra Pirucchjiella"
così ribattezzata dai nostri vecchi epicurei perché pare venisse
prodotta in uno stabilimento sito
in contrada Pirucchjiella forse nei pressi di Isola Capo Rizzuto. Le
gassose del tempo avevano la chiusura a pallina (bottiglia di Codd)
e si aprivano spingendo in basso la biglia di vetro con un dito.
Oggi la frase " 'Nu quartu e 'na gazzosa" la si ripete per
scherzo, ma nessuno più ordina queste bevande insieme e molti, al
massimo nel vino ci mettono la Sprite, anche se annacquare il vino,
ovviamente se è buono, è un misfatto che meriterebbe
l'ergastolo.
VESTIRSI DI GINESTRA

Mi è capitato più
volte di occuparmi della ginestra, la preziosa pianta che assieme
all'euforbia a primavera indora le colline e le terre marginali e
che le nostre nonne utilizzavano per ricavarne coperte, tovaglie,
perfino vestiti, ma non mi era mai capitato di vedere un tessuto
ottenuto dalle fibre di ginestra. Lo
immaginavo ruvido, un po' come i sacchi di iuta o come i vestiti dei
penitenti. Poi due giorni fa, nella casa di una cara amica, mi è
capitato di imbattermi nel centrino che vedete nella foto a destra
ottenuto dalla ginestra e mi son dovuto ricredere. La stoffa è
morbida, resistente, compatta.Se non mi avessero detto che si
trattava di tessuto di ginestra non me ne sarei mai accorto. Tutto
sommato i nostri vecchi non vestivamo poi così male e, soprattutto,
non rischiavano di venire a contatto con agenti allergeni.
Oggi ho letto che l’Università della Calabria sta
lavorando a un progetto sperimentale sull'utilizzo della ginestra
per realizzare filati sempre più fini e adatte alle esigenze della
moda e che potrebbe contribuire a risollevare la nostra economia. La
fibra di ginestra, infatti, è molto simile a quella del lino e
della canapa. Già, la canapa! Un tempo la nostra economia si basava
anche sulla coltivazione della canapa, una pianta dai mille pregi
che però non possiamo coltivare per non danneggiare gli interessi
dei grandi produttori di cotone ovviamente attenti alla nostra
salute e preoccupati di combattere le nostre devianze. Come sono
umani gli americani!
LA PREZIOSA SAPONARIA

Alzino la mano
quelli che conoscono questa pianta o ne abbiamo fatto uso almeno una
volta. Una volta era una cosa normalissima, anche perché l'unico
sapone che si trovava nelle nostre case era quello fatto con la
lisciva e la morchia (morga, residui di olio). Oggi non la usa più
nessuno, tranne forse me. Se quando lavoro nell'orto per lavarmi le
mani usassi ogni volta il sapone spenderei una cifra, senza contare
che il sapone industriale a volte produce allergie, invece, mi
strofino le mani con qualche foglia di questa preziosa pianta che
per fortuna cresce spontaneamente nel mio terreno, una sciacquata
con l'acqua e sono a posto.
I TEMPI 'E 'NA VOTA
di Peppino Marino

C'era una volta un
tempo nel quale la gente si divertiva con poco. Caccuri poi era un
posto particolare nel quale ogni occasione era buona festeggiare
nelle varie rughe, per ballare nei bassi del centro storico o nei
casolari sparsi per la campagna, per gozzovigliare.
E
ppe le vie canzune e serenate
Sentía 'ntra chille belle notti 'e astate.
Tuttu era amuri, tuttu n'armonia
Ca tu
'ntra tia e tia te ricia: "Chi postu
bellu, 'stu paise mìo!"
E tutti i jorni ringraziava Dio.
(da
'A 'stu paise di G. Marino)
Bastava
una battente, un suonatore e qualche ballerino, oppure per le feste
"più in grande" una chitarra, un mandolino o un violino,
quando si esagerava, un clarinetto, e avevi la tua bella orchestra
sinfonica. Ovviamente non ci si limitava a ballare al lume di
candela o alla fioca luce 'e Lese, ma si pensava anche al contorno:
salsicce, patate arrostite o ruselle il tutto innaffiato di
vino rosso. Raccontava mio padre che una volta organizzarono una
festa da bello al Pizzetto. Il padrone di casa per l'occasione
preparò un quarto di tomolo (più o meno 12 chilogrammi) di ruselle
per musicanti e ballerini, mentre il compianto Alessandro Raimondo
trasportava il vino con una secchia da latte. La voglia di
divertirsi, soprattutto nei primi anni dopo la guerra, era tanta che
si festeggiava anche in due come facevano Salvatore Guarascio, a
sinistra nella foto, bravo suonatore di chitarra battente, e
Francesco Lacaria, a destra mentre balla, auto ribattezzatosi Zorro
per la sua straordinaria agilità che lo accompagnò fino agli
ultimi anni di vita.
Che tempi meravigliosi abbiamo vissuto, pur nella
povertà e negli stenti.
IL MATRIMONIO FATTO IN CASA
di Peppino Marino

E
tutta ‘a gente jetta li cumpetti,
e tutta ‘a marramata e re crieature
se frugari cu’ ‘lefanti ‘ntra via
per’ acchijappàre chilla grazia ‘e Dio.
Mo
su all’ataru e hau già dittu “SI”
E tuttu ‘u parentatu chi s’abbrazza,
poi vannu alla casa e, alla spartogna,
sciurta, a ‘na vota, la solita rogna:
Però
chi scostumati ‘sti vicini,
cumu se junnanu a ‘sti biccherini!
IL
CARNELEVARETTO
di Peppino Marino

Il Carnelevaretto era il curioso nome della messa in suffragio dei
defunti confratelli della Congregazione del SS. Rosario che veniva
celebrata ogni anno il lunedì di Carnevale nella stupenda chiesetta
della Congregazione annessa al convento domenicano edificata nel
1690 dai confratelli Francesco Saverio Bonaccio, Orazio Antonio
Novello, Filippo e Francesco Mele e Santino Falbo. A rendere
suggestiva (e anche un po' macabra) questa cerimonia era la
presenza sull'altare di alcuni teschi di confratelli rinvenuti nelle
fossae mortuorum della chiesetta. Col tempo, con la morte
degli ultimi priori, il mio bisnonno Ercole Scigliano, di mastro
Francesco Sgro e mastro Giuseppe Di Rosa e con lo scioglimento della
congregazione questa tradizione caccurese si è persa come tante
altre, nonostante un tentativo dell'infaticabile Luigi Ventura di
qualche anno fa di farla rivivere.
L'OLIO
KRYSAMA,
UN'ECCELLENZA BADOLATESE

Ho avuto modo più volte di
parlare di una Calabria che speso noi calabresi non conosciamo, una
Calabria che non è solo mare, sole paesaggi mozzafiato, monumenti,
arte, cultura, ma anche una regione con un'agricoltura
all'avanguardia che produce, trasforma e conserva eccellenze agro
alimentari rinomate ed esportate in tutto il mondo. Eccellenze che
spesso troviamo anche negli scaffali dei nostri supermercati o in
punti vendita specializzati, ma che non compriamo perché distratti
da prodotti similari, magari molto più scadenti, magari meno
costosi, ma non certamente ai livelli dei nostri.
Oggi mi è capitato, chiacchierando con dei carissimi amici
che conosco da decenni, di scoprire che il figlio, brillantemente
laureato a Roma, ha deciso di tornare in Calabria e oggi è titolare
di un'azienda agricola nel territorio di Badolato, lo splendido
borgo sulle rive dello Ionio, terra di aranci, limoni, uliveti e
vigneti e di retaggi storici e culturali che affondano le radici nei
millenni, che produce un olio extravergine biologico, 100% italiano
ottenuto direttamente dalle olive mediante procedimenti meccanici di
spremitura a freddo, rigorosamente controllato dagli enti preposti,
che viene esportato in Italia e nel mondo.
L'azienda è affiliata al consorzio etico degli
agricoltori della Calabria ionica Terra è libertà. L'olio prodotto
si chiama Krysama e viene imbottigliato in contenitori di vetro
scuro. L' ho assaggiato crudo su una fetta di pane ai cereali e l'
ho trovato davvero eccezionale. Ma non è tutto: oggi ho scoperto
anche un'azienda calabrese che produce un ottimo caffè a pochi
chilometri da casa mia creata da un imprenditore tornato dal
Piemonte per fare qualcosa di utile e di importante per la nostra
terra, ma di questo vi parlerò nei prossimi giorni. Più passa il
tempo, più mi ritrovo orgoglioso di essere nato nel
"paradiso" di Leonida Repaci e di averci investito la mia
vita.
VINCENZO PARROTTA
GIARDINIERE CAPO E CUSTODE
.jpg)
Ieri e l'altro ieri ho pubblicato due
foto sulla vita dei Barracco di Caccuri e sui loro spostamenti da e
al "castello" con una portantina trasportata dai muli;
oggi è la volta di questo personaggio che a vederlo sembra
anch'egli un barone, ma era solo un loro dipendente, il giardiniere
capo e custode inflessibile del parco annesso al palazzo, l'attuale
villa comunale. Si chiamava Vincenzo Parrotta detto 'u Scarolu,
abitava nel rione Pizzetto ed era il padre di Virginia e Alfonsina
Parrotta. Era il terrore dei ragazzini che, mentre lavorava, si
infiltravano nel parco per ammirare i giochi d'acqua, le cascatelle,
le siepi ben curate e molestare i pesci e gli uccelli acquatici che
vivevano nei piccoli stagni artificiali. Qui lo vediamo
"assiso nel suo trono" tra due grandi vasi,
probabilmente di ortensie, nei pressi di un'aiuola all'interno del
parco baronale, in posa per il fotografo con lo sguardo di chi
custodisce con severità dei tesori che oggi ricorda solo chi ha
più di novant'anni.
LE BACCHE DI GOJI
E I PRIMATI DELLA CALABRIA

Uno nasce e vive in una regione e
crede di conoscerla bene, di conoscerne le bellezze naturali, le
città, i monumenti, la cultura, le risorse, le potenzialità, poi
gli capita di guardare una trasmissione televisiva e di rendersi
conto che della sua terra conosce ben poco o che, almeno, c'è
ancora tanto da scoprire e che, nonostante le denigrazioni e,
soprattutto le ben più odiose auto denigrazioni, il disinteresse
dello Stato, la carenza di grandi infrastrutture come strade e
ferrovie, la spaventosa emigrazione, oggi anche di cervelli, che non
si riesce ad arrestare, la Calabria cresce, produce eccellenze,
conquista primati nazionali e, a volte, europei.
Sapevo che nella Piana di Sibari vi è il più grande
pescheto italiano, che vi si producono pesche, nettarine, fichi e
migliaia di quintali di agrumi tra i quale le clementine igp, un
riso tra i migliori al mondo, che vi sono aziende agricole modello,
non solo auto sufficienti dal punto di vista energetico, ma che
forniscono migliaia di kilowattora alla rete nazionale, ma non
sapevo che eravamo anche i primi produttori italiani di bacche di
Goji, un frutto di origine tibetana che si caratterizza per una
presenza massiccia di elementi sia nutritivi, sia nutraceutici che
non si trovano in altri frutti e con una capacità antiossidante, di
45.480, tasso Orac certificato dell’Università degli Studi
“Magna Grecia” di Catanzaro. Questo prezioso frutto viene
prodotto e conservato nella piana di Sibari, ma anche in altre zone
della Calabria, una Calabria nella quale, miracolosamente, esistono
fior di imprenditori che creano posti di lavoro e producono
eccellenze agro - alimentari che, sempre più spesso, vincono
prestigiosi concorsi internazionali. Se noi calabresi consumassimo
almeno un 30% di prodotti della nostra regione contribuiremmo a
creare miglia di posti di lavoro e a frenare l'esodo da una delle
regioni più belle del pianeta.
SPAGNOLA E ASIATICA, I "COVID" DEL NOVECENTO
CACCURESE

Il
covid col quale stiamo facendo i conti anche noi caccuresi, anche
se, per fortuna, senza danni irreparabili, non è la prima epidemia
che colpisce il nostro paese. Già nei secoli scorsi sono state
molte quelle con le quali siamo stati costretti a fare i conti, a
cominciare dalla peste negli anni 1528, 1582, 1592 e 1592.
Nel
1836 fu la volta del colera che però, a differenza dei paesi
vicini, pare non abbia provocato morti. Il miracolo fu attribuito
all’intercessione di Santa Filomena per cui l’anno dopo il
falegname Filippo Procopio, figlio dell’ex comandante della
Guardia urbana e futuro sindaco del paese, donò alla parrocchia di
Santa Maria delle Grazie una statua della santa greca, patrona delle
cause impossibili che aveva preservato il paese dalla peste come
recita l’epigrafe sul piedistallo “Indica Lethaliter furente in
finibus colera Caccurium Philumenae Sospitae A.D.
MDCCCXXXVII”.
Nel
1876 un morbo misterioso colpì soprattutto la popolazione
infantile. Nel solo mese di marzo morirono 8 bambini di età
compresa tra un giorno e 4 mesi, mentre nel primo dopoguerra fece la
sua comparsa anche la terribile spagnola, una pandemia influenzale
letale come quella che ci affligge oggi e che uccise anche molti
soggetti giovani e sani. Tra i morti nel nostro paese figura anche
un giovane ingegnere serbo, Wladimiro Iegitch, che si spense il 9
settembre del 1919 in una casa di Salita Castello. Ucciso da quello
che il parroco dell’epoca Miliè definì nell’atto di morte
“repepentino morbo correptus cuius corpus die sequenti sepultum
est in coemiterio.”
Verso
la fine degli anni ’50, nel 1957, non ci facemmo mancare nemmeno
l’asiatica, una pandemia di origine aviaria proveniente dal sud
est asiatico. Anche allora, a beneficio di quelli che oggi ci dicono
che un vaccino non può essere approntato in un solo anno, gli
scienziati riuscirono a mettere a punto, nello stesso anno, un
vaccino che riuscì a limitare le perdite umane che furono comunque
consistenti. Per fortuna a quei tempi non esistevano i social e di
vaccini si occupavano solo gli scienziati “con la i”.
IL
MATRIMONIO "FATTO IN CASA"

Cumu
è contenta oje za Marietta
Ca Rosinella s’è vestuta ‘e sposa!
Supra ‘a porta e ra cchiesia ‘u zitu aspetta
Bella, pimpante, frisca cu ‘na rosa;
‘u velu jancu e lu buquet già rrincia
mentre ‘e ra cuntentizza ‘a mamma ciancia’.
Peppino Marino
Questa due
bellissimi scatti dei primissimi anni '60, che, se non ricordo male,
immortalano le nozze della signorina Teresa Lacaria, che abitava
all'inizio di viale della Regina, con un signore piemontese, ci
mostrano il tipico matrimonio dei quei tempi, quello genuino, fatto
in casa, quando ancora non si andava nei ristornati, anche perché i
ristoranti nemmeno c'erano e il boom economico non era
iniziato, primo in via XXIV Maggio, il secondo, circa un
minuto dopo, in via Principessa di Piemonte.
Il matrimonio veniva celebrato sempre in chiesa, in quella
parrocchiale di Santa Maria delle Grazie, sempre di mattina, verso
le 11. Due colpi di fucile (allora si poteva sparare liberamente
tutto l'anno, ovviamente in cielo) annunciavano ai compaesani
l'uscita della sposa dalla casa paterna al braccio del genitore o,
in mancanza di questi, da un fratello che l'accompagnava in corteo
fin sul portone del tempio caccurese dove stava ad attenderla lo
sposo. Lungo il percorso casa - chiesa, quando il corteo passava
davanti le case, le donne di quella casa lanciavano riso e confetti
(jettavanu i cumpetti ) e i ragazzini che lo seguivano si
accapigliandosi per accaparrarsi il maggior numero di confetti .
E
tutta ‘a gente jetta li cumpetti,
e tutta ‘a marramata e re crieature
se fruganu cu’ ‘lefanti ‘ntra via
per’ acchijappàre chilla grazia ‘e Dio.
Finita
la cerimonia si tornava solitamente a casa della sposa o, nel caso
questa fosse troppo angusta, in qualche magazzino o in qualche
locale di fortuna un po' più grande dove si faceva il ricevimento
('a spartogna) a base di dolcetti e liquori fatti in casa e
distribuiti da persone che avevano una certa pratica, sempre le
stesse, assunte per l'occasione come si fa oggi con i camerieri.
Quasi sempre si verificavano episodi incresciosi perché,
probabilmente per la fame a quei tempi molto diffusa, alcuni
invitati eccedevano con i dolcetti col rischio che altri restassero
a becco asciutto. Allora l'addetto alla distribuzione, con scarso
tatto, li redarguiva esponendoli a una figuraccia.
Però
chi scostumati ‘sti vicini,
cumu se junnanu a ‘sti biccherini!
Alla
fine gli sposi passavano fra gli amici distribuendo confetti con un
cucchiaio visto che all'epoca non si usavano le bomboniere, quindi
aveva inizio il ballo che a volte si protraeva fino a notte
inoltrata. Ma non era finita perché appena gli sposi si ritiravano
nella loro stanza da letto sotto la finestra si intonava la
tradizionale serenata.
p.s.
In
queste due foto si riconoscono alcune care persone che non so no
più con noi come il dottore Francesco Macrì, e gli amici Paolino
Nesci e Peppino Guzzo.
'a
via 'e ru menziornu - la Strada Caccuri - Santa Rania

Uno
dei problemi più urgenti da risolvere agli inizi del secolo scorso
era quello di un accettabile collegamento tra Caccuri e la frazione
di Santa Rania che era sorta a circa 7 chilometri a sud -
est della cittadina a ridosso delle contrade Forestella e
Serra del Bosco di Casalinuovo. Lo stato di precarietà dei
collegamenti creava notevoli difficoltà soprattutto quando, in
seguito al decesso di qualche abitante della frazione, se ne doveva
traslare la salma nel cimitero del capoluogo a dorso di mulo, per
non parlare di quello che poteva accadere in caso di emergenze
sanitarie.
Il
13 novembre del 1913, con la delibera consiliare n. 57, il Comune
chiese al governo la realizzazione della strada che avrebbe dovuto
collegare i due centri abitati. Copia dell'atto deliberativo fu
inviata al Presidente del Consiglio Giovanni Giolitti, al
sottosegretario calabrese Nicola Lombardi, socialista, e ai deputati
Luigi Fera e Gaspare Colosimo. Nessuno dei quattro politici mosse un
dito e i due centri abitati rimasero ancora isolati per quasi 40 anni fin
quando negli anni 1954-1956 l'Opera valorizzazione Sila, con i soldi
della Cassa per il Mezzogiorno realizzò l'opera. Più o meno nello stesso periodo,
sempre con i soldi della Casmez, furono effettuati alcuni interventi
di manutenzione straordinaria alla chiesa di Santa Maria del
Soccorso e, per l'occasione, fu completato anche il campanile che
i monaci, nella loro estrema povertà, non erano mai riusciti
a completare.
Anche in quest'occasione come accadde sempre a Caccuri, ma
anche in tutta la Calabria, la definizione del tracciato subì
pesanti condizionamenti da parte dei proprietari dei terreni,
soprattutto nel tratto iniziale partendo da Caccuri con i soliti sconci
lasciati in eredità alle future generazioni.
La costruzione di quest'opera non solo risolse l'annoso
problema del collegamento tra Caccuri e la sua popolosa frazione, ma
rappresentò una delle prime formidabili occasioni di lavoro per i
nostri padri, dopo decenni di emigrazione oltre oceano e dopo il
nefasto ventennio fascista, naturalmente strumentalizzata dalla
Democrazia cristiana, dai suoi governi e dai suoi attivisti e fatta
apparire come una gentile concessione dei Fanfani, dei Pella, degli
Scelba, anche perché gli operai, molti dei quali assunti grazie
alle raccomandazioni del locale segretario della DC o del prete, si
divertivano a imprimere lo scudo crociato sul cemento fresco dei
muri di sostegno e sulle spalle dei ponti. La popolazione, comunque,
aveva contezza che l'opera veniva realizzata con i soldi della Cassa
del Mezzogiorno, tanto che il cantiere veniva identificato come
" 'u Menziorrnu" e, ancora oggi, per dire che qualcuno
lavorò alla costruzione di quella strada si dice: " Ha
fatigatu allu Menziornu."
CACCIARE 'E MINNE 'E FORA - GLI ANATEMI CACCURESI

In questa pagina
troverete alcuni dei tantissimi anatemi caccuresi, invettive,
maledizioni che si scagliano nei momenti di ira nei confronti di
qualcuno che ci ha fatto del male. Credo valga la pena di
tramandarli ai nostri pronipoti come patrimonio indisponibile della
nostra storia e della nostra cultura.
Te
vo'scigare 'nu lampu! (Possa
tu essere fatto a pezzi da un lampo!")
Troni sbrullannu ( Lampi
di striscio) Il dialetto caccurese non fa molta
differenza tra lampo e tuono per cui il significato è sempre quello
di essere colpito dai fulmini.
Vo
jire l'acqua, l'acqua! Possa tu trovarti in
mezzo ad una piena!
Vo
jire l'acqua appenninu! Possa trovarti in mezzo ad
una piena che ti trascina a valle!
Te
vo trovare a Vitette! (Vitette è una località alla foce del Neto.
L'invettiva, in pratica, significa: possa tu essere travolto da una
piena e portato e Vitette dalle acque limacciose del fiume.)
Te
via jire cu' lu portigallu alla vucca! (Quando si ammazzava un lupo
gli si metteva tra le fauci un'arancia infilzata in uno stecco.
Chiaro, quindi, il significato dell'anatema.)
Te via' ammaccàtu (variante affettusa
di "Te via ammazzatu!" Possa tu essere
ammaccato!
Te via chjinu 'e chjummu (Possano riempirti di piombo)
Te
via' scumpunnutu! Possa
ti essere scomposto, confuso!
Te
viari orbu! Possa tu essere orbo!
Te via' cecatu - Possa tu essere cieco.
Te
via scurciàtu Possa tu essere scorticato!
Te vo ammazzare Gesù Cristu ca 'un te paghera mancu 'nu sordu! In
pratica "Possa tu morire di morte naturale (ammazzare Gesù
Cristu) perché lui non ti pagherebbe nemmeno un soldo.
Vo
jire pettiscigàtu! Possa tu essere uno
straccione, un miserabile
Chi
si nne vo' abbuttare 'na timpa! Possa tu
precipitare in un dirupo che ti faccia da tomba!
Chi
vo jire limmertu e pellegrinu! Possa
tu essere sempre un povero straccione, un morto di fame, un
pezzente!
Chi vo' jettare sette cannate 'e sangu - Possa tu
buttare sette brocche di sangue!
Va
fa 'ncinefrica! Vai a quel paese! (Detto,
però, in modo affettuoso)
Molti
di questi anatemi venivano usati indifferentemente "cu'
lu sangu all'occhji", ciò accecati dalla rabbia, quindi con la
segreta speranza che cogliessero davvero il destinatario, ma anche
per scherzo, bonariamente, col tono che faceva capire al
destinatario che si trattava quasi di un gesto affettuoso, ma la
cosa più temuta dai caccuresi era la maledizione della propria
madre quando l'odio tra i due arrivava al punto tale che la
genitrice, pur di maledire il figlio che si era macchiato di una
gravissima colpa, rinunciava perfino al pudore che nei secoli scorsi
era considerato il bene più prezioso. Allora la donna si scopriva
il seno (se cacciava le minne 'e fora) per rendere l'atto più
solenne e terrificante e malediva il frutto delle suo grembo.
Anche una cosa così grave e terribile, però, per gli
arguti caccuresi diventa un motivo di sfottò quando un maschio
minaccia per scherzo un'amico con la battuta: "Ca me cacciu 'e
minne 'e fora."
L'IMMACOLATA DEL 1962

Digitando la parola Immacolata nel mio personale "motore di
ricerche" ho ritrovato questa seconda foto della processione
dell'Immacolata che scattai nei primissimi anni 60, precisamente l'8
dicembre del 1962. E' stata scattata qualche attimo dopo quella che
ho pubblicato stamattina, quando la processione, lasciatosi alle
spalle il viale del Convento, aveva già imboccato la via XXIV
maggio diretta in chiesa. In questa sono riconoscibili diverse
persone tra le quali, oltre al parroco don Salvatore Peri e a
Giovanni Muto (Vatticore) con la croce di penitenza, la guardia
comunale Luige De Rose, Gennaro Rao che porta la statua, Marcello De
Franco in basso al centro tra ragazzi con alle spalle Rocco
Spatafora e alla sua sinistra Vincenzo Perri e poi ancora un ragazzo
col basco, un cugino dell'ex sindaco Luigi Durante.
INVENTORI E SFRUTTATORI

Quando oggi
pomeriggio gli occhi mi sono caduti su questa foto scattata tre anni
fa nel corso di una visita guidata dell'Università Popolare
Mediterranea al Museo Storico della Salina di Lungro nel quale è
custodita questa bellissima macchina da scrivere della Remington la
mente è tornata indietro di quasi 60 anni, alla primavera del 1962
quando vivevo a Merano e con la mia classe (1^ media) gli insegnanti
mi portarono a visitare un castello nei dintorni della città nel
quale era custodito un esemplare della macchina da scrivere di Peter
Mitterhofer ritenuto da molti l'inventore di questo utilissimo
apparecchio, forse proprio quello di Parcines, il paese di
Mitterhofer.
La macchia da scrivere, però, pare abbia diversi
inventori tra i quali Pietro Conti e Giuseppe Ravizza, i più
accreditati, ma anche Giuseppe Fantoni da Fivizzano (MS). In ogni
caso una invenzione tutta italiana purtroppo sfruttata,
commercialmente da un'azienda americana; come quella del
telefono contesa tra il valdostano Innocenzo Manzetti e il
fiorentino Antonio Meucci, ma sfruttata da un furbastro come Graham
Bell che diventò miliardario, mentre Manzetti e Meucci morirono in
povertà.
GRANDI LETTERATI CACCURESI E CERENTINESI
I
CAGNUSI 'E CACCURI
Gli
sfottò tra caccuresi e cerentinesi e le storielle, i racconti che
ne derivarono meriterebbero qualche pagina di qualche antologia
italiana essendo dei veri e propri capolavori.
Invenzioni come quella della siepe eretta dai caccuresi in contrada
Monache per impedire che i cerentinesi udissero "a
scrocco" il suono della campana caccurese che scandiva le ore,
o quella dei caccuresi che per ripicca tentano di rubare la chiesa
di San Teodoro, tentativo sventato dall'accorrere di tutte le donne
incinte sul sagrato per appesantire il tempietto e vanificare la
sortita caccurese o quella del mostro di Trabbese che terrorizzò un
cerentinese e che risultò alla fine essere solo un'innocua
chiocciolina ci lasciano col fiato sospeso per l'inventiva,
l'arguzia, la bonomia di soggettisti e sceneggiatori che, in un
altro contesto, sarebbero diventati famosi e ricchissimi. Onore e
gloria a questi ignoti autori che non avevano nulla da inviDiare ai
Collodi, ai Grimm. ai Perrault.
La
leggenda del mostro della valle di Trabbese è senz’altro una
invenzione di qualche buontempone caccurese del secolo scorso. Ma i
simpatici amici cerentinesi non accettavano passivamente
frizzi e lazzi dei vicini burloni e, a loro volta, inventavano delle
altre storie non meno spassose e salaci ai danni dei
Caccuresi. Pare
che a quei tempi, per una carenza di iodio nell’acqua di Caccuri e
nell’alimentazione in generale, si verificasse nella popolazione
del paese vicino, un’alterazione della funzione tiroidea con
l’insorgere di gozzi a volta anche molto consistenti. Ovviamente
il disturbo affiggeva anche le ragazze caccuresi che, però, a detta
dei Cerentinesi, esibivano questo non propriamente estetico
accessorio con orgoglio “elevandolo addirittura a titolo dotale”
Il gozzo, insomma, insieme al corredo, era, per le giovani
caccuresi, anche una sorta di dote. E così, quando una di
loro tardava a trovare marito, pare si rivolgesse al patrono, San
Rocco, con questa preghiera propiziatoria.
Santu
Roccu mio benigno
San Rocco mio, benigno
Tu
lu sai pecchì ce vegnu
Tu sai perché vengo ad implorarti.
Tanta
brutta nun ce signu,
Tanto brutta poi non sono,
Nu
pocù ‘e cagnu puru ‘u tegnu.
E possiedo anche un po’ di gozzo.
Questa simpatica storiella che mette un po’ in ridicolo le
bellissime ragazze caccuresi è stata ripresa dal
compianto dottor Giuseppe Aragona nel suo pregevolissimo volume su
Cerenzia pubblicato nel 1989 e ristampato recentemente.
A CACCIA DI GALASSIE NELLA TERRA DI LUIGI LIILIO

Stamattina a Savelli mi è capitato
di fotografare questa bellissima meridiana collocata sulla facciata
della chiesa dei Santi Pietro e Paolo adiacente lo stabile nel quale
fu alloggiata per molti decenni la Pretura, attiva già nella
seconda metà del XIX secolo. Sotto la meridiana una tabella per il
calcolo dell'equazione locale di Savelli che consente di calcolare
esattamente il mezzogiorno del luogo che, com'è noto, non coincide
con l'ora segnata dall'orologio che è quella del meridiano che
passa per l'Etna, ma varia di qualche minuto in più o in meno a
seconda che il paese si trovi a ovest o a est dello stesso meridiano
etneo. Non ho avuto l'opportunità di chiedere notizie in merito, ma
credo si tratti di una lodevole iniziativa dell'
osservatorio astronomico Lilio, l'astronomo, medico e
matematico cirotano ideatore del calendario gregoriano, sorto
qualche anno fa nella zona di Pino Grande e che consiglio di
visitare a tutti gli amici perché si tratta di una struttura unica
in Calabria, ma anche tra le più importanti in Italia e in
Europa, che collabora anche con l'Agenzia spaziale italiana.
Per renderci conto delle potenzialità di questo nostro osservatorio
basti pensare che il 22 marzo 2017 il suo telescopio ha fotografato
la Galassia Sombrero lontana 29 milioni di anni luce e nel
settembre dello stesso anno ha ospitato il XXV Congresso Nazionale
del Gruppo Astronomia Digitale con la presenza di astronomi di tutta
Italia. Un'altra eccellenza calabrese della quale possiamo e
dobbiamo andare fieri e che dimostra, che se si volesse si potrebbe
fare ricerca di qualità anche in questi nostri paesini destinati a
morire nel giro di qualche decennio per lo spaventoso spopolamento e
per l'abbandono totale di uno stato che da sempre investe i suoi
soldi, anche quelli che l'Europa gli dà per il Mezzogiorno, nella
"terra dei conquistatori risorgimentali", mentre qui
abbiamo bisogno di tutto, a cominciare da strade un po' più decenti
per raggiungere Savelli e il suo osservatorio, ma anche tanti paesi
e città della nostra bistrattata, grande, bellissima
Calabria.
'A
SARMA 'E LIGNA SUTTA 'U LETTU - AH, L'AMORE CHE COSè!

La salma era un'antichissIma
unità di misura in uso già nel XIII secolo in Sicilia, poi estesa
in seguito a tutto il Regno di Napoli, usata sia per misurare le
superfici agrarie, sia gli aridi e, in alcune zone,
anche i liquidi. Il valore variava da zona a zona per le
estensioni di terreno, ma anche per gli aridi.
A Caccuri e in qualche paese vicino la salma ( in
dialetto sarma) era il carico di legna che poteva trasportare un
asino o un mulo per cui esisteva 'a sarma 'è ciucciu e la sarma 'e
mulu. Fino agli anni '60 la legna che si raccoglieva nei pochi
boschi demaniali sfuggiti alla rapacità dei privati (il famoso
furto di Marx all'origine della proprietà privata del quale tanti
cianciano a vanvera) o in quelli privati costituiva l'unico
combustibile per riscaldare le case. La raccolta e il commercio
erano affidati ai "ciucciàri", i proprietari di asini e
muli che la vendevano appunto a "sarma" che variava a
seconda della stazza e dell'età dell'animale di cui si disponeva.
Il prezzo di una "sarma" oscillava tra le 750 e le 800
lire che corrispondevano a circa la metà della paga giornaliera di
un manovale.
Nel rione Croci, nel quale a quei tempi c'erano ancora
poche case e molto spazio, la gente accatastava la legna all'aperto
nei pressi della propria abitazione, ma nel centro storico (allora
si chiamava 'u paise o semplicemente Caccuri come se i Croci fossero
un altro paese) pochissimi avevano la fortuna di avere un locale nel
quale conservarla, anche perché molte abitazioni erano in realtà
dei bassi monolocali per cui spesso si utilizzava lo spazio sotto il
letto. Fu per questo che una volta mio padre si procurò un buco in
fronte cercando di nascondersi disperatamente sotto il letto alla
vista della madre di una fidanzatina che li sorprese nel basso nel
quale si era infilato per amoreggiare. Ah, l'amore che cos'è!
'E
RUSELLE? MEGLIO FARSELE DA SOLE CHE "ABBUSCARLE"

Caldarroste, pastilli, veròle,
brostuli. mondà, frogiate, mondine: per noi soltanto ruselle,
le dolci, calde ruselle che ti scaldano le manI e il cuore e ti
deliziano, il palato, specialmente quando hai la fortuna di trovare
castagne 'nzerte, che siano 'nzerta russa, 'nzerte di Mammola, di
Palermiti (addue 'un se riciu' cchjiu misse cantate) o di Caccuri,
ma, 'a 'nu malu riparu vanno bene pure le mie riggiole arrostite con
una vecchia rusellare sul gas che non è il massimo, come fa notare
qualcuno, ma che è megliu 'e nente o meglio è Il prezzo che
paghiamo alla modernità dei radiatori.
A volte le ruselle ce le possono pure regalare, ma se
vi dicono "Te via abbuscare 'na rusella" oppure "C'ha
abbuscatu 'na rusella", beh, non sono proprio gli auguri 'e ra
Rrina.
'A SAGLIOLA E LA SCUOLA DI STRADA

Per noi fanciulli degli anni 50 e
dei primissimi anni 60 che avevamo la straordinaria fortuna di
vivere negli sperduti paesi interni della Calabria, meglio ancora
se, come nel mio caso, in un rione all'estrema periferia del paese
che stava nascendo allora, con quattro case, un forno, una fontana,
due viuzze sterrate e polverose con a ridosso stalle e porcili, la
strada era una vera e propria scuola dove imparavi un sacco di cose,
assistevi dal vivo a quelle attività umane che consentivano di
produrre ciò di cui avevamo bisogno, a procurarci il cibo, gli
indumenti, perfino gli svaghi: dalla castrazione dei maiali al
metodo originale che le nostre nonne adoperavano per capire se la
gallina stava per far l'uovo o se ci voleva ancora tempo, alla
filatura, al lavoro a maglia, alla macellazione o al governo degli
animali degli animali e ad altro ancora acquisendo quella cultura e
una quantità di nozioni che nessun maestro, nessun professore di
liceo avrebbe mai potuto darti. Spesso assistevamo agli scambi
commerciali e alle interminabili manfrine, schermaglie, sceneggiate
per spuntare un prezzo più favorevole e poi alla pesatura dei
generi. I fruttivendoli ambulanti che allora arrivavano in paese con
le prime Api Piaggio si portavano dietro la stadera, ma, a volte,
anche un dinamometro come quello nella foto che non era il massimo
della precisione, soprattutto se era vecchio e un po' arrugginito,
ma, come si dice, "Chissa era l'ugna" che in dialetto
chiavamo " 'A sagliola".
'U SANCERI

“Ntre
vie n’adduru ‘e menta, ‘e rosmarinu,
‘E cannella, ‘e finocchjiu, ‘e petrusinu
E supra ‘e tavule sazizze e suppressàte,
Tielle ‘e crapettu, vinu e stigliulàte.
E alla putiga re za Mariarosa
Rosa marina, ‘u quartu e ‘na gazzosa.”
(Peppino Marino)
‘U sanceri era una salsiccia a base di sangue di maiale, di
pecora o di capra rappreso insaccato all’interno di un budello per
soppressate. Le nostre donne lo preparavano mescolando il sangue di
maiale o di pecora con aglio e prezzemolo tritati finemente, sale,
una spruzzatina di pepe e un filo di olio. Da questa operazione si
otteneva un composto che si insaccava delicatamente nel budello
chiudendolo con uno spago ai due lati. Quindi lo si faceva bollire
per circa un’ora, lo si lasciava raffreddare e lo si serviva a
fette accompagnandolo con un rosso di vigna di Barracco.
U sanceri, pur
con noi diversi e con l’aggiunta di ingredienti diversi è
presente in molti altri paesi e culture come la morcilla di Burgos
(Spagna) che si consuma anche in Uruguay, la salsiccia di sangue
ucraino o la Aranda de Duero.
L'ISTRUZIONE
NELL'ITALIA PRE UNITARIA

Una
delle tante “leggende metropolitane” descrive i meridionali
prima dell’unità d’Italia rozzi, analfabeti, non scolarizzati.
In realtà questo è il quadro delle popolazioni meridionali dopo un
ventennio di dominazione sabauda. Prima del 1860, infatti, i livelli
di analfabetismo erano più o meno gli stessi in tutta la penisola
con qualche prevalenza in alcune regioni del nord. Diversa era
invece la situazione degli studi universitari nei quali il Sud
primeggiava largamente sia sul Nord che sul Centro come si evince da
questo specchietto. Fra l'altro il Regno delle due Sicilie
ospitava la Federico II, la più antica università pubblica d'Italia,
fondata dall'imperatore svevo, dopo quella di Bologna che
però fu fondata da una libera associazione di studenti, e
l'Orientale, la prima scuola di sinologia e di lingue orientali
italiana.
ISCRITTI
ALLE UNIVERSITA’ ITALIANE SECONDO IL CENSIMENTO DEL 1861
Macroregioni
o città
Numero degli iscritti
Napoli
9.459
Sicilia
1.069
Totale due Sicilie
10.528
Sardegna
137
Piemonte,
Lombardia, Veneto
2.572
Emilia
Romagna
1471
Toscana
764
Umbria
e Marche
259
Totale resto d'Italia
5.203
Dal
che si deduce che nell’anno dell’Unità d’Italia l’ex Regno
meridionale aveva esattamente il doppio degli studenti universitari
di tutto il resto della Penisola. E meno male che eravamo
"peggiori dei beduini" (detto alla quella personcina
perbene ed equilibrata di Cialdini), rozzi e ignoranti!
QUALCHE
CENNO SUI "TRE FANCIULLI"

La foto a sinistra ci mostra quel che rimane di un'epigrafe scolpita
su pietra tufacea e collocata sul portale della chiesetta dei Tre
Fanciulli, un tempo annessa al monastero omonimo i cui resti erano
ancora visibili alla fine del XVIII secolo. Da questo prezioso
documento apprendiamo che la chiesa dell'antico monastero basiliano,
incorporato nei possedimenti florensi dopo che con la donazione di
Enrico VI all'abate Gioacchino da Fiore era stato spogliato dei suoi
beni, fu restaurata per l'ultima volta dal giovane abate
commendatario Giacomo Caracciolo nel 1717. Bisognerà aspettare
ancora due secoli prima degli ultimi interventi che ci consegnarono
la chiesetta come la vediamo oggi.
CACCURI
ADERISCE INCONDIZIONATAMENTE AL REGNO D'ITALIA

Il
21 ottobre del 1861 anche a
Caccuri si tenne il famigerato plebiscito
per l’Annessione del Regno delle due Sicilie, aggredito e occupato da Garibaldi con i suoi legionari
e dall'esercito sabaudo, al Regno
d’Italia. Nell'occasione i caccuresi votarono compatti per i nuovi
padroni. I Si, infatti, furono 296 su 296 votanti. Tanto
entusiasmo patriottardo e tanto amore per i piemontesi
non si vedeva dal luglio precedente quando una compagnia di soldati
guidati da un tenente e decine di guardie nazionali di San Giovanni
in Fiore furono costrette a occupare per diversi giorni il paese per
sedare una rivolta scoppiata quando i partigiani caccuresi issarono
una bandiera duosiciliana sul campanile della chiesa di Santa Maria
delle Grazie. Volubilità dei nostri bisnonni o i brogli esistevano
anche a qui tempi? O forse, semplicemente, fecero votare solo
i servi?
TUNDRA,
LA TIGROTTA CACCURESE

Nel
1997, il 2 giugno, dopo tanti anni durante i quali
Caccuri non aveva più dato la luce a nessun bambino, ne ad altre
creature, tranne qualche cane o qualche gatto, si ebbe una nascita
singolare: si trattava di un cucciolo di tigre, al quale venne
imposto il nome di Tundra. La tigrotta nacque da una tigre
in cattività in un circo attendato in quei giorni nel nostro paese,
un evento rarissimo come mi spiegarono all'epoca gli amici circensi.
Purtroppo " l' illustre caccurese" morì
qualche giorno dopo mentre il circo si trovava a Scandale dove
si era nel frattempo trasferito e
da allora a Caccuri continua a non nascere nessuno.
UNA
FOTO DI GRANDE VALORE STORICO

Questa foto
che mi pare faccia parte dell'archivio dell'amica Caterina Barone,
seppur non molto nitida, considerati gli apparecchi fotografici del
tempo, ha un grande valore storico per noi caccurese. Credo che sia
una delle pochissime foto a colori, se non l'unica, nella quale è
possibile vedere "la mezzaluna", che non è la collina che
poi prese questo nome, ma il catino turchino che la baronessa Giulia
Barracco fece murare nel 1885 nello spuntone roccioso
per servire da abbeveratoio a gli uccellini e del quale ho
parlato più volte. Il catino di colore turchino indicato
nella foto dalla freccia rossa, visto dal basso sembrava davvero una
mezza luna come lo ribattezzarono prontamente i nostri nonni
estendendo poi il nome a tutto lo spuntone. Una fortuna che esistano
foto come queste che ci aiutano a non perdere la memoria di un
sublime gesto d'amore per gli animali e quella di una delle più
belle formazioni arenarie dell'intera Penisola.
RICORDI
CACCURESI

Il cuore economico e sociale di Caccuri era, fino agli inizi degli
anni ‘60 del secolo scorso, il tratto di strada compreso tra la
piazza (quella senza nome da non confondere con piazza Umberto) e
via Misericordia (resti della casa dei Simonetta). In poco più di
cento metri vi erano il forno di Salvatore Blaconà, tre bar, un’ osteria, una trattoria, due
botteghe di sarto, quella di mastro Giovanni Gallo e quella di
mastro Giovanni Secreto, due barbieri, zio Gennaro Parrotta e mastro
Luigi Tallerico, un fabbro ferraio, zio Michele Marino, due calzolai,
due negozi di generi alimentari, quello di Rosina Iacometta, vedova
Fazio e quello di Angelino Secreto, due macellerie, quella di
Eugenio Pitaro e quella di Luigi Iacometta, il
fruttivendolo, un negozio di calzature, un negozio di tessuti,
Maria 'a Marrucarmina (la moglie di mastro Carmine Chiodo) un negozio di elettrodomestici
e una rivendita di tabacchi.
Le osterie, i bar e i saloni erano dei veri e propri centri
di aggregazione e di socializzazione dove la gente si incontrava e
discuteva di tutto. Nel bar Quintieri, all'incrocio tra via
Misericordia e via Portapiccola, c'era anche un bigliardo a stecca e
un altoparlante collegato a una radio col grammofono che diffondeva
le canzoni in voga negli anni '40 e '50. Fu da quell'altoparlante
gracchiante che ascoltai da bambino le note de "Lu pecuraru de
Cerenzia" e de "La donna riccia" di Modugno. Nel piccolo
slargo davanti la casa dei signori Manfreda, verso la metà del
Novecento, erano ubicati,
fra l'altro, l'ufficio postale che, trasferitosi poi in piazza
per un breve periodo, fu ospitato nella casa di donna Lisetta
Lucente alla Misericordia, e l'ambulatorio medico del dottore
Vincenzo Ambrosio, di fronte casa Manfreda. Altre
attività commerciali e artigianali erano poi sparse nel resto del
paese, come i negozi di alimentari di De Rose alla Iudeca, di
Pignanelli in via Simonetta, l'osteria di Salvatore Lombardo
all'inizio di Salita Castello, il tabacchino di Giovanni Marullo in
via Chiesa, i due negozi di Alberto e Francesco Macrì (Tata) in
Salita castello, le falegnamerie di mastro Peppino Pitaro e di
mastro Peppino Di Rosa alla Destra e la forgia di mastro Orlando
Girimonte ai Mergoli.
LA PREVENZIONE DEL MAL DI TESTA

Secondo un’antica credenza popolare caccurese spuntando una ciocca
di capelli il primo venerdì di marzo
ci si liberava del mal di testa per tutto l’anno senza dover
ricorrere agli analgesici.
Una medicina popolare che ricorda un po' quella di Plinio il vecchio
di
grande attualità in questo periodo di terrapiattisti, di scie
chimiche, di falsi sbarchi sulla luna e di vaccini che provocano
l'autismo che probabilmente si affermò quando si dava la caccia ai
gatti, malvagie creature amiche delle streghe.
LE FARMACIE CACCURESI DA LUISA DE MATTEIS A EMILIO SPERLI'

Il 25 aprile del 1922 il Comune di Caccuri autorizzò l’apertura
di una farmacia di proprietà del dott. Vincenzo De Franco in
sostituzione di quella della signora Lucia De Matteis. Don
Vincenzo, oltre che in medicina e chirurgia, era anche laureato in
farmacia e i suoi prodotti galenici erano molto efficaci. Quando fu
nominato segretario comunale in sostituzione del cognato dott.
Vincenzo Ambrosio che divenne medico condotto, per evidente
incompatibilità con l'ufficio pubblico ricoperto, dovette cedere la
condotta al dottore cutrese Raffaele Piterà la cui farmacia era
ubicata in uno stabile di Salvatore Durante in via Simonetta e
quando anche Piterà, uomo di grande compagnia, famoso
"epicureo" e gaudente lasciò libera la condotta,
questa passo al dottor Gaetano De Franco che trasferì la farmacia
nell'antico palazzo De Franco in via Buonasera. Nei primi anni
'60, infine, gli subentrò il dott. Emilio Sperlì e la farmacia si
trasferì in Salita Mergoli.
'
A QUINNICINA

Poiché per
le nota emergenza sanitaria quest'anno si è dovuto rinunciare anche
alla Quinnicima, la secolare tradizionale dialettale preghiera delle
donne caccuresi, chi volesse recitarla può farlo on line.
L'importante che la tradizione venga conservata.
Deus
in adjutorium meum intende
Domine
ad adjiuvandum me festina
Gloria
al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo
Com’era
in principio, ora e sempre, nei secoli dei secoli, amen.
Grazie
Segnure, ne ngninocchjiamu alli peri vorri e ne sentimu cumpessàre
tutti i peccati c’hamu fattu ‘e quannu simu nati, fino a mo. O
mio amato buon Gesù, chi pe’ la redenzione ‘e ru munnu volisti
nascere, patire e morire, circondato ‘e ri Jurei, ‘e Jura
traditure, con nu baciu traditu, cumu agnellu attaccatu e portatu
allu macellu; portato addue Anna, Erode, Pilato e Caifa, accusatu
‘e ri farsi testimoni, vattutu cu ‘na canna, ncurunatu re spine,
sputatu n’faccia, abbiveratu cu’ fiele e acitu, cu tri chjovura
‘nchjiovarunu i peri e le manu e tutte l’ossa e ru corpu se
meravano. Segnure, pietà e misericordia ‘e ru cielu e re la
terra, di boni e di mali.
Signor
mio Gesù Cristo Crocifisso, figlio della Beata Vergine Maria,
aprite le vostre sante orecchie ed ascoltatemi come ascoltaste
l’Eterno Padre sul monte Calvario.
(Credo)
Signor
mio Gesù Cristo, Crocefisso, figlio della Beata Vergine Maria,
aprite i vostri santi occhi e guardatemi come guadaste dall’albero
della croce la vostra cara madre afflitta e addolorata Maria:
(Credo)
Signor
mio Gesù Cristo Crocifisso, figlio della Beata Vergine Maria,
aprite la Vostra Santa Bocca e parlatemi come parlaste a San
Giovanni l’Evangelista quando lo desti per figlio alla Vostra
Dilettissima Madre Maria. (Credo)
Signor
mio Gesù Cristo Cocifisso, figlio della beata Vergine Maria, aprite
le Vostre Sante braccia ed abbracciatemi come abbracciaste
l’albero della Croce e la Vostra Cara Madre Afflitta e Addolorata
Maria. (Credo)
Signor
mio Gesù Cristo Crocifisso, figlio della Beata Vergine Maria,
aprite il vostro Amorosissimo cuore e in tutto ciò che vi domando
esauditemi come piace alla Vostra Santa Volontà. (Credo)
Tre
“Credo” in onore delle tre ore che stette il Signore in agonia.
Oi
Gesù, oi Gesù, tutti quanti chjiamamu a Gesù, Gesù quannu
me veni appressu e ra grazia veni. Gesù mio quantu si’
bellu, Gesù mio quantu si’ caru, Gesù mio quantu si’
riccu e nue simu poveri, tu fannìla ‘a caritate cumu a
tutte l’atre anime chi simu unite alla preghiera, Gesù mio
stenna ‘sta manu ca tutti nue facimu pace, ca ‘stu sdegnu s’alluntana,
Gesù mio cumu me piaci. Oi Gesù, oi Gesù, oi San Giuvanni mio,
convincialu tu, ca tu he dichiarare ca ‘sta’anima mia si
l’ha de pijare Gesù, Giuseppe e Maria. Cruce Sante ‘e ru
Segnure, tu veni cu’ rigure e lu spiritu infernale mannalu cu lu
male, de male e d’agonia, Cristo andate via. Fujiti, male
occasioni, ‘e ra mente mia, ‘e ra casa mia, ‘e ra gente mia,
‘e ra ruga mia. Segnure pietà e misericordia du cielu e da terra,
‘e ri boni e di mali. Chi bella cosa chi va pe’ la terra, è lu
Gloriosu Figliù re Maria, chillu c’ha criatu celu e terra e
spargia sangu pe’ l’anima mia. O mio amato e buon Gesù, tu
quannu si chjiamatu, tannu veni, alle quattro, alle sie, alle nove
ure, quannu nascia la Luna e quannu chjova, veni a ‘sta casa, re
‘sta peccatura ca tutta chista casa cunsùla, apri l’ali ca cu
tia mi c’aruru, te pigli l’alma e me lassi lu core. Stamattina
jennu pe’ via scontai Gesù, Giuseppe e Maria. Io le fìcia ‘na
vera nchinata, si mi ce vo’ a mia a ‘sta compagnia. Illa ha
rispusu cu parola amata: “Figlia, si vo venire sta a tia”. Mo
chi me viju re Gesù mmitàta, lassu lu munnu e vaju cu Maria, io te
salutu e te ricu l’Ave Maria.
Grazie
Segnure e tante benedizioni pe’ quantu anime criasti allu munnu e
ra prima fina alla fine.
Grazie
Segnure e tante benedizioni pe’ quantu pampine ‘e arbuli ce
su’ allu munnu.
Grazie
Segnure e tante benedizioni pe’ quantu cocci ‘e rina ce su’
allu munnu.
Grazie
Segnure e tante benedizione pe’ quantu gucce ‘e acqua c’è
su’ allu mari finu a chi ‘e benedizioni superiscianu tutti i
peccati chi ce su’ 'a terra.
CURIOSITA'
ANAGRAFICHE CACCURESI E LA STORIA DI PANAZZU

Nel Cinquecento a Caccuri, figuravano, tra gli altri, anche questi
cognomi: Gaita, Crissune, Accepta, Onesto, Mataxa, Santello,
Maglocco, Cucchiero, Capillo, Bucchinfuso, Crescione,
Quattromani, Spolveri, Xpano, Accimbatore, Patrizio, Mingazio, tutti
scomparsi da secoli. Altri cognomi presente nell'anagrafe caccurese
nei successivi secoli e comunque fino alla metà del XIX secolo
erano i Manfreda, i Procopio, i Montemurro, i Leonetti, i Iesu,
quest'ultimi di probabile origine ebraica.
A proposito dei Iesu, oltre al giovane Francesco, del
quale abbiamo parlato qualche giorno fa, brigante per
"legittima difesa", condannato a morte dai francesi e
fucilato, Caccuri diede i natali anche al famigerato Rosario Iesu,
meglio noto come Panazzu, un sanguinario bandito datosi alla macchia
per avere ferito gravemente un certo Michele Aiello nel corso di una
lite al gioco della passatella (padrone e sotto).
Catturato dagli squadriglieri del barone Barracco nel 1842 dopo sei
anni di scorrerie e latitanza, in una campagna tra Gallea e
Furnia oggi conosciuta (da pochissimi vecchi contadini) come "
'a valle 'e Panazzu". Per molto tempo gli storici locali
attribuirono a Panazzu origini casabonesi, ma sarebbe bastata una
ricerca, anche superficiale presso l'Archivio di Stato di Cosenza
per scovare le liste di fuorbando e gli atti del processo Panazzu e
scoprire che si trattava di un caccurese.
SAMBUCO
CONSERVA E SCIRUBBETTA

L’origine
del toponimo “Sambuco”, la località a ovest del paese,
potrebbe derivare dalla diffusa presenza, nella zona, della omonima
pianta la cui infiorescenza viene usata per la preparazione di
decotti e sciroppi emollienti e per le gustose “pitte cu’ maju”.
Il sambuco, infatti, è conosciuto da noi col nome di
“maju”, perché fiorisce a maggio. Più sicura, invece,
l'origine del toponimo Conserva, dalla conserva della neve che
esisteva nella zona fino ai primi decenni del Novecento. La neve,
che a quei tempi cadeva abbondante anche nel territorio caccurese,
veniva conservata in una grande buca scavata nel terreno e foderata
di paglia che fungeva da isolante termico. Lo strato superiore
veniva ricoperto con terra. Ciò permetteva di conservare la neve
fino all'estate e di poter consumare anche a luglio o ad agosto la
"scirubbetta" (dall'arabo sharbet che poi è anche
l'origine di sorbetto), il più antico gelato al mondo. La
scirubbetta caccurese si preparava generalmente aggiungendo alla
"nive ciciarusa" del mosto cotto, ma si può usare anche
miele, succo d'arancia o caffè, secondo i gusti. Subito dopo la
seconda guerra mondiale poi, sotto la guida del cugino Pietro De
Mare, mio padre e mio zio Ercole Marino realizzarono una centrifuga
che montava la neve consentendo di trasformare la scirubbetta in un
gelato che si avvicinava a quelli di oggi e che vendevano durante la
festa di Ferragosto e San Rocco. La neve veniva trasportata da
Conserva in paese con gli asini in contenitori anch'essi isolati
termicamente con la paglia.
'U
FERRU FILATU (IL
PIERCING DEL MAIALE)
Chi
come me o come tanti altri più anziani di me ha avuto la fortuna di
ritrovarsi fanciullo cinquanta – sessanta anni fa o anche prima,
non può certo raccontare di essersi annoiato. A quei tempi,
infatti, la vita di un fanciullo caccurese o di qualsiasi altro
piccolo paese della Calabria,
ma anche di altre regioni italiane, perfino di quelle che oggi hanno
la puzza sotto il naso, era molto intensa e interessante e ricca di
esperienza, anche se difficile. Gli stimoli, le curiosità, le
cose affascinanti da vedere non gli mancavano certamente perché
viveva a stretto contatto con la natura, con gli animali, con le
attività produttive, insomma con la vita reale della sua comunità.
A qui tempi non esistevano fanciulli che non conoscevano la gallina,
il maiale, la pecora, l’asino; difficile trovare un bambino di
allora che scambiasse una busta in tetra pak per la mammella di una
mucca come può capitare adesso. Vivendo con gli animali e fra gli
animali si assisteva spesso gratuitamente a spettacoli impagabili,
come, ad esempio, l’evirazione del maiale. Anche noi avevamo il
nostro bravo sanaporcelle, figura magistralmente descritta da Carlo
Levi in Cristo si è fermato a Eboli, un certo zu 'Ntone 'u Petrise, che
metteva la sua preziosa scienza al servizio della zootecnica
“casarula” e, quando a primavera o in estate sentivano gli
strilli disperati di un maialetto, accorrevamo, assieme ai gatti e
ai cani del paese (ma quelli lo facevano per interesse e non per
curiosità) ad assistere alla cruenta operazione.
Un’altra operazione curiosa, un
po’ meno cruenta e invadente, ma certamente dolorosa che doveva
subire il povero animale era quella del “ferru filatu.” A quei
tempi, infatti, il cemento scarseggiava o, comunque, se uno lo
comprava cercava di utilizzarlo per mettere su quattro pietre e
costruirsi una casetta, ma non poteva certo prendersi il lusso di
sprecarlo per altri usi. Per questo motivo il pavimento (si fa per
dire) dei porcili fabbricati con muri a secco o con quattro tavole
vecchie incrociate tra loro, era quasi sempre in terra battuta. Ora
i maiali avevano la simpatica abitudine di “rivullere”
(rivoltare) il terreno adoperando il labbro superiore come se fosse
un piccone. Erano così abili e laboriosi che in pochissimo
tempo riuscivano a scavare vere e proprie voragini che mettevano a
serio rischio la stabilità del porcile e, a volte, addirittura
finivano per demolirlo. Per evitare simili catastrofi i nostri nonni ricorrevano
a una soluzione miracolosa: l’applicazione del “ferru filatu”.
Generalmente due uomini afferravano il maialino e, mentre uno lo
teneva stretto, l’altro, con una lesina da calzolaio gli praticava
un grosso foro sul labbro superiore; poi vi infilava un pezzo di
filo di ferro che, aiutandosi con una tronchese e una pinza,
attorcigliava in modo da non sfilarsi; quindi lo tagliava
all’altezza di un paio di centimetri sopra labbro. Dopo di che
l’animale, un po’ spaventato, veniva lasciato libero nel suo
ambiente. La ferita generalmente cicatrizzava nel giro di tre –
quattro giorni e il filo di ferro faceva così bella mostra sul
labbro dell’animale che, appena si provava a scavare una buca,
avvertiva una fitta al labbro che lo costringeva a desistere.
Questa curiosa operazione mi viene in mente
spesso ogni volta che mi capita di vedere in televisione o per
strada un ragazzo o una ragazza col suo bravo piercing sul labbro o,
addirittura, sulle palpebre o sulla lingua come se avessero scoperto
gli extraterrestri, mentre i vecchi contadini quest’arte la
praticavano da secoli. E poi mi vien da pensare quanto dev’essere
bello per il loro partner baciarli o accarezzarli e sentire
sulle labbra o al tatto la dolcezza e il calore del metallo.
ROSUZZA 'E PETRE - PETRE

Viveva
a Caccuri a cavallo tra il XIX e il XX secolo, una povera donna di
nome Rosina, ma che tutti chiamavano Rosuzza e che, purtroppo, non
sono riuscito a identificare. Era una sempliciotta, analfabeta che
non aveva la più pallida idea di come fosse fatto il mondo. Viveva
da sola perché il marito e i figli erano da tempo emigrati in
America e il sogno suo impossibile era quello di poterli un giorno
raggiungere per stare con loro e vincere la solitudine.
In paese le volevano
tutti bene, giovani e anziani, ma si sa, anche se si vuol bene a
qualcuno, se questo qualcuno è un debole, un sempliciotto, uno che
si beve tutto e non ha malizia, finisce per diventare la vittima di
scherzi e sfottò a volte anche pesanti e la povera Rosuzza non
sfuggiva a questa regola.
Ogni volta che era preda della
malinconia e si sentiva più sola, Rosuzza ripeteva, a chiunque
avesse vicino, il proposito di raggiungere i suoi negli
Stati Uniti. I paesani, divertiti le chiedevano come pensava di
andare in America e lei, con tutta l’innocenza e il candore
di cui sono capaci le persone semplici, rispondeva che vi sarebbe
andata a piedi. Allora subentrava la seconda obiezione: “Ma
come farai, ti perderai, tu non conosci la strada come farai per
arrivare in un posto così lontano?", ma anche per questo
Rosuzza aveva la sua soluzione: “Addimmannannu, addimmannannu.”
A questo punto i burlone di turno le
parava davanti l’ostacolo che a suo giudizio sarebbe risultato
insormontabile: “Ma non puoi andare in America a piedi; c’è il
mare, come farai a camminare sull’acqua?” E Rosuzza senza
scomporsi: “’E petre, ‘e petre” (passando da una pietra
all'altra come quando si attraversa un rigàgnolo).
L'INGLESE
DI NONNO SAVERIO
Come
tanti, forse come tutti quelli che, emigrati in America
per lavoro, fecero ritorno in Italia, per loro volontà o
perché costretti da qualche grave motivo, nonno Saverio sentì per
tutta la vita una struggente nostalgia per quel paese che, anche se
lo aveva sfruttato costringendolo a scavare carbone a centinaia di
metri sotto terra come un dannato, gli aveva dato, per la prima
volta in vita sua, un po’ di dignità, quella dignità che invece
gli aveva negato il Regno d’Italia dei Savoia che era nato circa
un ventennio prima di lui e, soprattutto, gli aveva consentito di
mettere da parte le famose seimila lire che occorrevano, agli inizi
degli anni venti a Caccuri per costruirsi un monolocale di otto
metri per cinque. Così, quando nel 1958 un ictus e una conseguente
paralisi lo costrinsero a starsene a casa, lui che nella vita non
aveva mai avuto un attimo di riposo e che quando tornava la sera a
casa con l’asino carico di legna si caricava anch’egli più
della bestia, mi faceva sedere accanto a lui e mi parlava di
quel mondo “fiabesco e sconosciuto.”
Ricordava
ancora un po’ di quell’inglese maccheronico, probabilmente
infarcito da termini gergali o forse dialettali americani che, da
analfabeta, era riuscito a imparare e che pronunciava
ovviamente italianizzandoli, anzi caccuresizzandoli senza
badare alla purezza della lingua e, spesso, cercava di insegnarmi
qualche vocabolo. Così mi divennero familiari parole come “échis”
che poi scoprii essere gli "eggs" e “cisu”,
cheese.
A proposito di “cisu” una volta mi raccontò
la storiella di un napoletano, che entrato in uno store per
fare acquisti, non riusciva a farsi capire dal proprietario e che,
persa la pazienza apostrofò il gestore con un “Pozza murì accisu!”
ottenendo, finalmente l’agognato formaggio.
Da nonno sentii per la prima volta la
parola “country”, che lui pronunciava sbrigativamente “contrì”
con l’accento sulla “I”, nel contesto di una canzoncina
americana che non ricordo e che parlava della nostalgia di un
emigrato per il suo paese. E ogni volta che la cantava (ma forse la
cantava apposta quando era incazzato con l’Italia), malediceva il
“suo country” nel quale era tornato solo per portarsi dietro la
moglie e i figli in America e dal quale non era più riuscito
a ripartire.
Sempre da nonno sentii per la prima volta in vita
mia un motivetto orecchiabile e accattivante in una lingua
incomprensibile che scoprii poi essere la famosa It's a Long Way to
Tipperary” e fu ancora nonno Saverio a parlarmi per primo di un
giovanissimo attore comico che aveva avuto modo di vedere in America
nel corso di uno spettacolino per minatori, un tipetto con il
baffetto, la bombetta, il bastone e delle buffe scarpe, che lui
chiamava a modo suo, nel suo inglese approssimativo, “Ciaracciappa”
e che era in realtà il grande Charlie Chaplin.
FRATELLI FODERO FUOCHISTI
OVVERO "I PURBERARI"

Nella prima metà del XX° secolo gli spettacoli pirotecnici della
festa di San Rocco e delle altre feste che si celebravano a Caccuri
erano curati da fuochisti del
luogo, i fratelli Nicola e Vincenzo Fodero, originari di Belcastro,
ma sposati con ragazze
caccuresi e residenti nel
nostro paese da molti anni. Uno dei numeri più apprezzati dai
giovani e meno giovani del tempo era il famoso “asino
scoppiettante”, una carcassa a forma di somaro costruita con
stecche di legno e altri materiali di fortuna ed imbottita di
girandole e botti che zu Nicola (a destra nella foto) si caricava sulle spalle prima di
accendere le girandole e
di mettersi a “sgroppare” di qua e di là sulla piazza in un
fantasmagorico gioco di luci e colori per la gioia dei presenti.
'E CACCURI MANCU 'U PORCU

Secondo il
compianto dottor Aragona, autore del pregevole volume “Cerenzia,
notizie storiche sulla città antica”, l’espressione “ ‘E
Caccuri mancu ‘u porcu!” spesso sulla bocca degli abitanti dei
paesi vicini, avrebbe origine nella nota vicenda del sequestro di
una mandria di maiali di proprietà dell’Abbazia di San Giovanni
in Fiore ad opera dai dipendenti del duca don Marzio Cavalcante nel
XVII° secolo, "condotti prigionieri" a Caccuri a
bastonate. Tale ipotesi, però, non sembra suffragata da alcuna
prova, né sono stati evidenziati nessi con i fatti di quei tempi.
Forse potrebbe trattarsi di una di quelle solite invettive rivolte
ai cittadini dei paesi vicini con i quali, inevitabilmente, si
creano conflitti e antipatie, come la frase “Gente ‘e San
Giuvanni né pe’ amici, né pe’ cumpagni.”
IL TEATRO VIAGGIANTE NEL
SECONDO DOPOGUERRA
Negli anni ’40 dello scorso secolo, dopo la fine del secondo
conflitto mondiale, anche Caccuri era meta di compagnie
teatrali viaggianti sui carri di Tespi che giravano in lungo e in
largo la penisola cercando di sbarcare il lunario facendo
dimenticare alla gente gli orrori della recente guerra con le loro
“mirabolanti” commedie. Spesso, qui da noi, attori e capocomici
erano vittime di piccole truffe e raggiri messi in atto da non
troppo onesti giovanotti che si intrufolavano nel teatrino
improvvisato (in via Parte nel garage Ambrosio o nel palazzo De
Franco) con le più furbesche trovate, senza pagare il biglietto.
Alcuni personaggi delle opere rappresentate divennero così popolari
da trasformarsi in soprannomi di gente del luogo come
"Famiglio", soprannome del compianto, carissimo compare
Rocco Parrotta.
A
MARIETTA MORRONE LOPEZ
di Umberto Lafortuna

Riordinando i miei archivi mi è
capitata tra le mani la fotocopia di questa stupenda ode del poeta
Umberto Lafortuna dedicata alla signora Marietta Morrone Lopez che
mi sembra degna di essere tramandata
ai posteri per la bellezza dei versi e quella di due persone come la
signora Morrone e l'illustre maestro caccurese che, oltre all'amica
in questione, celebrò con il suo canto anche alltri amici come
Ernesto Benincasa e Vincenzo Guzzo mettendo in luce tutta la sua
grandezza, non solo di poeta per l'infanzia e vernacoliere.
Trascrivo questo capolavoro per chi non
avese dimistichezza con la grafia di un tempo.
A Marietta Morrone Lopez con
sincera, devota amicizia.
Diana nella caccia ebbe fortuna
Perché inseguì gli uccelli con la luna,
Ma
tu, senza la luna e senza stelle,
Ai buoni colpi alterni le padelle.
Ma
se la dea ti vinse per bravura
Nel giusto tiro, non te ne turbare
Quell'era zitellona e niuna cura
alla famiglia la potea legare.
Invece
sposa, madre assai virtuosa
Conforto, luce, amor della famiglia,
Più di Diana tu sei preziosa
Sei rara perla nella tua conchiglia.
Caccuri 27-12-1929
Umberto Lafortuna
TACCE E POSTE

Chi ha meno di quarant'anni
difficilmente avrà mai visto una "posta o una taccia", ma
chi ha la mia età le ricorda benissimo perché gli capitava di
vederle quotidianamente. Le poste si trovano ancora negli
allevamenti di equini o in qualche scuderia, ma le tacce
sono sparite da decenni cancellate dalla tecnologia come le macchine
da scrivere, il calamaio, il lume a petrolio, perfino il flop
disk.
Le tacce erano piccoli chiodi con la testa
schiacciata a forma di ottagono che servivano per chiodare le scarpe
dei contadini come misura antiscivolo, ma anche e soprattutto per
preservare la suola e farla durare più a lungo. Erano quegli
scarponi sporchi di terra che la sera il contadino puliva
accuratamente e spalmava di sego (sivu), grasso di equini o di
bovini, ma che i nostri nonni più poveri prelevavano dalla
"vissica", la vesciga di grasso di maiale, praticamente
strutto. L'operazione aveva lo scopo di ammorbidire la tomaia e
proteggerla dalla terra e dagli agenti atmosferici per evitare che
si tagliuzzasse. Per molti le scarpe con le tacce, oltre che
essere adoperate in campagna, erano anche le calzature per le feste
e per i ricevimenti, tanto allora, almeno da noi, non ci si
imbatteva in un pavimento con le piastrelle di ceramica o in marmo,
al massimo ricoperto di vecchi mattoni cotti in uno dei mattonifici
della zona come quelli di San Lorenzo o di Cerenzia. Le poste,
invece, erano i chiodi con i quali i maniscalchi fermavano il ferro
di cavallo, di asino o di bovino sullo zoccolo dopo averlo spianato
accuratamente spianato con la "rosula", un particolare
scalpello. Dopo aver posizionato il ferro e fissato le
"poste", il maniscalco le spuntava con una tronchesi e la
cavalcatura era pronta per il lavoro.
P.S.
Il maniscalco nella foto era il compianto mastro Pietro Di Rosa,
mentre il proprietario del mulo era zu Rosario Pasculli (Rusaruzzu
'u muletterri dei Barracco).
SANTA
RUMINICA

Fino alla metà del secolo scorso
quando un cacciatore uccideva un lupo riceveva il plauso di tutto il
paese, soprattutto dei pastori ai quali la povera bestia ogni tanto
scannava qualche pecora. La carcassa dell'animale veniva portata
in trionfo per le strade del paese seguita da una folla festante.
Nella bocca si infilava un legno appuntito al quale era stata
infilzata un'arancia per tenere spalancate le fauci dell'animale e
ognuno offriva un dono a colui che aveva liberato il paese
dalla bestia feroce. Una curiosità: il lupo ucciso con l'arancia in
bocca veniva chiamato "Santa Ruminica" (Santa Domenica),
forse perché, in ricordo del rispetto dei leoni nei confronti della
santa che si rifiutarono di sbranarla quando fu condannata al
martirio per cui i carnefici dovettero decapitarla, era considerata
anche la patrona del lupo. I lupi venivano anche scherzosamente
definiti dai nostri nonni "vacaturi", sfaccendati, nemici
del lavoro.
L'ultimo lupo portato in "processione"
nel paese fu ucciso, sul finire degli anni '50, dal signor Vincenzo
Pasculli, impiegato comunale che praticala come hobby la
caccia.
CIAVULE (taccola, corvus monedula)

"Che
fine hanno fatto 'e
ciavule?" è la domanda che ci
poniamo in molti dopo la scomparsa di questi socievoli animali
che fino agli inizi degli anni '90 vivevano nei
fori per impalcatura (grupi 'e nnàita) del
castello, nonostante la caccia spietata che gli davano i ragazzi con
le loro frecce (fionde)
da non confondere con i dardi che scagliavamo con l'arco (freccia
a spizzìnguli dove 'u
spizzìngulu era
appunto il dardo).
Per evitare equivoci dirò che, oltre che i dardi, con
il sostantivo spizzingulu indichiamo
anche la parte della tagliola per gli uccelli dove viene collocata
l'esca.
Ogni anno, nel periodo della nidificazione, quando nascevano i
piccoli, decine e decine di ragazzi stazionavano nella villa
comunale, ai piedi del castello sul lato nord e con le loro fionde
tenevano lontane le madri che cercavano disperatamente di portare
cibo ai figlioletti. Quando i piccoli, affamati si affacciavano dal
foro in cerca della loro madre che tardava, spesso cadevano di sotto
ed erano facile preda dei monelli, altre volte venivano colpiti
dalle pietre scagliate dalla fionde finendo comunque a terra.
Allora, purtroppo, erano altri tempi e non c'erano ancora o
perlomeno non operavano nella nostra zona le associazioni per la
protezione degli animali come la Lipu per cui nessuno si premurava
di far finire quel gioco crudele. D'altra parte anche adesso,
nonostante siano state approvate diverse leggi per proteggere gli
animali, non si riesce ancora a vincere la battaglia contro la
caccia. "Bisogna
pazientà fino ar momento che quarche legge nun distinguerà chi ce
fucila pe' necessità da chi ci ammazza pe' divertimento"
scriveva Trilussa,
ma quel momento non è ancora arrivato. Comunque, nonostante quella
spietata, barbara usanza, le ciavule non
hano mai abbandonato il nostro paese e ci facevano tanta compagfnia; lo hanno fatto invece,
stranamente, quando quella stupida caccia era cessata da oltre
vent'anni. Chissà perchè?
‘U RRUMMULU

Prima
di parlare del gioco bisogna premettere che, per il 90%, i
"rrummuli" dei fanciulli caccuresi, erano fabbricati dagli
stessi, spesso mettendo a repentaglio le mani esposte,
pericolosamente, alle asce o alle raspe. Ma si trattava, quasi
sempre, di veri e propri gioielli. I migliori erano quelli di
"ilice" (elce, leccio), un legno molto duro che preservava
" ' u rumulu" dai danni di cui parleremo in seguito. Le
trottole che si compravano nei negozi, colorate e con la parte
inferiore rigata, venivano disprezzate dai ragazzi che le chiamano
spregiativamente "tavulonzi" (tavoloni, pezzi di legno
molliccio). Il gioco consisteva nel lanciare la trottola,
attorno alla quale si attorcigliava un lungo spago, cercando
di colpire con la punta, quella del malcapitato di turno che era
costretto a "parare", cioè a lasciare la propria trottola
per terra alla mercè degli spietati compagni. Ovviamente le punte
delle altre trottole lasciavano il segno, soprattutto se quella
"parata" era un "tavulonzo". Se non la si
colpiva direttamente, il lanciatore aveva la possibilità di
prendere sul palmo della mano la propria trottola mentre ancora
girava, accostarsi a quella "parata" e colpirla con la
propria ancora in movimento. Se il lanciatore non riusciva a colpire
la trottola direttamente o nemmeno con la sua prendendola sul
palmo della mano mentre ancora girava o, addirittura, non riusciva a
fare girare la propria, doveva rassegnarsi a "parare" a
sua volta "il suo rrummulu" e assistere ai generosi
tentativi di disintegrarglielo.
Per
stabilire a chi "toccava l'onore" di "parare"
per primo, si tracciavano per terra dei cerchi concentrici
(bersaglio) e si lanciavano le trottole. Chi colpiva più lontano
dal centro o non riusciva a far girare la trottola, doveva
rassegnarsi a fare da prima vittima.
Per lanciare la trottola (minàre 'u rrummulu)
c'erano due modi: " a mazza" e a "tira lazzu".
Il primo era la tecnica che usavano quelli bravi, i campioni, il
secondo quello delle schiappe come me. Per lanciarlo "a
mazza" si avvolgeva la cordicella alla trottola, si portava la
mano destra più o meno all'altezza dell'orecchio destro e si faceva
roteare il braccio dall'alto verso il basso. In questo modo si
imprimeva al giocattolo una quantità di energia molto forte e la
trottola girava molto più a lungo. Nel secondo caso, invece, la si
portava all'altezza del petto e la si lanciava in avanti quasi
parallela al terreno imprimendole una quantità di energia molto
minore.
Anche di questo gioco esisteva una variante detta della
"fossarella" (la buca). Tracciato il bersaglio, si scavava
una piccola buca nel terreno alla distanza di una decina di metri.
Stabilito col sistema del bersaglio chi doveva
"parare" la prima trottola, si stabiliva anche il numero
delle "pernate", cioè dei colpi che ogni singolo
giocatore poteva infliggere alla trottola che finiva
nella buca, col perno metallico del suo "rrumulu".
Allora il malcapitato di turno posava la sua trottola al centro del
bersaglio e gli altri lanciavano il loro "rrummulu"
cercando di colpire quello dell'avversario e infliggergli il primo
danno. Poi prendeva la sua trottola sul palmo della mano mentre
ancora girava, si avvicinava a quella posta a terra e gliela
lanciava contro cercando di spingerla verso la buca. Questa
operazione poteva essere ripetuta, dallo stesso giocatore, fin
quando la sua trottola girava. Se sbagliava doveva depositare, a sua
volta, la sua, nello stesso identico punto nel quale si trovava
quella non colpita. Alla fine una delle trottole finiva nella buca e
tutti i giocatori, a turno, le assestavano il numero delle
"pernate" prestabilito tra le lacrime del povero
proprietario. A volte, per evitare l'onta e i terribili danni al
proprio "rrummulu", il poveraccio, lo afferrava di colpo e
se la dava a gambe e allora erano botte da orbi.
Per dovere di cronaca va detto che il più grande
giocatore di "rrumulu" che io abbia mai conosciuto era il
mio carissimo amico e coetaneo Antonio Mercuri che saluto con
affetto.
‘A JOCCA
"
Me para ca se vo' parare jocca" esclamava mia madre quando una
gallina cominciava a crocchiare e col un comportamento insolito, manifestava il suo
"desiderio di maternità".
Allora la mamma prendeva una cesta di vimini, qualche
straccio e si affrettava a prepararle il nido contenente
un discreto numero di uova, sempre, chissà per quale arcano mistero,
in numero dispari, che la chioccia si affrettava pazientemente a
covare. Allora anche per noi fanciulli iniziava un'attesa impaziente
che durava fino a quando le uova non cominciavano a schiudersi e i
pulcini completavano l'opera liberandosi completamene dal guscio.
Qualche volta capitava che fra le uova ve ne fosse uno
"cuvatusu" cioè non fecondato dallo sperma del gallo,
destinato fatalmente a marcire sotto la chioccia per cui dovevamo
sorbirci il suo pestilenziale odore.
Ogni volta che la chioccia si prendeva una breve pausa
allontanandosi per qualche attimo dal nido correvamo a esaminare
attentamente le uova nella speranza di scorgere
qualche segno di vita. Poi,
quando nascevano i pulcini e la covata cominciava a razzolare nel cortile, la seguivamo a prudente distanza perché
la chioccia, temendo che volessimo far male ai piccoli, centuplicava
la sua aggressività. Oggi anche da noi è difficile trovare
qualcuno che allevi ancora galline e chi lo fa le compra già quasi
adulte, di quelle nate nelle incubatrici.
Insomma una sorta di fecondazione assistita. Per le galline
non si applica la legge 40 e la chiesa non è contraria alla
riproduzione dei polli con metodi artificiali. Almeno per ora.
Addio vecchia, nevrotica, amata jocca!
‘U RIOLU
L’orzaiolo
è una fastidiosa infezione di alcune ghiandole dell’occhio che si
manifesta con una leggera tumefazione della palpebra, un malanno non
molto grave che di solito guarisce da solo senza problemi, ma che
comunque è bene non sottovalutare.
La causa dell’orzaiolo, in dialetto “riolu”, secondo i
nostri nonni aveva un’origine curiosa. Insegnavano
in fatti i nostri antenati che bisognava fare molta attenzione,
quando si mangiava in presenza di una donna in stato interessante e
e invitarla ad assaggiare un po’ di tutto di quello che si
stava mangiando. Qualora chi mangiava trascurasse di farlo per
maleducazione o semplicemente per sbadataggine e
la donna desiderasse assaggiare una qualsiasi pietanza,
magari senza chiederlo per discrezione, lo scortese commensale
sarebbe stato colpito, senza alcun dubbio, da un’orzaiuolo, ‘nu
riolu, appuntu, mentre il bambino sarebbe sicuramente nato con una
voglia. Che
dire, ragazzi, anche se oggi nei nostri paesi è sempre più
improbabile imbattersi in una donna incinta vista lo spaventoso
decremento demografico e se le occasioni per
mangiare in compagnia praticamente non esistono più, stative
accorti, non si sa mai.
‘U PUTIGHINU (IL TABACCHINO)

Fino alla fine degli anni ’60 del secolo scorso nel
territorio caccurese esistevano ben 5 rivendite di “Sali, tabacchi
e chinino di Stato” (Putighini). Tre erano ubicate a Ponte di
Neto, Botteghelle e Santa Rania, 2 nel capoluogo (via Misericordia
– Maria Mele, vedova Dardani ) e via Chiesa (Giovanni Marullo).
Negli anni ’20 e ‘30 ve ne era una sola gestita da
Domenico Caccuri (Micuzzu Caccuri).
Nei
vecchi “putighini”, a partire dal 1895, si poteva comprare,
oltre al tabacco e al sale generi del monopolo di Stato, anche il chinino, il
famoso alcaloide che serviva per curare la malaria, una malattia
diffusa in tutta l’Italia post unitaria, un medicinale prodotto
dagli inglesi che ne avevano il monopolio e venduto a caro prezzo il
che condannava i poveri a rinunciare alle cure. Per risolvere il
problema, grazie all’interessamento del deputato e glottologo
Federico Garlanda, fu approvata una legge con la quale lo Stato
acquistava grandi quantitativi di chinino per rivenderlo a prezzi
popolari nelle farmacie e nelle tabaccherie.
'A
ZAGAROGNA

Negli
anni ’50 la vecchia corriera per Crotone passava da Caccuri alle
quattro del mattino, nel buio più pesto. Per questo motivo i
Caccuresi l’avevano simpaticamente ribattezzata “ ‘a
zagarogna”, il barbagianni, che, come è noto, è un uccello
notturno. A quei tempi un viaggio a Crotone o a Catanzaro
poteva a volte trasformarsi in un'avventura, se non un incubo. Non
era infrequente, infatti che la vecchia corriera forasse o l'acqua
del radiatore andasse in ebollizione il che costringeva lo
"chafferro", come lo chiamavano i nostri nonni, a un
supplemento di fatica pe riparare il guasto. Fra l'altro doveva
percorrere la tortuosa e a tratti sconnessa 106 per cui, per
raggiungere da Caccuri la "città di Milone" impiegava
oltre un'ora quando tutto andava bene. Verso la metà di quel decennio, oltre al pullman della ditta Romano, erano in servizio due
noleggiatori, Luigi Pisano, con una Fiat Diesel 1400 e l'anziano
Domenico Capozza con una delle prime Fiat 600.
QUANDO SE 'MMIAVA LA
CAMPANA

Fino
a quasi la seconda metà del secolo scorso la grande campana della
Chiesa di Santa Maria delle Grazie, fusa nel 1578 da Angelo Rinaldi
per l’Università di Caccuri, veniva suonata a distesa ( 'mmiata)
facendola oscillare pericolosamente nel giorno in cui veniva eletto
un nuovo papa. Quattro robusti giovani la
spingevano con forza per imprimerle un moto oscillatorio. La cosa si
ripeteva per alcuni minuti per comunicare l' "habemus
papam" ai contadini sparsi per le campagne caccuresi. Il suono
era così forte, assicuravano i vecchi caccuresi, che i rintocchi
raggiungevano Altilia e Belvedere di Spinello. Il 2 marzo del 1939 in occasione dell’elezione al
soglio pontificio di Eugenio Pacelli, papa Pio XII°, dopo qualche
oscillazione all'improvviso si staccò il battaglio che finì su di un tetto
di una casa di fronte il
campanile sfondandolo. Da allora, per motivi di sicurezza, si pose
fine a questa antichissima tradizione, ma il suono armonioso delle
campane di Santa Maria delle Grazie, suonate magistralmente dal
compianto Alfredo Rao, sagrestano della parrocchia, o da altri
maestri campanari, specialmente in ocacsione di festività solenni,
fu udito fino agli ultimi decenni del secolo scorso.
FARFALLE E UPUPA NEL
CULTO DEI MORTI CACCURESI

Fra i
nostri antenati, almeno quelli caccuresi, erano diffuse alcune
curiose superstizioni che, ancora fino a qualche decennio fa, ci
complicavano la vita e, spesso, creavano conflitti generazionali.
Una era particolarmente stravagante. Una farfalla notturna che
entrava in casa nelle calde serate estive attraverso una finestra
lasciata aperta era, per i vecchi caccuresi del secolo scorso,
sicuramente l’anima di un familiare defunto e veniva lasciata
libera di circolare per casa. Ogni tentativo di scacciarla da parte
di qualche “più sprovveduto” giovane componente della famiglia
era pesantemente represso e l’incauto severamente redarguito.
Altra superstizione
sul tema della morte era il canto dell’ùpupa (‘a pigula),
il bellissimo uccello notturno celebrato anche dal Foscolo (l'ùpupa,
e svolazzar su per le croci | sparse per la funerea campagna), nelle
vicinanze del paese, era sicuramente un presagio di morte. Il giorno
dopo, o al massimo nel giro di un paio di giorni, sicuramente
qualcuno avrebbe cessato di vivere. Stesso valore premonitore aveva
il guaire lamentoso e insistente di un cane.
MATRIMONI E VISCUVATI
RE LU CELU SU' CALATI

Si sa, "Matrimoni e vIscuvati re lu celu su' calati",
ma le ragazze caccuresi in età di marito, nei secoli scorsi,
avevano un sistema infallibile per sapere in anticipo che tipo di marito
era loro destinato: quando volevano conoscere la sorte nuziale che
le attendeva, gettavano per strada una pietruzza e, dalla
"meza porta" guardavano attentamente il primo uomo
che passava. Se era un contadino quella ragazza avrebbe sposato
sicuramente un contadino, se passava un artigiano, sicuramente
sarebbe stato un artigiano a portarla all’altare e così via.
Per conoscere il loro futuro e se la fortuna
sarebbe stata loro amica, ricorrevano, invece, a un oracolo
originale, un rito particolare che veniva celebrato nel mese di
giugno, il 23, vigilia della festa di San Giovanni Battista e il 28,
vigilia della festa di San Pietro e Paolo. Dopo aver tagliato e
bruciacchiato un fiore di cardo selvatico, lo esponevano sul
davanzale di una finestra rivolta verso il mare e recitavano la
seguente preghiera: “San Petru e San Paulu e San Giuvanni re Dio,
facitime virere si fiorisca la fortuna mia.” Se il mattino dopo il
cardo era rifiorito era presagio di grande fortuna se, viceversa,
rimaneva bruciacchiato, era segno che la Dea bendata non era amica.
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